sabato 24 ottobre 2015

Note sul gotico in Crimson Peak di Guillermo del Toro (2015)






Una magione che sprofonda su un giacimento di argilla rossa come sangue, al centro di una tenuta aspra e inospitale dove vento e umidità animano spifferi e cigolii. Al suo interno si muove una «vergine perseguitata», con l’orlo della camicia da notte che accarezza le assi tarlate del pavimento, i capelli che si aprono come ali nella corsa e le mani bianche che frugano in armadi intarsiati, sotto enormi poltrone di broccato, alla ricerca delle più scellerate risposte. È questa la prospettiva scelta dall’«ospite ingrato» del cinema hollywoodiano, Guillermo del Toro, per il suo ultimo lungometraggio Crimson Peak
Guillermo del Toro non sceglie solo l’immaginario gotico ma lo sposa, omaggiandolo nei suoi intenti originari. In Crimson Peak ritroviamo la comunione, alla base del romanzo gotico settecentesco, fra elementi romantici e attitudine all’orrore. Il film è un percorso verticale – come quello che vede i protagonisti muoversi fra i piani della grottesca magione di Allerdale Hall – nella tradizione gotica tutta. 

domenica 30 agosto 2015

It Follows di David Robert Mitchell (2014)


Quante volte abbiamo lamentato lo sfiatamento della produzione cinematografica orrorifica?
Idee formali sfruttate fino a diventare lise e fragilissime (sospiro assicurato ogni volta che leggiamo POV), sequel, prequel, spin-off, riadattamenti, ritorni dall’oltretomba che toccherà riqualificare persino il cimitero di Pet Sematary.
In questo contesto capita che siano prodotte e realizzate pellicole in grado di farci tornare in pace col genere, originali nelle idee, nelle scelte formali e con un sano rapporto nei confronti dei classici. È successo con It Follows del giovane e brillante regista americano David Robert Mitchell (The Myth of the American Sleepover) che ha trovato subito il suo posto nella migliore tradizione dell’horror e del thrilling.
 Ambientato a Detroit, nella zona suburbana, It Follows segue le vicende di Jay Height (Maika Monroe, chiaramente la migliore scream queen indie), studentessa dalla famiglia incasinata che, dopo aver fatto l’amore con lo strano forte Hugh (ricordiamoci di non uscire con gente che pensa di essere seguita da figure che noi non riusciamo a vedere), si ritrova a essere perseguitata da un’entità in grado di seguirla (lentamente ma con incrollabile costanza) ovunque, con il dichiarato intento di farle del male.

domenica 21 giugno 2015

XXI Secolo di Paolo Zardi: la sconfitta dell'uomo come padre



L’entusiasmo è stato grande. Vedere un romanzo della casa editrice NEO. – le cui proposte hanno costruito in breve tempo un catalogo fra i più vitali, eterodossi e sperimentali avuti negli ultimi anni in Italia – nella rosa delle dodici scelte del comitato direttivo del Premio Strega 2015 è stata una delle più belle sorprese sulla scena editoriale contemporanea. Un segnale non trascurabile, un presagio di buon auspicio e un grande stimolo per Francesco Coscioni e Angelo Biasella a continuare con immutata determinazione a lavorare sul loro progetto editoriale.
Il romanzo in questione è XXI SECOLO di Paolo Zardi, ingegnere padovano che amammo non poco per il libro di racconti Antropometria che ci portò nei territori del perturbante e del grottesco. Ambientato in un futuro che con un brivido avvertiamo nelle immediate vicinanze, XXI SECOLO è il racconto epico di una sconfitta. In un’Italia sfiatata a sud di un continente in decadenza, soffocata dalla bolla mediale

Il giorno in cui trovò il telefono aveva smesso di piovere. […] il fantino era morto, e la Cina aveva raddoppiato i carri armati sulle sponde dell’Amur, provocando lo sdegno dello zar di Russia. Ma nessuno sapeva se in Russia ci fosse davvero lo Zar. Da un po’ le notizie concepivano un universo parallelo, virtuale, e pieno di contraddizioni. La gente aveva perso interesse per la realtà, la subiva con la consapevolezza che le cose andassero male, e non ci si poteva fare nulla.

assistiamo alla corrosione di un modello, al canto del cigno dell’uomo come padre, fulcro e protettore del nucleo familiare. Il protagonista che Paolo Zardi ci propone in terza persona come unico personaggio-pdv (punto di vista) assiste all’implosione lenta ma immane e inesorabile dell’Occidente mentre è tradito dalla base su cui si fonda tutta la sua esistenza: la propria famiglia.

lunedì 8 giugno 2015

Prendimi l’anima o A dangerous Method?



