martedì 31 gennaio 2012

Scanners di David Cronenberg (1981)


Certamente Scanners è il film più iconico e riconoscibile di tutta la filmografia di David Cronenberg. In esso le istanze del cinema del regista canadese trovano un’equa e felice espressione. I già elaborati temi della mutazione, il tentativo di rappresentazione visiva dell’attività neuronale, l’incombenza della tecnologia (nella sua accezione più ampia e anti-naturale) sull’uomo sono declinati in Scanners in maniera chiara, immediata, attraverso soluzioni registiche e autoriali di grande valore.
La vicenda racconta dello scontro motivazionale e poi fisico di due fratelli: Cameron Vale e Darryl Revok, entrambi “scanner” ovvero individui il cui sistema nervoso è in grado di annullare lo spazio fra i corpi, riuscendo così a controllare, violare l’individualità altrui. Quella che propone Cronenberg è una vera e propria “fisiologia della telepatia”. Egli pone le fondamenta di un evento sovrannaturale quale la telepatia su una base biologica, organica. Quando gli scanner entrano in contatto con il sistema nervoso altrui (foss’anche quello di un altro scanner) avvengono nel corpo dell’ospite degli sconvolgimenti fisiologici: emorragie, dolori, crampi allo stomaco, nausee, svenimenti. Cronenberg attraverso le visioni differenti (lo saranno poi davvero?) di Cameron e Darryl sembra voler raccontare la patogenesi di individui le cui capacità, la cui “patologia” è mediata dall’assunzione endovena di un farmaco (ormai di culto): l’Ephemerol, dagli effetti calmanti. Il dottor Ruth, che sembra proprio un medico dedito alla PNEI (psiconeuroendocrinoimmunologia), altro non è che la riedizione mainstream di figure raccontate già dai precedenti film di Cronenberg: il dermatologo Antoine Rouge di Crimes of the future, il prof. Hobbes esperto in dermosifilopatia de Il demone sotto la pelle, il chirurgo plastico Keloid di Rabid sete di sangue. Come Ruth, le figure citate sono tutti figliastri degeneri del già degenerato dottor Frankenstein. Individui che seppur consci del limite raggiunto dalla scienza al servizio dell’uomo (limite che Cronenberg ci tiene a manipolare, riscrivere e ricollocare in futuri distòpici e claustrofobici) non esitano nel tentativo di superarlo. Come certe scellerate figure di scienza raccontate da Lovecraft essi desiderano che la visione univoca che li permea si realizzi nonostante essa porti alla creazione di creature mostruose e aberrazioni in grado di provocare morte e distruzione su scala ecumenica.

lunedì 30 gennaio 2012

Fast Company di David Cronenberg (1979)

È incredibile il trattamento che è stato riservato dalla critica e dal pubblico a Fast Company (in Italia Veloci di mestiere). A una lettura superficiale la pellicola può davvero sembrare la maggiore anomalia nella filmografia di David Cronenberg, che fino a quel momento aveva proposto nelle sale due film sperimentali e avanguardistici come Stereo e Crimes of the future e due horror movie apocalittici sul tema della mutazione biologica associata alla scelleratezza della tecnologia (Il demone sotto la pelle e Rabid sete di sangue). In realtà Fast Company è in grado di dialogare perfettamente sia con i temi cronenberghiani sia con l’attitudine personale del regista, con la sua visione.
Fast Company, con i suoi paesaggi posterizzati fatti di verdi catene montuose, cieli azzurri, strade affrontate in piena luce, con l’estetica dei mezzi di trasporto e delle automobili da corsa (che ripropongono i colori e gli stilemi della bandiera americana) si pone come risposta storica alle sue produzioni precedenti, soprattutto quelle sperimentali e complesse dell’inizio. In Fast Company il riferimento principale è la Pop Art. Come nel movimento artistico che negli anni Sessanta cambiò il modo di fruire arte negli Stati Uniti e nel mondo, anche in Fast Company c’è il desiderio di contrapposti all’eccessivo intellettualismo del simbolismo e dell’astrattismo (cardini estetici di Stereo e Crimes of the future) rivolgendo la propria attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della società dei consumi. Ecco, infatti, che in Fast Company troviamo una rassicurante rappresentazione manichea dei personaggi, i buoni lo sono senza grigi e i cattivi lo sono quasi in maniera bidimensionale. La rappresentazione delle corse, dei circuiti, del pubblico, propone una visione della società dei consumi per nulla interessata alla complessità (rappresentata nel film dalla realizzazione tecnica di un motore a doppia carburazione) ma desiderosi sempre della stessa cosa (serialità): veder correre i propri beniamini con le funny car, auto di minore potenza ma reboanti e colorate.

