lunedì 9 giugno 2014

Mysterious Skin di Gregg Araki (2004)



Lo sguardo di Gregg Araki si fa delicato seppur sicuro. Si muove dai territori situazionisti e Avant-Pop della Teenage Apocalypse Trilogy, dalla scena arty ed esplosiva della controcultura losangelina per raggiungere la provincia. Si ferma in Kansas, luogo di sterminato raccolto e tornado in grado di trasportarti in luoghi azzurri, in cui tutti possono vivere felici e lontani dalle brutture della realtà. Qui, utilizzando la materia del romanzo omonimo di Scott Heim (cui Araki si dirà sempre debitore e cui ha cercato di attenersi quanto più possibile) si ferma per ambientare uno dei suoi riconosciuti capolavori: Mysterious Skin.
In Mysterious Skin l’immaginazione infantile non materializza alcun tornado né tantomeno fantastici mondi dell’altrove. L’orrore che, come un fiume carsico, attraversa i lotti abitati, sfiora gli steccati, nutre i curatissimi prati verdi, può essere inghiottito solo in un buco nero: cinque ore della propria infanzia nel caso del timido Brian (Brady Corbet) o sostituirsi al posto del cuore nel caso del disfunzionale Neil McCormick (Joseph Gordon-Levitt). Araki muove dabbasso, dal punto di vista dei due protagonisti che a otto anni vivono – in maniera diversa ma comune – lo stesso trauma. Li seguiamo dalle rispettive famiglie in crisi: Brian dimenticato dal padre per ben cinque ore a una partita di baseball, Neil, solo con la dolce e malinconica madre (interpretata da Elisabeth Shue, stupenda) troppo impegnata in un rosario di relazioni e fidanzati diversi per accorgersi di quello che sta accadendo qualche porta più in là. È dai tempi di Peyton Place che siam a conoscenza delle mostruosità, delle pulsioni più sfrenate e ferine che si muovono fra i viottoli ordinati della suburbia. Tra i riferimenti estetici di Araki c’è Natural Born Killers, la Penelope Spheeris de I ragazzi della porta accanto (pellicola seminale nei confronti di Mysterious Skin) viene dalla fucina losangelina che sarà culla artistica anche per Araki, non è quindi difficile per il regista di The Living End, confrontarsi con l’ambiente che meglio rappresenta la crisi della società presente: la zona suburbana. Fra visioni posticce e kitsch a base di alieni, navicelle spaziali e programmi TV, baccanali di Halloween in cui l’orrore innominabile non ha bisogno di alcun costume per colpire indisturbato, si consuma la terribile weltanschauung dei due piccoli protagonisti.