Credo che poche volte nella storia del Cinema si sia stati davanti a una situazione del genere: ovvero alla trasposizione cinematografica di una storia realmente accaduta, sulla base di una serie di documenti scritti e fotografici, e di libri che sono stati, per entrambi i film, il punto di partenza. Multiformi non sono soltanto i media di riferimento; ma anche il soggetto. È un soggetto che riguarda la Storia, la Medicina, la nascente Psicologia/Psichiatria, ma anche l’amore e le passioni – un soggetto unico. Perché è un microcosmo capace di racchiudere buona parte della cultura borghese europea: la complessità dei rapporti familiari, la complessità del rapporto uomo-donna, la complessità del rapporto docente/discente, l’idea del progresso del pensiero, lo strano confine tra normalità, malattia e medicina. Se ne potrebbe parlare molto; non se n’è, forse, parlato abbastanza. Ma quando Sabina Spielrein varcò la soglia dell’ospedale in cui il giovane medico Carl Jung lavorava, varcò di fatto la soglia della Storia. Sul rapporto tra Spielrein e Jung, e sulla successiva triangolazione che coinvolse Freud, si sono scritti libri molto approfonditi e che valgono una lettura attenta e interessata. E il cinema? No, il cinema non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione di rappresentare questa storia. Una stessa storia che ha ispirato due film molto diversi. L’italiano Prendimi l’anima, di Roberto Faenza, uscito nelle sale nel 2002; e A dangerous method, di David Cronenberg, del 2011. 


Partire dal titolo può mettere in luce degli aspetti molto interessanti. Prendimi l’anima: il verbo è all’imperativo; è l’invito, la richiesta, la preghiera alla cura. Cura e amore sono fusi insieme, nello stesso movimento che è quello di afferrare, non per recidere ma per salvare l’altro dalla follia. Mentre per Cronenberg si tratta di un metodo (attenzione: non del metodo, ma di un metodo) pericoloso. Tutto qui. C’è pericolo. E c’è metodo. Si sottolinea che il rapporto di cura è un rapporto rischioso, che tuttavia presuppone un protocollo. Quanto sia rigido questo protocollo, beh, questo è un altro paio di maniche… 
Avevo nemmeno vent’anni quando ho visto Prendimi L’anima. La storia di Sabina, di questo amore impossibile e tuttavia fondamentale per lei e per Carl Gustav (quando ancora non era C.G. Jung), la realizzazione personale di una ragazza malata, così prossima alla perdizione quanto alla remissione, capace di parlare lo stesso linguaggio degli adulti e dei bambini – come avrebbe potuto non affascinarmi? Anch’io cercavo un’identità, all’epoca. E poi questo nome, Sabina, così ricorrente nelle opere di Anais Nin, prima paziente e poi psicanalista ella stessa, proprio come la Spielrein, ma con un vissuto molto diverso… Otto anni dopo, ancora Sabina Spielrein, ancora Jung e Freud, questa volta nella visione completamente diversa di Cronenberg. Chi scegliere? Molti si sono posti questo interrogativo, un interrogativo retorico perché, per chi conosce Prendimi l’anima, è sicuramente preferibile alla trasposizione di Cronenberg: è più romantica, più dolce, più serena, meno dispersiva, meno violenta, molto meno violenta. Ma forse non è il caso di fare una scelta così affrettata, prima di aver fatto un paio di considerazioni sulle differenze tra i due film. 

Le differenze più grandi, tra i due film, sono di due ordini. 

domenica 17 maggio 2015

Mad Max: Fury Road l’action movie definitivo e lo sguardo di genere



Visionario, messianico, inaspettato, lanciato alla massima velocità in una nuvola di ocra e carminio, ecco cos’è Mad Max: Fury Road, pantagruelico progetto di George Miller che riporta dopo trent’anni sul grande schermo Max Rockatansky e con lui l’immaginario impazzito e post apocalittico che ha fatto scuola per tanto cinema a venire.
Mad Max: Fury Road non è un mero reboot che vive dell’afflato nostalgico dei vecchi fan della saga ma un aggiornamento dell’immaginario che propone. Un’operazione che oggi possiamo ammirare sul grande schermo come estrema e meravigliosa, sia sotto il punto di vista della scrittura sia della regia. Se l’obiettivo era di portare nuovi spettatori ad appassionarsi al mondo «ucciso» e dissennato di Mad Max, possiamo definirlo ampiamente raggiunto.
Le tragedie e i morti delle pellicole precedenti oggi si manifestano intorno a Max –interpretato per la prima volta da Tom Hardy - come pericolose allucinazioni sempre pronte a ossessionarlo durante il suo cammino. Il Max di Fury Road possiede le caratteristiche mostrate per la prima volta in Il guerriero della strada: un uomo che ha rinunciato alla sua umanità, trincerato dietro il bieco opportunismo con l’unico obiettivo di continuare a vivere e quindi a muoversi sulla strada.