giovedì 26 gennaio 2012

Il demone sotto la pelle di David Cronenberg (1975)

Il commento di Cristiana Danila Formetta in merito al film di David Cronenberg Il demone sotto la pelle nella sua sintesi è perfettamente calzante «folle, delirante, erotico, il corpo come una vergine da violare». La metafora dell’isolamento elaborata con l’introduzione all'unità di luogo del condominio autosufficiente L’arca di Noè si completa con la sua materializzazione corporea attraverso il virus in grado di proliferare e muoversi alla periferia del corpo, “sotto la pelle”. Esso scivola e profana lentamente carni e inibizioni, portando alla frustrazione (cult il frammento in cui Nicholas Tudors dialoga con il suo ospite sottopelle per farlo uscire) e poi alla follia intesa come liberazione panica da tutti i freni inibitori. Provoca una libido centuplicata, esponenziale, finalmente libera di esprimersi nell'asettica quotidianità del condominio. La visione di Cronenberg è chiara e lisergica: la profanazione esterno/interno si compie prima nell’apertura del ventre della giovane naiade Susan Petrie (sventrata con ancora indosso la divisa scolastica) poi - in tutta la sua carica immaginifica - nella vasca da bagno in cui langue Betts (una Barbara Steele in versione dark lady catatonica) che attratta dall’amica e vicina di casa dovrà subire l’ingresso del virus per poter liberare tutta la propria carica sessuale.

Tanti i riferimenti filosofici, da quelli più pop e immediati come il nome dello scienziato che ha elaborato il virus in laboratorio Emil Hobbes a quelli più narrativi ed eleganti come il monologo dell’infermiera Forsythe (una spigolosissima Lynn Lowry) che richiama il Doppio sogno schnitzelriano e neanche a dirlo la psicoanalisi di Sigmund Freud. La sintesi tra eros e thanatos (e il riferimento carico di affetto a George A. Romero) si completa nel finale agghiacciante in cui una sorta di battesimo dell'Es chiude ogni possibilità di limitazione alla diffusione del virus. Il fallimento della visione isolazionista e conservatrice è chiaro e la diffusione ecumenica del virus comincia all'alba, quando il rassicurante rullo continuo della everyday life riprende il suo corso come tutte le mattine, solo apparentemente indisturbato.

mercoledì 25 gennaio 2012

Una storia vera di David Lynch (1999)

Il valore del lungometraggio Una storia vera (in inglese The Straight Story che possiamo tradurre sia come “una storia vera” che come “la storia di Straight”, in riferimento al delizioso eroe canuto della pellicola) di David Lynch è da ricercare negli stilemi, in tutti quei dettagli che fanno della pellicola distribuita dalla Disney un altro tassello nella visione dell’arte cinematografica di Lynch. Dagli uccelli, simbolo di libertà, purezza e consolazione (Rose, la figlia di Alvin costruisce casette per uccelli per lenire il dolore che cova quotidianamente), alla rappresentazione della vita suburbana, fatta di vicinato, conoscenze e senso di appartenenza. Non solo, la pellicola è prova dell’incontro dovuto tra David Lynch, amante e interprete della popular culture (come non ricordare certe scelte visive e musicali in Velluto BluCuore Selvaggio e Strade Perdute?), e l’epica del sogno americano. Potremmo infatti vedere in Una storia vera una sorta di grande romanzo americano per il grande schermo.

