sabato 29 marzo 2014

S. Darko di Chris Fisher: a Donnie Darko tale (2009)


L’idea di girare un film come S. Darko, sequel del cult indipendente Donnie Darko, deve essere sembrata non solo ardua ma inarrivabile a chiunque sia stato interpellato per essere coinvolto nel progetto.
Nato nello scetticismo in fase di ideazione, scrittura e casting S. Darko di Chris Fisher si è rivelato invece un lavoro coerente con la mitologia creata dal primo film, originale nella messa in scena e soprattutto intelligente nel non cercare un confronto diretto con il film di Richard Kelly, il quale si è (forse troppo rapidamente) dissociato dal progetto.
Il punto di forza di S. Darko sta nell'articolo indeterminativo della tagline del film, quel «a Donnie Darko tale» che lo colloca all'interno dell’universo non in qualità di sequel ma come un tassello di questo.
Lo sceneggiatore Nathan Atkins coniuga gli elementi topici di Donnie Darko nella sua storia, slegata dagli eventi di Middlesex (che qui fanno solo eco nella personalità di Samantha), in cui narra le vicende della piccola di casa Darko, diciassettenne nel 1995, in viaggio on the road insieme all'amica Corey per raggiungere Los Angeles.
L’immaginario di S. Darko è etereo e femminile, il regista Chris Fisher segue le due protagoniste – interpretate da Daveigh Chase (già Samantha in Donnie Darko) e Briana Evigan – nel loro viaggio, interrotto per un incidente nella remota cittadina di Conejo Springs, Utah, in cui Samantha e Corey saranno presto circondate da una composita e strana fauna, pronta ad amplificarsi e amplificare l’orrore grazie al ponte di Einstein-Rosen, il wormhole di cui abbiamo scoperto in Donnie Darko.

In fuga dalla phoniness: una nota su Il giovane Holden di J.D. Salinger (1951)



La realtà così come la conosciamo oggi, alla deriva, «sfinita» (secondo la perfetta definizione di Tommaso Pincio) saturata da un insieme impazzito e variamente accelerato di schegge d’immaginari e materiali diversi che convivono contemporaneamente ha un’origine. Vi è una continuità nella rappresentazione di ciò che ha portato alla «perdita dell’unità del mondo» e il suo punto focale è da riconoscersi negli anni Cinquanta, quando uscirono i romanzi Il giovane Holden (The Catcher in the Rye) di J.D. Salinger e Sulla strada di Jack Kerouac. Fu quello il momento in cui venne fuori un nuovo pubblico, quello giovanile, entusiasta di poter finalmente riconoscere i propri tratti, le proprie ansie e i propri orrori nei confronti della rapida e totale normalizzazione sociale, in un’opera letteraria.
Ne Il giovane Holden, da considerarsi uno dei capolavori più alti dell’arte del narrare, il sempre compianto J.D. Salinger riesce a rappresentare il lancinante desiderio di fuga dalla permeante phoniness, la falsità, l’ipocrisia del contesto sociale post secondo conflitto mondiale. Questa permea, non solo tutte le relazioni umane, ma anche l’ambiente culturale, la scuola, e la famiglia, luogo principe in cui nasce e si ambienta quello che Henry Miller definì «incubo ad aria condizionata»: il minimalismo morale delle merci, della proprietà privata e del sorriso da reclame. Lo sgomento assoluto, fisicamente invalidante, che coglie a tratti il giovane Holden Caulfield è il sintomo del disagio assoluto, insostenibile,  vissuto nei confronti dell’ipocrisia dell’interlocutore, delle diverse situazioni che la sua incipiente flânerie (frutto dello stesso disagio) mette alla sua portata.
La fuga di Holden da Pencey, per tornare a New York, richiama quella dei suoi diretti predecessori Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Pur condividendo l’humor e lo sbeffeggiamento sociale al moralismo da sottana con Tom Sawyer, qui reincarnatosi nella critica alla spocchiosità della classe medio-alta, dei preps (descritti a sapide e grottesche pennellate come disgustosi e melliflui), Holden sa già che la sua è una fuga «sfinita». La ricerca che lo attanaglia e che nel flusso narrativo per sua voce è spesso sincopata e straziante, si consuma nel pre-rientro a casa. Nonostante il desiderio finale di fuggire verso l’ovest Holden sa già che essa è sfiatata dall’impossibilità di realizzarla. Questa non è la panica fuga di Huck Finn nella natura, ma un percorso fra quelli che sono a tutti gli effetti non-luoghi e metafisici incontri à la Edward Hopper nell’isola di Manhattan. Alla fine del racconto - per quanto diversificata e lacerante sia stata la ricerca - la normalizzazione deve avvenire e il disagio per la propria diversità, così ben rappresentata da Holden nel suo racconto, non può che implodere e consumarsi senza remissione e tutta in interno. 