sabato 11 aprile 2015

Supernova: la nuova ballata rock di Isabella Santacroce



Una supernova su Riccione.

Dopo l’uscita dell’ultimo romanzo di Isabella Santacroce, il magnifico Supernova (Mondadori) mi aspettavo di vedere il viso della scrittrice riccionese, sublimato dal trucco che le fa da difesa e dissimulazione, sulla copertina di «Rolling Stone». Supernova, che inaugura la nuova Trilogia di Eva è una stupenda ballata rock, dove l’uso della lingua italiana assume sempre più una forma ritmica peculiare. La prosa di Isabella Santacroce si dilata e comprime come una serie di note, vergate con grande ispirazione dalla sua compositrice/autrice.
In Supernova troviamo l’uso della metafora in trasfigurazioni che sono di volta in volta fiabesche, sfrenate e dolorose. Metafore dall’incredibile potere evocativo che ampliano d’improvviso l’orizzonte narrativo del brano in cui sbocciano. Dall’arrivo della non-madre di Dorothy a Milano – una città che farà da ventre ignavo e scellerato per i tre giovani protagonisti – fino all’adolescenza tradita da un’infanzia di rifiuti, seguiamo il canto di Dorothy nella descrizione della sua parabola ascensionale, verso l’esplosione nella luce più accecante auspicata dal titolo.

mercoledì 25 marzo 2015

Gummo di Harmony Korine: perché tornare a Xenia


Benvenuti a Xenia, Ohio, qui l’arrivo di un uragano ha portato la comunità in un altro mondo (specie i bambini), ma non del tipo che chiamereste «meraviglioso» come quello di Oz. La piccola Dorothy Gale, alla fine della pellicola di Fleming, ripeteva come un mantra che «nessun posto è come casa mia», ma questo i piccoli, disturbati, abitanti di Gummo lo sanno già, passategli piuttosto quel sacchetto di colla da carpentiere da sniffare.
È incredibile come il genio di Harmony Korine già nel 1997 (se non prima, con la sceneggiatura di Kids) possedesse la capacità di ribaltare il plastico e consolatorio immaginario americano. Già, perché che cos’è Gummo (primo manifesto freak della contemporaneità) se non uno sguardo d’affaccio nel pozzo dietro la fattoria di Dorothy Gale in Kansas? Uno sguardo che può portarvi alla follia o condannarvi per sempre a vivere fra le mefistofeliche grinfie di una realtà dove i il disagio si coniuga all’innocenza e alla violenza, dove pure la natura ferina è andata alla deriva consegnando alla vista dello spettatore un’umanità vinta e ignara, in cui il male ha perduto il suo termine di paragone o forse non l’ha mai avuto. 
 
Alla sua uscita molti hanno letto il film come una versione contemporanea di Freaks di Tod Browning, in realtà con Gummo Harmony Korine ci fornisce la migliore delle linee di continuità che muove dall’opera di Lyman Frank Baum verso la scomparsa dell’umanità e quindi di ogni sua espressione, artistica compresa. Per farlo Korine si serve dei corpi dei suoi giovanissimi protagonisti, corpi che s’incastonano in un rosario mefistofelico di storie raccontate oralmente. 

In Gummo Harmony Korine, memore della lezione di Kenneth Anger e John Waters, muove attraverso un tappeto musicale che avvolge e strania, sublima la follia e la paura, arrivando a deflagrare fra le maglie della narrazione non-convenzionale: il metal (black e death in particolare) accanto a Roy Orbison e ancora, il grindcore, Madonna (Like a prayer, ovviamente), Bach e il power violence.
Se volete sapere di chi sono figlie le eroine di Spring Breakers guardate al terrorizzato Tummler, o al piccolo e weirdissimo Solomon (la cui voce strascicata è in parte narrante), alla loro flânerie nei territori devastati e vili di Xenia, guardate alla bellezza disturbante di Dot (Chloë Sevigny, qui anche in veste di costumista), o a quella tutelare del Bunny Boy. 