Alvin Straight (Richard Farnsworth) è anziano, testardo ma saggio e non ha bisogno di molte parole per comunicare con la figlia Rose (che ha il volto triste e sparuto di Sissy Spacek). Alvin sa bene cosa vuole, riesce a vedere al di là del minimalismo morale dei suoi concittadini, dalla rubizza vicina Dorothy agli anziani amici della caffetteria. Rendendosi conto delle sue ormai compromesse condizioni di salute Alvin decide di partire in sella al suo tosaerba verso il Wisconsin, dove suo fratello Lyle ha appena avuto un infarto. La bellezza della pellicola è tutta nel lungo viaggio attraverso l’America rurale compiuto da Alvin in sella al suo trabiccolo: i campi a perdita d’occhio, l’agricoltura meccanizzata, i volti incrociati e le loro storie (programmaticamente figlie di una visione troppo consolatoria).

Lynch non ha voluto suddividere la pellicola in capitoli per l’edizione in DVD (proprio come vorrà per Mulholland Drive), in modo da rispettare la sequenza narrativa del racconto, girato seguendo temporalmente gli spostamenti di Alvin.
Una pellicola ricca di suggestioni narrative ed emozionali che chiude una certa produzione lynchiana, ormai pronta per migrare verso territori più notturni e surreali come quelli di Mulholland Drive e INLAND EMPIRE.

martedì 24 gennaio 2012

The Devil’s Rejects di Rob Zombie (2005)


Quando nel 2005 uscì La casa del diavolo (meglio usare il titolo originale The Devil’s Rejects), il secondo film di Rob Zombie narrante le vicende della famiglia Firefly, fu immediatamente chiaro che l’operazione del regista e fondatore dei White Zombie era molto più complessa e interessante della cornucopia pulp e citazionistica de La casa dei 1000 corpi. Chiusi i conti con l’amato immaginario di Non aprite quella porta (The Texas chainsaw massacre, 1974) Rob Zombie smantella in maniera programmatica la visione caleidoscopica del primo film, spegne tutte le luci e attenua i colori, altresì scarnifica le figure dei protagonisti che ci appaiono ora come i reietti del titolo. Zombie per realizzare il suo obiettivo chiede a Phil Parmet (che ha una notevole carriera nel campo dei documentari) di occuparsi della direzione della fotografia. Se ne La casa dei 1000 corpi abbiamo visto i Firefly muoversi su un set notturno post-surrealista di matrice splatter in La casa del diavolo li osserviamo alla luce del sole, on the road, macilenti, dolorosamente efferati. L’organismo-famiglia è stato smembrato alle prime luci dell’alba: Mother Firefly (Leslie Easterbrook che sostituisce Karen Black) demoniaca genitrice, umorale ma vinta (nell’accezione più letteraria possibile) è chiusa in una spoglia prigione alla mercé dello sceriffo Wydell (un immenso William Forsythe), Baby Firefly e il fratello Otis (che ha perduto l'albinismo sovrannaturale del primo film) avvolti dalla polvere delle highway americane, sono ora sfatti e lontani dalla placentare protezione della propria casa (si perde tragicamente per i Firefly la libidinosa dicotomia fra interno ed esterno del primo film). I due fratelli, insieme al post-clown loro genitore Captain Spaulding (che ha ancora il faccione di Sid Haig), declinano ferini e violenti le esperienze nel mondo reale secondo la propria natura bestiale (non ritrovata ma di certo libera di esprimersi completamente).

lunedì 23 gennaio 2012

Crimes of the Future di David Cronenberg (1970)