domenica 23 marzo 2014

Donnie Darko di Richard Kelly (2001)

Sarebbe magnifico conoscere il percorso creativo che ha portato l’allora esordiente Richard Kelly (che, stando alla foto di IMDB, somiglia tanto al suo primo personaggio) alla realizzazione di quel cult assoluto che è Donnie DarkoSì, perché il giovanissimo regista, con un budget limitato, realizza una visione d’incredibile potenza visiva e concettuale. Una visione in cui riflessione scientifica, echi millenaristici, camp, iperrealismo e iperrealtà pluridimensionale, nevrosi suburbane, gotico americano, psicoanalisi e musica pop, convivono e coagulano insieme sullo schermo. Il risultato è un’esperienza cinematografica unica e straniante, in grado ancora oggi di accendere dibattiti e discussioni, soprattutto nel grande fandom online. 
Richard Kelly ambienta la sua storia nel 1988 seguendo un percorso narrativo che si muove lungo un ponte di Einstein-Rosen (o wormhole che dir si voglia) e raccontato attraverso le visioni quotidiane del giovane Donnie Darko (Jake Gyllenhaal) nella cittadina di Middlesex, affollata da una fauna suburbana figlia delle (felici) ossessioni narrative e cinefile del regista che vanno da Stephen King, a E.T. passando per Grace Metalious, Graham Green, Dead Poets Society e John Waters.

sabato 22 marzo 2014

The Living End di Gregg Araki (1992)


Era il 1992, da lì a poco sarebbe arrivato l’Armageddon Avant-Pop della Teenage Apocalypse Trilogy, con l’esplosione folle e sensuale della realtà in una miriade di frammenti impazziti, provenienti da decine e decine d’immaginari e identità intercambiabili. A quel tempo il giovane Gregg Araki, nato e cresciuto nella Hollywood Babilonia, ha ben chiaro quello che accadrà. Sorride, perché sa già che sarà proprio lui a rappresentare il caleidoscopico tornado invocato da tutte le tribù della controcultura, annunciato dalle trombe di MTV e dall’avvento del cyberspazio. Proprio in quell’anno Araki gira uno dei suoi film più belli: The Living End, che visto a distanza di ventidue anni dalla sua uscita dà la sensazione del capolavoro, sia per il sistema d’amore rappresentato sia per l’energia creativa tutta in low budget e l’aura di iconicità che solo Araki sa donare a tutti i suoi personaggi.
Siamo nella città degli angeli, una bomboletta spray viene agitata sulle colline di Hollywood mentre risuona Godlike dei KMFDM prima che questa venga lanciata contro lo skyline della città. Comincia così il viaggio fra quelle che in Doom Generation saranno le rovine della cultura contemporanea ma che qui sono ancora il luogo ideale per la rappresentazione autocosciente della MTV generation, con i dialoghi e i monologhi autorefenziali mutati da Three Bewildered People in the Night, che saranno poi del manifesto generazionale Totally Fucked Up e della serialità teen che verrà (Dawson’s Creek). Qui il sieropositivo Jon, efebico e malinconico incontra il white hustler Luke - progenie del Bruce Byron di Scorpio Rising - in fuga dopo aver ucciso tre aggressori con indosso le t-shirt di Sex, lies and videotapes e Drugstore Cowboy. I due intraprenderanno un road movie, avanguardia di quello che sarà poi in Doom Generation ma che qui ha ancora le caratteristiche dell’umano nella sua ruvida, sanguinolenta e sensuale rappresentazione.

domenica 9 marzo 2014

Una nota (di biasimo) su The Canyons di Paul Schrader (2013)