In Gummo la visione di Korine era già netta e demistificante. Ci aveva avvertito: il male è tra noi, il tornado è passato, e nessuno di noi poveri umanotteri - felici di essere sopravvissuti e pruriginosi come non mai – è più in grado di riconoscerlo, figuriamoci discernerlo. 

lunedì 23 marzo 2015

La città di Adamo di Giorgio Nisini: la ricerca del simulacro paterno

La città di Adamo – eretta pagina dopo pagina da Giorgio Nisini nel suo secondo romanzo (e secondo volume della Trilogia dell'incertezza dopo La Demolizione del Mammut) – più che una realtà materiale è il luogo della memoria in cui il protagonista Marcello (affatto casuale la scelta di un nome dalla eco felliniana) compie la sua ricerca, spasmodica, necessaria e dolorosa: il recupero dell’immagine del padre. Ricerca che pone come suo obbiettivo la conoscenza dei tratti noti (ma da sempre percepiti in superficie) del proprio genitore.
 
In La città di Adamo Marcello Vinciguerra ha seguito le orme di suo padre Vittorio – grande imprenditore ortofrutticolo che dall’immaginario borgo di Castel Cimino è riuscito ad allargare i suoi affari alla scena globale – ha un'elegante moglie di nome Ludovica (emblematico il brano in cui Marcello segna l’inizio della parabola discendente del padre con il primo incontro di questi con l’allora fidanzata) con cui vive in una bella ma gelida villa. Il dubbio interviene già dalle primissime battute quando Ludovica – proprietaria di uno showroom di design – porterà a casa la riedizione di un televisore Brionvega (il design d’arredo scandirà la ricerca di Marcello per tutto il romanzo) aprendo di fronte al protagonista un tortuoso percorso nel territorio dei ricordi. Lo farà attraverso un’immagine – che come tutte quelle che compongono la sua ricerca non si rivelerà che un primo passo verso il riconoscimento dei propri tratti in quelli del padre – una breve sequenza d’archivio che lo mostra bambino a Eurano, quartiere metafisico-razionalista edificato a sud est di Caserta dal boss della camorra Adamo Pastorelli. 

Man mano che si procede nella lettura de La città di Adamo vediamo come decine di domande avvelenano la quotidianità di Marcello: quali sono i rapporti che legano il successo dell’azienda Vinciguerra al colto ed efferato boss della camorra? È possibile che la madre, il padre e le persone più vicine alla famiglia nella conduzione dell’azienda (come il “fratello adottivo” Brenno) abbiano sempre mentito e nascosto un orribile legame con Adamo Pastorelli? Qual'è la reale identità dell’azienda di famiglia, del padre e quindi dello stesso Marcello?
Il percorso di ricerca per immagini che Giorgio Nisini ha preparato per il suo protagonista passerà attraverso diverse dimensioni: quella televisiva e casuale, la dimensione del ricordo, quella onirica e squisitamente freudiana (con la convivenza nel sogno delle figure di Ludovica e del padre), la dimensione dell’esperienza con le visite a Eurano, a Casagiove, all’albero-simulacro del padre e ancora quella analogica e fotografica delle immagini recuperate nell’archivio di famiglia. 

Un tracciato scandito dai ritmi tipici del noir, che concluderà La città di Adamo con l’immagine più bella, la rappresentazione-superamento delle realtà panica e industriale, finalmente unite in una semplice e preziosa epitome di amorosi sensi.

mercoledì 18 marzo 2015

L'uccello dalle piume di Cristallo di Dario Argento: spazio espositivo e thrilling