Dopo la realizzazione di Stereo, il giovane David Cronenberg si mette all’opera su un secondo progetto, Crimes of the future, che porta avanti e completa la visione della sua opera prima. Come in Stereo non vi è audio in presa diretta, ma il commento sonoro è affidato a una voce fuori campo che saltuariamente narra e descrive gli eventi. Unica differenza formale è l’utilizzo del colore che in Crimes of the future assume un valore simbolico e psicologico.
 Cronenberg stesso, quando interpellato sulla pellicola, suggerisce di darne una «lettura psicoanalitica», nel suo caso sarebbe forse meglio specificare e parlare di lettura junghiana (il regista decenni dopo girerà A Dangerous Method che racconta il conflitto fra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung). Crimes of the future è ambientato in un futuro prossimo in cui la popolazione femminile che ha oltrepassato la pubertà è scomparsa a causa di una patologia legata ai cosmetici. Una malattia che provoca alle vittime la fuoriuscita di secrezioni da naso, orecchie e bocca in grado di sedurre i sensi degli uomini che non resistono a leccarle e annusarle. La voce narrante che interviene per descrivere gli eventi e completarne la conoscenza è di Eugene Tripod, allievo del misterioso Antoine Rouge, dermatologo folle che scoprì e probabilmente causò la strana e mortale malattia. Vediamo Tripod vestito come un Gurdjieff postmoderno, muoversi fra diversi istituti e incontrare diversi individui, quelli che sembrano la declinazione di Cronenberg dei “tipi” junghiani. Tripod incontra un’umanità tutta maschile che tenta di manifestare – attraverso pratiche simboliche – la femminilità che è venuta a mancare, scindendola dalla propria sessualità. Proprio come secondo le teorie che Jung ha descritto nel suo volume Tipi psicologici, dove lo psichiatra svizzero afferma che solo superando la propria adesione a un modo univoco di rappresentare la realtà e aprendosi agli altri modi (ricordiamo però che in Crimes of the future non vi è però scelta ma si tratta di un atteggiamento adattivo) l'individuo può davvero affermare la sua autonomia dal modello dominante, basato sulla dicotomia fra maschile e femminile universalmente e inconsapevolmente accettata.

giovedì 19 gennaio 2012

The Smiths – Louder than bombs (1987)


di Alessandro Milanese*


Nel 1985 oltre ad avere dodici anni avevo una totale ammirazione per un gruppetto di ragazzi della generazione sopra la mia.
Esseri mitologici.
Nati alla fine degli anni Sessanta, avevano tutto quello che un non ancora adolescente come me sognava. Moto Enduro 125 con potenze che erano ai miei occhi smisurate, accentuate da quel rombo meraviglioso del 4 tempi. Capelli lunghi e perfettamente scompigliati. Idee ben precise su quella che all'epoca mi sembrava una cosa interessante, la politica, e per ultimo ma fondamentale dei gusti musicali assolutamente all'avanguardia, con esempi lampanti come toppe degli U2 in bella vista e addirittura magliette degli Smiths.
Così, affascinato da tanta cultura, e alquanto confuso sulla mia sessualità visto l'ardore con cui seguivo e cercavo di imitare quei sedicenni pieni di ormoni e canzoni, intrapresi la mia strada fatta di vinili, e musicassette copie delle copie delle copie che suonavano sempre con quel tipico fruscio da onde del mare.
Arrivarono gli inevitabili irlandesi e i Simple Minds a ruota, i Cure e il loro cupo gusto pop, e infine una sera d'inverno fu il turno degli Smiths.
Sanremo.

mercoledì 18 gennaio 2012

Hollywood Babilonia di Kenneth Anger (1959)

