Uno scenario di pietra
lavica si estende per tutta la lunghezza del palcoscenico su un fondale
atmosferico cangiante. La roccia si dipana a formare anfratti, scalini, sedili,
sentieri, costruisce lo spazio scenico che sarà sintesi della dicotomia interno/esterno
così importante per Giovanni Verga,
sia nella sua novella La lupa (1880) sia nella riduzione teatrale
che egli stesso realizzò e rappresentò al Teatro Gerbino di Torino nel 1986. A
riportare sulla scena La lupa oggi il
regista Turi Giordano e l’attrice Guia Jelo (Le buttane) con le musiche del
compositore Matteo Musumeci (cui dobbiamo la presenza della meravigliosa
versione di ‘A curuna cantata dalla
Jelo). Giordano e Jelo pur mantenendo inalterato le prerogative sensuali e
primigenie del personaggio di Verga ne ridefiniscono i connotati mettendo in
risalto il travaglio e il dolore fatale della ‘gna Pina che, arsa dalla sua
stessa passione, muove a gran passo verso la tragedia.
Turi Giordano - dopo l’introduzione
danzante di Mara - apre i dialoghi su una fiaba narrata al crepuscolo, quando
il lavoro dei campi è concluso e i braccianti si raccolgono a prendere il
fresco della sera, cantare, ballare e raccontare storie. Non a caso è una fiaba
orale a traslare dall’immaginario fantastico il simulacro della Baba Jaga, della
strega e seduttrice (che nel racconto non risparmia neanche un parroco), una
donna che dal racconto orale si materializza e incede man mano che la descrizione
passa (per voce di Michele Placido, che nel film La lupa di Alberto Lattuada interpreta il bracciante Malerba) al
reale durante l’ingresso della ‘gna Pina, detta “la lupa”, sulla scena. I grandi
occhi neri, il pallore, le labbra vermiglie (esposte fiere all’occhio di bue
dalla Jelo durante il suo ingresso in scena) si materializzano ammutolendo le
donne, che corrono a farsi il segno della croce, ed eccitando gli uomini che
fanno a gara per stringerla a sé.