Che magnifica fucina d’idee è stato il cinema italiano. Che pazzesco insieme di eroi coraggiosi e disincantati ha creato l’immaginario da cui ancora si può attingere e imparare! Fra loro spicca per inventiva e straordinario utilizzo artigiano del mezzo cinematografico Dario Argento.
Prendiamo per esempio la sua Trilogia degli animali, quei film che rappresentano l’origine e la sintesi più vitale del suo cinema. Prendiamo L’uccello dalle piume di cristallo (1970), sua prima prova registica dopo i confronti con la scrittura al fianco di Sergio Leone (C’era una volta il west), Giuseppe Patroni Griffi (Metti una sera a cena) e in molti b-movie. L’idea de L’uccello dalle piume di cristallo nasce in Tunisia, Dario lo elabora dopo aver letto il racconto del giallista americano Fredric Brown Screaming Mimi. Il film vedrà la luce - senza mezzo compromesso rispetto alle idee del regista - grazie al supporto del padre, Salvatore Argento, che decide di produrlo in società col figlio (nasce così la S.E.D.A. che produrrà tutti i primi film di Dario). Grazie al padre, il giovane regista ha la possibilità di preservare tutte le terrificanti caratteristiche del suo film, facendo esplodere per primo l’attitudine italiana al thrilling.
Ne L’uccello dalle piume di cristallo Dario Argento incanala le energie più libertarie e le sue idee più disinibite in una struttura che di per sé impone l’ordine: il giallo. È questa sintesi fra le regole che devono portare all’agnizione del colpevole e gli scossoni, i continui (e francamente deliziosi) punti di fuga creativi, che incantano lo spettatore e lo terrorizzano come poche volte di fronte al grande schermo.

giovedì 12 marzo 2015

Note su L’amore bugiardo – Gone Girl di Gillian Flynn


«Perché chi non ama la ragazza morta?»

Quello che ha fatto Gillian Flynn con il suo L’amore bugiardo – Gone Girl (pubblicato in Italia da Rizzoli) ha dell’incredibile. È riuscita a superare e in un certo senso risolvere le istanze che le avanguardie letterarie Avant-Pop – da Paul Auster a Don DeLillo, passando per Steve Erickson, Tom Robbins e Mark Leyner - ci avevano messo di fronte: la deriva dei generi (con una nota particolare sul noir), il confronto impazzito coi modelli letterari classici, le immani risorse della cultura popolare, l’iperrealtà mediale.
Ne L’amore bugiardo questo avviene in una grande narrazione a due voci. Due punti di vista si alternano costruendo un labirinto che mette alla prova la capacità empatica del lettore e lo sfida a un grande, spassoso e agghiacciante gioco di discernimento. Il romanzo si muove attraverso la visione multipla di Nick Dunne e Amy Elliott (Dunne), ognuno dei quali presenta la storia secondo la propria versione, percorrendola sul piano temporale, con Amy che nella prima delle tre parti in cui è diviso il romanzo propone la sua voce attraverso la pagina di diario. Brillante l’idea dell’editore italiano di affidare a due traduttori diversi le voci dei protagonisti: Nick è tradotto da Francesco Graziosi e Amy da Isabella Zani.  
Ne L'amore bugiardo la scelta della narrazione in prima persona, aiuta il lettore ad avvicinarsi il più possibile a due fra i personaggi meglio tratteggiati della narrativa contemporanea. La loro umanità, che conosciamo fin nei tratti più meschini, folli e pericolosi (ma mai mediocri), ci si presenta senza filtri, se non quelli che i personaggi stessi vogliono usare. Solo due protagonisti con una la lucida coscienza di sé come Amy e Nick possono descriversi, raccontarsi, addirittura «costruirsi» come fossero un prodotto. Anche la percezione reciproca – alla base del romanzo – diventa un raffinato gioco di rappresentazione e costruzione cui il lettore, a volte interpellato direttamente dai protagonisti – come quando Nick deve fargli una confessione che potrebbe cambiare il modo in cui lo ha conosciuto o quando Amy rivela di non avere paura del sangue - non vorrà sottrarsi per niente.

giovedì 5 marzo 2015

Il Gotico Americano secondo Park Chan-Wook: Stoker (2013)



Il Gotico Americano vive una nuova stagione di orrori consumati al sole del sud.
Oggi, che la fuga dalla phoniness - agognata da Holden e dalla nutrita fauna beat - è tornata a essere un bisogno primario, artisti, scrittori e cineasti da tutto il mondo sognano di salire sulla zattera di Huckleberry Finn e scivolare sulle nere acque del Mississippi per scrutare la fitta boscaglia che lo costeggia, riconoscere gli edifici in stile Carpenter Gothic imbiancati di fresco che di tanto in tanto occhieggiano sulle colline, alla ricerca dell’origine del male.
Non ci stupiamo di trovare accanto al sorriso sardonico della Gillian Flynn de L’amore bugiardo lo sguardo pacioso e dolce del regista sudcoreano Park Chan-Wook, intento a soppesare con lo sguardo la qualità di una tenuta in Tennessee, un terreno ben fertilizzato in cui coltivare uno degli incubi contemporanei più agghiaccianti, umbratili e sensuali: Stoker. Il film, girato in lingua inglese, è stato realizzato sulla splendida sceneggiatura scritta da Wentworth Miller (se guardate bene su quella zattera, c’è anche lui, camuffato come un novello Tom Sawyer), che pare abbia persino scritto un prequel intitolato Lo zio Charlie, incluso nella «Black List» di Hollywood, la lista delle migliori sceneggiature non prodotte.
Stoker è un meraviglioso racconto gotico in cui il «seme del male» germoglia il giorno del funerale di un capofamiglia, l’amato Richard Stoker (Dermot Mulroney). Mentre il sole del Tennessee illumina il legno prezioso della bara, la radura avvolta dalla boscaglia smeraldina e le eleganti gramaglie della vedova e dell’unica figlia del caro estinto, India (Mia Wasikowska), assistiamo al prepotente insorgere di fantasmi privati. Fantasmi che nel caso specifico hanno il sorriso sornione e lo sguardo rotondo e raggelante di Matthew Goode.