Hollywood Babilonia è un testo di culto che ha attraversato i decenni mutando se stesso nelle sue caratteristiche paratestuali, per raccontare a sempre nuove generazioni di lettori la mitopoiesi nera dell’industria cinematografica. Mitopoiesi realizzata da quella che l’autore, il cineasta Kenneth Anger, definisce «la colonia di Hollywood». Anger, che nella colonia è nato e ha mosso i primi passi (recitò a undici anni con Anita Louise in Sogno di una notte di mezza estate), scrive una prima versione di Hollywood Babilonia in lingua francese dandola alle stampe grazie all’editore Pauvert, nel 1960. Lo ripubblicherà in lingua inglese – con parti di testo nuove e un inedito apparato iconografico – nel 1975. La prima edizione in italiano (che traduce quella in inglese del 1975) è solo del 1986 per Adelphi, che ancora oggi continua a pubblicare il volume in un’edizione di ampio formato, rispettosa del lavoro narrativo (più che divulgativo) di Anger. Non a caso Hollywood Babilonia è introdotto dai versi del maestro dell’occulto Aleister Crowley «Ogni uomo e ogni donna è una stella». L’espressione riprende uno dei primi slogan della MGM «più stelle che in cielo» riportandola alla sua natura più umana, imperfetta, umbratile e, ça va sans dire, ferina.  La scelta di citare Crowley è senza dubbio programmatica. Gli eventi raccontati nei trentatré capitoli di Hollywood Babilonia sono un’antologia di efferatezze, azioni demoniache, una cornucopia di sangue versato, corpi violati, vendette. Gli attori di cui racconta Kenneth Anger sono divinità bizzose e umanissime, come quelle della mitologia classica non riescono a rinunciare agli appetiti più scellerati e orribili. La risultante è un affresco in notturna, una storia “altra” del cinema che, aumentando il contrasto, facendo più nere e nette le ombre (da cui neanche gli dei riescono a separarsi), amplifica il mito luminoso e immortale di Hollywood.

lunedì 16 gennaio 2012

La casa dei 1000 corpi di Rob Zombie (2004)


Oh insomma, come dobbiamo considerare il film di Rob Zombie La casa dei 1000 corpi? La cornucopia sanguinolenta e postmoderna che anticipa il vero capolavoro The devil’s rejects? La legittima prima parte di un dittico ossimorico sull'orrore?
Con una pellicola del genere rischiavamo di trattare Rob Zombie (cui riconosceremo sempre il merito di aver ri-editato egregiamente la saga di Halloween) come Robert Rodriguez, il cugino scemo di Quentin Tarantino. In fin dei conti cosa abbiamo ne La casa dei 1000 corpi? Una trama che fa dell’originalità una sconosciuta che non bussa mai alla porta (chiamala scema, chi lo farebbe se non i quattro pruriginosi adolescenti del bodycount?), con personaggi bidimensionali - incapaci di far paura a chicchessia - che acquisteranno connotati dolorosi, iconici, persino narrativi, solo nel sequel.

Quindi, vale o no la pena di vedere La casa dei mille corpi?


mercoledì 11 gennaio 2012

Fuoco cammina con me di David Lynch (1992)


Fuoco cammina con me è un oggetto cinematografico caotico e tendente alla perfezione. Molti dettagli paratestuali risultano dissonanti: l’uscita del film dopo un anno e più dalla fine della serie I segreti di Twin Peaks (della quale si presenta come prequel), i tagli dovuti a una maggiore commercializzazione della pellicola, la riluttanza di Kyle McLachlan e Lara Flynn Boyle a partecipare al progetto. Questi strani incidenti non hanno impedito alla pellicola di ottenere il consenso che merita (anche se arrivato anni dopo la sua uscita), rivalutata prima dai catecumeni della serie (affamati di ogni fotogramma presente o assente dalla versione finale), poi da tutti gli amanti del cinema di David Lynch, i quali oggi riconoscono la pellicola come organica all'opera complessiva del regista di Velluto blu. Tanto più che Lynch non ha lesinato scelte stilistiche, riferimenti a più di un universo socio-culturale - dalla rappresentazione straniata della neighborness, alla realtà giovanile, passando per il crimine di provincia - e il suo ormai rinomato giocare con i generi, utile alla costruzione di un immaginario ready-made che (ri)sorge dalle ceneri della cultura pop.