Non c’è vita oltre Lunar Park, il commiato aereo, perfettamente malinconico, di Bret Easton Ellis alla scrittura. Lo splendido e complesso romanzo del 2005 è l’ultima grande opera del genitore scellerato che tutti noi abbiamo avuto durante gli anni Novanta, l’autore dei cult assoluti Meno di zero, Le regole dell’attrazione, American Psycho e Glamorama. Quello che è arrivato dopo Lunar Park è stato solo manierismo e recupero superficiale. Abbiamo avuto Imperial Bedrooms, e il cinema, la sua ossessione più recidiva: il soggetto imbarazzante di The Informers – vite oltre il limite (riduzione delle idee presenti nella raccolta Acqua dal sole) e la sceneggiatura di questa pellicola, The Canyons, diretta da Paul Schrader (cosa che ci fa ancora più male). Tra questi l’unica cosa che ritengo di un qualche valore: l’incursione voice-over nel video dei Placebo Too many friends, nei panni di un narratore alle prese con un giallo irrisolvibile con protagonisti un gruppo di ragazzi, che dall’aspetto ci sembrano proprio i figli di Julian e Blair di Meno di zero.
Torniamo a The Canyons. Sarebbe troppo infierire nel riportare quanto sia agghiacciante e triste assistere alla riproposizione fine a se stessa di tutto un rosario di idee, situazioni e personaggi, recuperati con fare approssimativo e sciatto da un immaginario che ha cambiato il modo di narrare e percepire la letteratura. Dopo la visione del film sgomento, rabbia e scoramento hanno colto tutti gli amanti di Ellis, del minimalismo, della classe di Paul Schrader. Film che sfoggia pure un finale sfiatato e flatulento, in grado di dare il colpo di grazia a chiunque.   

L’unica nota positiva è rappresentata dai protagonisti: una Lindsay Lohan, sfatta, sensuale, meravigliosa nel suo costume rosso di American Apparel, non ha bisogno nemmeno di recitare per essere memorabile, e lui, la rivelazione James Deen, attore pornografico e nuovo idolo delle teen-ager (che dopo aver visto i suoi film amano scrivergli e chiedergli di tutto via twitter), passato al cinema istituzionale. Nonostante il ruolo loffio scritto per lui Deen riesce a essere convincente e questa è davvero un'impresa di tutto rispetto. Nemmeno il cameo di Gus Van Sant nei panni dello psichiatra presso cui è in cura il personaggio di James Deen vale la visione della pellicola. 

Che dire di più? Mi auguro solo che Ellis possa tenersi lontano dalla penna, onde evitare di fare altri danni alla sua straordinaria carriera. 

sabato 1 marzo 2014

Il Don Giovanni di e con Filippo Timi (2014)