mercoledì 4 marzo 2015

martedì 24 febbraio 2015

Esordi: La Demolizione del Mammut di Giorgio Nisini (2008)

Leggere la Demolizione del Mammut (Giulio Perrone Editore) primo romanzo (e primo volume della Trilogia dell'incertezza) di Giorgio Nisini, è come osservare col fiato sospeso il tuffo di un atleta dall’alto della sua piattaforma. L’attesa, la muta aspettativa e infine lo stupore che ti lascia immobile di fronte alla riuscita dell’esercizio. Pagina dopo pagina, osserviamo curiosi lo svolgersi della vicenda, cercando di prevedere le mosse dei personaggi per venire puntualmente smentiti con una buona dose di sopresa.

Il protagonista (di cui non conosceremo mai il nome, ndr) de La demolizione del Mammut è un rampante architetto a capo di una grande azienda di decostruzioni, convocato nella sua cittadina natale, l’immaginaria Varziale, per portare a termine un grosso progetto: demolire un enorme ospedale – il Mammut del titolo – in parte mai completato.

Qualcosa però si nasconde tra le mura dell’edificio, nei corridoi impregnati dall’odore di alcol e medicinali, dietro porte chiuse a chiave, fra le corsie affollate da decine e decine di degenti con altrettante storie da narrare. Il protagonista, l’antiarchitetto (come viene definito dall’autore) ne è cosciente perché proprio in quell’edificio è custodita la propria, dolorosa, memoria personale, sepolta ma integra, pronta a deflagrare alla prima occasione.

Dal suo arrivo a Varziale il Nostro verrà a contatto con una nutrita fauna locale fatta di politici, addetti ai lavori e degenti, fra cui spiccano per bellezza e interesse l’ingegnere Milli, personaggio di «almodovariana memoria» (Deidier), malinconica e fluorescente nei suoi abiti spigolosi e colorati, una donna legata al passato che porta su di sé il peso di un dolore personale legato al Mammut. Inizialmente ostracizzata dal protagonista l’ingegnere Milli si rivelerà essenziale per il disvelamento finale. Poi, Carlotta, la giovane volontaria che sembra vivere una seconda vita dopo un misterioso incidente da cui è uscita con il volto irrimediabilmente sfregiato. Chi è Carlotta? È un angelo caduto ormai rassegnato o una coraggiosa vendicatrice? Molti i lati bui che la contraddistinguono, illuminati solo nel finale, durante la definitiva demolizione del Mammut.


Sempre elegante, con un raro rispetto per la lingua italiana, la scrittura di Giorgio Nisini porta il lettore a sfiorare le superfici con la propria mano, non importa che siano di materiale edile o vivo (e malato) epitelio biologico, perchè la commistione fra le due nature è dietro l’angolo. Che cos’è poi la demolizione se non il naturale processo fisiologico del ricambio cellulare sulla superficie della pelle?