Da Cannes in poi differenti letture di Fuoco cammina con me sono state avanzate e molto si è scritto, dal post-femminismo della “martire” Laura, alle scelte formali di Lynch (con analisi pedissequa e perciò inutile della sequenza della morte di Laura nel vagone del treno), passando per la discussione sulla risoluzione degli eventi, giudicata troppo “salvifica” rispetto al finale con cliffhanger della serie.
Io preferisco una lettura di Fuoco cammina con me che si focalizzi sull'interno familiare, sui volti piagati di Ray Wise e Grace Zabriskie, interpreti dei genitori di Laura, sul suono assordante delle stoviglie a tavola, sulle pareti della sala da pranzo oppressive sin dal colore della tappezzeria, e ancora le urla e l’illuminazione della scala che porta alla zona notte di casa Palmer. Sapete una cosa? Potrebbe solo trattarsi di feticismo.
Credo sia necessario spostare (ancora una volta) l’attenzione dalla cornucopia pulp (l’orgia a casa di Jacques, l'uccisione di Laura) e dallo squarcio del “velo di Maya” del finale, per godere di una visione simile al puntinismo, d’insieme, che dia originali e diverse suggestioni in ogni spettatore.

martedì 10 gennaio 2012

Cuore Selvaggio di David Lynch (1990)

Wild at heart (in italiano Cuore selvaggio) del maestro David Lynch è una oggetto cinematografico ruvido e opalescente, genuinamente Avant-Pop. Con questa pellicola Lynch coniuga le teorie di Vladimir Propp con gli stilemi del road movie provocando un originale effetto straniante. Universalmente conosciuto come l'omaggio "altro" di Lynch a Il mago di Oz  (da sempre uno degli archetipi perferiti dalla cultura AP), il film si muove su territorio pulp presentandoci una delle coppie più divertenti e cool di tutta la cinematografia contemporanea: Sailor Ripley, che ha il volto impastato di Nicolas Cage, una canaglia rockabilly dal cuore d’oro, un rude bad boy in giacca pitonata, t-shirt nera e sigaretta fra le labbra; e Lula Fortune, una cotonatissima Laura Dern in body di lycra e chewing-gum. Lula è una giovane pulzella follemente innamorata di Sailor perennemente osteggiata dalla madre-Strega dell’Est Marietta Fortune.

Sarà proprio la scellerata matrona Marietta a muovere gli eventi della trama portando i due focosi innamorati lontano da lei e dalle sue elucubrazioni omicide. Giunti on the road la fiaba prende inevitabilmente connotati più neri e violenti, le funzioni di Propp diventano qui pretesti per mostrare una galleria di personaggi marcescenti, non luoghi in penombra come degradati motel dalla moquette lercia, e ancora rapine, lame baluginanti e orribili incidenti stradali nel deserto.

Per sapere se i nostri eroi pulp riusciranno a trovare riparo dalle grinfie di Marietta bisognerà attendere il finale straniante, deliziosamente kitsch e luminoso, come quelli che solo David Lynch sa consegnare alla storia del cinema.

lunedì 9 gennaio 2012

Schegge d'America. Nuove avanguardie letterarie a cura di Larry McCaffery (1997)