di Lorenzo Peroni
 
Torna in scena Filippo Timi con il suo Don Giovanni, in scena fino al 9 marzo a Milano, al Teatro Franco Parenti dove ormai è di casa.
Mantenendo l’intreccio del Don Giovanni di Mozart con il libretto di Da Ponte, Filippo Timi ha realizzato una reinvenzione totale del personaggio e del narrato creando un macrocosmo completamente nuovo, scrivendo uno spettacolo incredibilmente brillante e convincente, alla Timi.
Un Don Giovanni che, come dice l’autore stesso “non ne può più di questa fame insaziabile e dell’accumulo della conquista: è faticoso non riuscire ad essere mai soddisfatti“; bulimico quindi, tanto quanto la messa in scena dello show, un personaggio contemporaneo e disfunzionale, come quelli che, per esempio, popolano il nuovo l’umanesimo di Jason Reitman (Juno e Young Adult).
Lo spettacolo inizia con un tentativo di suicidio da parte del protagonista dilaniato da due tendenze: essere un uomo ed essere un mito -un’idea- allo stesso tempo.
Un questo un universo creato dall’unione di molti generi e forme, un barocco contemporaneo lisergico ed abbagliante con momenti musicali che spaziano da Ridi Pagliaccio ai Queen. Le proiezioni tra gli atti di video virali presi da youtube (I have a bad case of diarrhea o Part of your world dalla Sirenetta Disney, ma in giapponese) portano il mito del Don Giovanni nella contemporaneità del 2.0. 
In questo Don Giovanni contemporaneo arde il desiderio di bruciare, non riuscendo però mai a bruciare veramente, è una frustrazione reiterata, come in un gorgo inarrestabile che sembra riportarlo sempre allo stesso punto una corsa disperata alla ricerca di una via d’uscita da un cul de sac fluorescente e abbagliante: impossibile non credergli o ancora meglio non desiderare credergli. E poi, ovviamente, le sue donne e i suoi amori. Donna Elvira è il passato, sedotta e abbandonata già a inizio spettacolo, è l’amore che ritorna a chiedere il pegno di una promessa fatta e procrastinata all’infinito, l’amore che si concede e viene rifiutato. Donna Anna è invece la sadica incarnazione dell’amore ingannatore, violento e prevaricatore, è il sentimento che libera da un vecchio incubo e rende la donna libera di scendere verso un incubo ancora più cosciente, è l’amore compulsivo, immediato, sbagliato per definizione: disfunzionale. Zerlina, interpretata in maniera irresistibile da Marina Rocco, è l’ingenua (?!) e ruspante contadinella che rappresenta l’estemporaneo, la dialettica della seduzione nel divenire, è l’amore invidioso, il desiderio di rubare la donna al marito, un mezzo per ritrovare quella purezza semplice e disincantata di sposare la figlia del farmacista: una rincorsa verso l’illusione di una redenzione bucolica. E poi i servi, istrionici e civettuoli, che tengono banco con i lori battibecchi e i loro sotterfugi diabolici… Perché in fine c’è sempre il diavolo che ci mette lo zampino, si sa. Ogni personaggio è caratterizzato in maniera dinamica e compiuta, c’è in loro un forte scollamento dal concetto classico di maschera -di tipo- per mettere in scena dei personaggi che crescono, cambiano, spinti da moti chiari e raccontati con forza e convinzione. 

Timi è letteralmente un animale da palcoscenico, fisico ed empatico col pubblico che non può fare a meno di adorarlo e di farsi risucchiare nel suo mondo chiassoso e disturbato: è come cadere nella tana del Bianconiglio; comicità e gran baccano per uno spettacolo fracassone che si fa potente divertissement avant-pop.
Con il suo Don Giovanni, Filippo Timi, conferma quindi nuovamente il suo talento vitale: un mese di tutto esaurito in attesa del suono nuovo spettacolo, Skianto, in scena sempre al Parenti dal 25 marzo.

Le notti di Salem di Tobe Hooper (1979)



È straordinario come la letteratura e il cinema siano riusciti a trovare una via di fuga a quella che Henry Miller aveva definito «incubo ad aria condizionata», in altre parole ciò che erano diventati gli Stati Uniti negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Se nel 1956 una casalinga alcolista di Gilmanton, New Hampshire, aveva liberato le energie più peccaminose e violente della provincia col suo romanzo d’esordio Peyton Place, nel 1975 Stephen King aveva portato fra quegli steccati l’orrore sovrannaturale, la materializzazione delle paure più recondite e ferine nel suo Le notti di Salem. Quello di King è un romanzo ricco e composito, che, come in ogni opera del Re, ha nelle parti dedicate alla everyday life le sue migliori pagine.
Dal romanzo – dopo un rosario di traversie che vide persino Romero fra i papabili registi – è stata tratta una mini serie televisiva diretta da Tobe Hooper. La Salem’s Lot (Jerusalem's Lot) di Hooper è il perfetto quadro della provincia americana, un luogo raccolto, dove il microcosmo suburbano si muove osservante e osservato, dove la vita quotidiana guarda di sottecchi alla leggenda popolare che - memore dell’eredità lovecraftiana – s’incarna in un’abitazione maledetta, materializzazione fisica dell’orrore. Alla ricerca della vera essenza del male – dopo un antefatto ambientato in una chiesa a Calcutta – arriva qua lo scrittore Ben Mears (David Soul) che affitta una stanza con vista sulla Casa Marsten, luogo di innominabili e mai risolti misteri e orrori. L’abitazione coloniale, è stata oggi affittata agli antiquari Richard Straker e Kurt Barlow intenzionati ad avviare un’attività proprio a Salem’s Lot.