Splendida la chiusura del romanzo: un salto, un volo, un tuffo perfetto e senza schizzi, una metafora che abbraccia l’incipit del racconto chiudendone il ciclo vitale.

martedì 17 febbraio 2015

Lacrime, sangue e sudore nel double-time swing di Whiplash




Cosa ne è stato di quel «Voi fate sogni ambiziosi, successo, fama, ma queste cose costano ed è esattamente qui che s’incomincia a pagare, col sudore!» che Lydia Grant scandiva con lo sguardo fisso in camera all’inizio della puntata, nel telefilm di culto Fame – Saranno Famosi? Lo racconta oggi il giovane regista Damien Chazelle che nel suo Whiplash riporta lo sguardo cinematografico sulla New York delle scuole di arti, musica e spettacolo. Dimentichiamo inni liberatori, cori e ballerini fra i taxi gialli, la New York di Whiplash è uno spazio mentale - osservato attraverso la soggettiva cinematografica del protagonista Andrew Neiman (Miles Teller) - in cui mettere in scena la tensione violentissima e i pericolosi percorsi che siamo in grado di scegliere per raggiungere i nostri obbiettivi.
Una luce materica e livida illumina le aule del conservatorio in cui Andrew si muove, sempre isolato, la sua camera spoglia al dormitorio, il cinema che frequenta con il padre. È lo sguardo di Andrew che decide cosa illuminare, come un enorme occhio di bue sul palco della Carnegie Hall che mostra solo ciò che vale la pena percepire. Andrew vuole diventare il miglior batterista di New York («e quindi del paese» aggiungerebbe con voce cavernosa il co-protagonista J. K. Simmons) per questo s’iscrive al conservatorio di New York, l’unica scuola che può aiutarlo a raggiungere il suo obbiettivo. Durante le lezioni e le sessioni di prova Andrew ignora compagni di corso e colleghi.  Riesce a instaurare un contatto visivo solo con il kit della sua batteria, con i dischi, i libri e le immagini del suo amato Buddy Rich e ovviamente con lui, il mefistofelico e teutonico maestro e direttore d’orchestra Terence Fletcher (interpretato con calibrato sadismo dal caratterista J. K. Simmons), che l’ha prelevato dalla classe del primo anno per portarlo nell’inferno sublime della sua Studio Band.

venerdì 30 gennaio 2015

Intanto: The One I Love di Charlie McDowell su ArtsLife

Intanto su ArtsLife parlo della versione indie e contemporanea di Chi ha paura di Virginia Woolf?, The One I Love di Charlie McDowell.


 
[ Cliccare sul Elisabeth Moss che gioca con le matrioske per leggere il post]

http://www.artslife.com/2015/01/20/the-one-i-love-la-versione-indie-e-contemporanea-di-chi-ha-paura-di-virginia-woolf/

sabato 24 gennaio 2015

Kaboom di Gregg Araki (2010)


Le strutture asciutte e metafisiche di un campus tutto in notturna accolgono l’arrivo di nuovi giovani eroi. Come nella migliore epica sono introdotti da una visione onirica, un sogno tumido e disturbante che sappiamo già contenere tutta la narrazione che Gregg Araki ha in serbo per noi. Sì, perché anche in Kaboom (pellicola vincitrice della Queer Palm al Festival di Cannes nel 2010) l’apertura ha i contorni sfumati della zona liminale tra veglia e sonno, un momento in cui i sensi in parte obnubilati sembrano sviluppare sensazioni più vivide e acute. Questo succede al diciottenne Smith (Thomas Dekker che eredita il ruolo di eroe timido, sexy e disorientato che fu di James Duval nella Teenage Apocalypse Trilogy), appena arrivato al campus per studiare cinematografia - «Ho sempre desiderato studiare cinema. Anche se risulta un po’ anacronistico, dal momento che ignoriamo se il cinema così come lo conosciamo continuerà a esistere in futuro» - insieme all’amica Stella (Haley Bennett, stupenda). In Kaboom Araki ricostruisce ancora una volta la cellula totipotente dell’unica famiglia possibile, quella componibile e di matrice amicale qui ritratta nell’esplosivo momento del risveglio sessuale.
Smith sogna il sesso con il suo compagno di stanza (un surfista di nome Thor «come il fumetto!» direbbe questi, grattandosi le palle), desidera una relazione romantica col tenero Oliver (Brennan Mejia, una versione arakiana del Ninetto Davoli di Pasolini) e sperimenta, dalla spiaggia per nudisti all’incontro con quel folletto intelligente e maturo di London (Juno Temple, adorabile e bravissima come sempre). Stella, invece, si lancia in una relazione con la strega nera Lorelai (Roxane Mesquida, senza dubbio l’erede di Eva Green) regalandoci momenti di puro disagio e divertimento (provate voi a lasciare una folle di catena con poteri sovrannaturali).

domenica 18 gennaio 2015

La teoria del tutto di James Marsh (2014)