Il volume Schegge d’America. Nuove avanguardie letterarie, è utile e illuminante. Il lavoro svolto dal critico letterario, editore e professore di Inglese e Letteratura Comparata Larry McCaffery è certosino, sostenuto da una lunga riflessione teorica posta in appendice (cosa che non dovrebbe mai mancare in un’antologia simile) e completato da una lista di opere letterarie, musicali, cinematografiche e seriali che presentano comunione d’intenti con i racconti dell’antologia. Il titolo originale dell’opera è After Yesterday’s crash – The Avant Pop Anthology, e focalizza l’attenzione proprio sull’estetica Avant-Pop. I ventotto autori presenti offrono diverse prospettive sull’avant genere. La lettura complessiva del volume fornisce una caleidoscopica e completa visione dell’Avant-Pop letterario.
Gli autori presenti sono perfettamente coscienti che tutto ciò che è sociale è anche culturale e che il versamento del culturale nella vita sociale si è verificato grazie alla tecnologia. Se allora (l’antologia è del 1997) l’attenzione era puntata su televisione, videoclip, possibilità di registrazione, cut-up analogico, chat-line, pubblicità, oggi potrebbe focalizzarsi su social network, Youtube, spettacolarizzazione della politica (già presente nell’antologia grazie al racconto di Bruce Sterling), identità e sessualità.
Quella dei racconti di Schegge d’America non è una realtà ma un’iperrealtà realizzata per accumulazione infinita. Accumulazione storica di centinaia di immaginari artistici, letterari, musicali, di stilemi, generi e prospettive, ormai irrimediabilmente versate nella soluzione instabile della vita sociale. Questa iperrealtà centrifugata e impazzita è caratterizzata dalla perdita dell’unità e quindi della sicurezza (che è anche sicurezza sociale). È proprio su questa perdita - ci dice Larry McCaffery – che gli autori AP hanno puntato la loro attenzione. Per questi scrittori (come per gli artisti della pop art) non sono solo le risorse della cultura alta a offrire materiale per le loro opere, essi sono attratti dalla cultura popolare, convinti che per una società franta e postindustriale come quella che stava sviluppandosi (e che oggi giunge alla sua estremizzazione mortale) solo le risorse della cultura pop potessero essere totalmente comprese e accettate. Gli autori AP utilizzano tali risorse (immagini chiave, metafore, punti di riferimento e allusioni) per manipolazioni, edulcorazioni, riscritture (pratiche tutt’oggi amatissime non solo per i fandom di riferimento). Per loro il vero realismo – la capacità di raccontare e riprodurre il reale – è questo: trame non lineari, sincope da zapping televisivo, velocità e immediatezza del videoclip e della chat-line, riflessione nichilista e ironica sulla cultura pop. Il tutto avvolto, ammantato, da implicazioni millenaristiche e apocalittiche che sono allo stesso tempo retaggi dell’atomica e figli della cultura classica (che gli autori Avant-Pop conoscono e amano). Riferimenti apocalittici che si propongono come soluzione consolatoria per una realtà alla deriva, in perpetua metamorfosi identitaria.

mercoledì 4 gennaio 2012

Velluto Blu di David Lynch (1986)

Cos'è un drappeggio di velluto se non un continuo celarsi e disvelarsi di porzioni di tessuto a seconda della luce che lo colpisce?
Questa la riflessione principale che potrebbe balenarvi in mente non prima che si chiuda il cerchio, perfetto e surreale, di quel capolavoro che è Velluto Blu. La quarta pellicola di David Lynch è un'opera magistrale e senza tempo. Molti stilemi e temi ricorrenti (tra i quali proprio le teatrali tende di velluto) torneranno nelle pellicole e nei lavori successivi di Lynch (Cuore selvaggio, Twin Peaks) ma il ricordo più vivido di Velluto blu è la luce: uno strumento essenziale per la narrazione e lo svolgimento degli eventi. Sia essa radente, lambita dalle ombre, elettrica,  proveniente da una buia e mefitica candela, la luce trasfigura, evidenzia, cela, in breve racconta.
Lynch imbastisce su quella che è a tutti gli effetti una cornice noir una trama straniante e metaforica. Vi ritroviamo tutte le caratteristiche del genere noir: la femme fatale Dorothy Vallens, “corporale” e proibito spirito materno, Frank Booth l’agghiacciante antagonista interpretato da Dennis Hopper, e ovviamente l’eroe, Jeffrey Beaumont (un giovanissimo Kyle McLachlan), diviso in maniera “polare” fra la notte, fatta di sesso, violenza e orrore, e il giorno fatto di apparente semplicità (compreso l’interno familiare) nonché teatro di posa per la relazione con Sandy (Laura Dern).

martedì 3 gennaio 2012

Dune di David Lynch (1984)

Laddove anche Alejandro Jodorowsky aveva naufragato è riuscito invece il giovane e promettente David Lynch, che scelto dal produttore Dino De Laurentis e avvalendosi di un lungo periodo preparatorio per costumi, scenografie ed effetti speciali, ha potuto portare sul grande schermo (prima di altri e più modesti progetti televisivi) il romanzo di culto Dune di Frank Herbert. Nonostante non abbia avuto il successo sperato, Dune è ricco di suggestioni e  mostra una nuova prova della carica immaginifica dello sguardo lynchiano. Allontanandosi dal sottotesto politico del romanzo (forse l’unico neo della riduzione di Lynch), la pellicola risolve molte complicazioni narrative con soluzioni particolari e spesso iconiche. Ne sono un esempio i lunghi monologhi interiori dei protagonisti, che nella pellicola trovano voce negli intermezzi fra i dialoghi aumentando suspense e straniamento. Succede così in particolare nel racconto della formazione di Paul Atreides  (Kyle McLachlan) fra i Fremen di Arrakis (il ventoso e desolato Dune del titolo). 

Se Jodorowsky avrebbe voluto nientemeno che Salvador Dalì nel ruolo dell’imperatore, Lynch decide di approfondire l’istanza surrealista aprendo, di tanto in tanto, a meravigliose sequenze oniriche. Esempi di questa tendenza sono la genesi dei vermi di Arrakis (in una sorta di riproposizione del concepimento uterino) e le molte simbologie che richiamano la cultura egizia (la mano, le ali, l’acqua come simbolo femminile, la narrazione per immagini). Lynch inoltre gioca con materiali culturali di ogni tipo, utilizzandoli trasversalmente. È così che la Reverenda Madre Bene Gesserit ricorda un dipinto del seicento e gli scudi utilizzati dai personaggi della casa Atreides richiamano nello stesso momento il cubismo e  i fumetti. Non manca il riferimento all'organico e al putrescente tipico dell’estetica lynchiana (ricordiamo che la prova precedente è stata The Elephant Man): dalle orribili piaghe di Vladimir Harkonnen alle agghiaccianti prove che la Reverenda Madre Bene Gesserit riserva a Paul e a sua madre Jessica, e ancora le enormi fauci dei vermi di Arrakis. In definitiva una pellicola essenziale per comprendere le istanze del cinema di David Lynch e l’influenza sulla cultura popolare di una saga complessa e ricca di suggestioni come quella di Frank Herbert.

domenica 1 gennaio 2012

The short films of David Lynch

Era il 2008 e in giro per il mondo (compresa la Triennale di Milano) vennero allestite delle salette cinematografiche in perfetto stile Eraserhead per la proiezione degli Short Films - brevi, inquietanti e surreali cortometraggi - di David Lynch. La mostra era The air is on fire e chi non ha potuto goderne oggi può recuperare grazie a Raro Video che li ripropone in uno splendido cofanetto insieme a EraserheadDumbland (una serie di corti di animazione in Macromedia Flash). I corti sono proposti in rigoroso ordine cronologico e vengono introdotti da David Lynch stesso che ne racconta la genesi  e la realizzazione fra un progetto cinematografico e l’altro ). Ognuno dei corti ha un valore inestimabile in termini di compresione dell’Opera di Lynch e ne mostra tutta la carica sperimentale e decostruttivista, qui completamente libera di esprimersi.