Il limite che spesso evidenzia la cinematografia basata su storie vere, i biopic che portano sullo schermo storie di vite eccezionali è, di contro, la loro estrema convenzionalità. Il mediare tra una rappresentazione che risulti comprensibile e il desiderio di restituire la fascinazione di gesta, intuizioni e pensieri d’individui straordinari, spesso incanala le altrettanto eccezionali potenzialità dell’arte cinematografica in opere poco audaci, dalla struttura semplificata. A differenza di The Imitation Game dove questo limite è una vera e propria tara, La teoria del tutto di James Marsh si avvale di un punto di vista, quello di Jane Hawking, moglie del cosmologo e icona globale Stephen per venticinque anni. Lo sceneggiatore Anthony McCarten aveva intuito la necessità di una prospettiva, cercando per ben tre anni di convincere Jane a portare la sua biografia Verso l’infinito (Travelling to Infinity: My Life with Stephen) sullo schermo, convinto di poter realizzare una visione delicata, poetica e commovente. La teoria del tutto si allontana sia dalla forma del biopic sia da quella della storia d’amore convenzionale per assumere i connotati sognanti di una fiaba «altra», dove l’eroina e il suo amato attraversano e superano tutti gli ostacoli, qui intesi come limiti fisici, intellettivi ed emotivi, per permettere l’incoronazione dell’intelletto di Stephen e del legame unico e anticonvenzionale dei due. Un percorso fiabesco fatto d’immagini stupende: la storia d’amore fra Jane e Stephen nata fra i severi edifici di Cambridge il ballo con le camicie e i cravattini degli uomini e guanti delle donne che brillano alla luce ultravioletta per l’utilizzo del detergente Tide («come stelle che nascono e muoiono» ci dirà Stephen), la progressiva discesa agli inferi a causa della malattia, la forza di Jane nel superare ogni ostacolo per permettere a Hawking di lavorare sul suo sistema scientifico.

martedì 13 gennaio 2015

venerdì 2 gennaio 2015

Mister Hula Hoop dei fratelli Coen (1994)

«Nessuno di noi si aspettava una tale quadratura del cerchio»
 
Mister Hula Hoop (titolo originale: The Hudsucker Proxy) è uno degli esempi più riusciti dell’operazione Avant-Pop di recupero e rielaborazione di materiali propri della cultura popolare. In questo caso Joel e Ethan Coen riprendono l’immaginario della screwball comedy (così come rifaranno dieci anni dopo con Prima ti sposo, poi ti rovino) proponendone stilemi, visioni (ed esagerazioni) per ammiccare allo spettatore con piglio postmodernista, sorprenderlo e spiazzarlo con inserti onirici (l’Habanera ballata in sogno dal protagonista) e una deliziosa commistione con il cinema di Frank Capra attraverso l’esplicito (e spassoso) riferimento all’angelo Clarence de La vita è meravigliosa.
Siamo nel 1958 (/’59): la vita è una serie di piani (di grattacielo of course) da scalare (o da guardare mentre si precipita di sotto dopo che ci si è gettati dalla finestra) e Norville Barnes - giovane provincialotto interpretato da un eccellente Tim Robbins (prima che si desse ehm… alla musica) – arriva a New York City dall’Indiana per cercare lavoro dopo il college. Saranno la sua goffaggine e una minimale invenzione a portarlo al 44˚ piano del grattacielo delle Hudsucker Industries (non contando il mezzanino!), ma il successo, si sa, dà alla testa (e la screwball comedy con la sua comparazione dei piani sociali ce lo insegna) per cui non ci si stupiremo quando Norville abbandonerà ingenuità e amore (per Amy la giornalista sotto copertura che stava per rovinargli la carriera) per godersi con arroganza ogni benefit della sua nuova condizione (con tanto di Anna Nicole Smith nei panni di Zsa Zsa Gabor al braccio…). 

Ė l’espressionismo visivo di una scenografia e una regia al limite della perfezione formale (e citazionistica), la recitazione slapstick di Robbins e Paul Newman e quella esagerata, ritmica (decisamente al cardiopalma), in buona sintesi magistrale di Jennifer Jason Leigh nei panni della giornalista Amy Archer a fare della pellicola un vero cult per cinefili. 
La decostruzione della voce narrante poi sorprende e entusiasma: viene affidata a un narratore onnisciente e a mirabolanti soluzioni visive, poi – con piglio sperimentale - a due a comparse nel frammento della tavola calda in cui due autisti di bus raccontano il primo incontro fra Norville e Amy per tornare - solo nel finale - a svelare l’identità “superiore” del narratore onnisciente.