La realtà
così come la conosciamo oggi, alla deriva, «sfinita» (secondo la perfetta
definizione di Tommaso Pincio) saturata da un insieme impazzito e variamente
accelerato di schegge d’immaginari e materiali diversi che convivono
contemporaneamente ha un’origine. Vi è una continuità nella rappresentazione di
ciò che ha portato alla «perdita dell’unità del mondo» e il suo punto focale è da
riconoscersi negli anni Cinquanta, quando uscirono i romanzi Il giovane Holden (The Catcher in the
Rye) di J.D. Salinger e Sulla strada di
Jack Kerouac. Fu quello il momento in cui venne fuori un nuovo pubblico, quello
giovanile, entusiasta di poter finalmente riconoscere i propri tratti, le
proprie ansie e i propri orrori nei confronti della rapida e totale
normalizzazione sociale, in un’opera letteraria.
Ne Il giovane Holden, da considerarsi uno dei capolavori più alti dell’arte
del narrare, il sempre compianto J.D.
Salinger riesce a rappresentare il lancinante desiderio di fuga dalla permeante
phoniness, la falsità, l’ipocrisia del
contesto sociale post secondo conflitto mondiale. Questa permea, non solo tutte
le relazioni umane, ma anche l’ambiente culturale, la scuola, e la famiglia,
luogo principe in cui nasce e si ambienta quello che Henry Miller definì
«incubo ad aria condizionata»: il minimalismo morale delle merci, della
proprietà privata e del sorriso da reclame. Lo sgomento assoluto, fisicamente
invalidante, che coglie a tratti il giovane Holden Caulfield è il sintomo del disagio assoluto, insostenibile, vissuto nei confronti dell’ipocrisia
dell’interlocutore, delle diverse situazioni che la sua incipiente flânerie
(frutto dello stesso disagio) mette alla sua portata.
La fuga
di Holden da Pencey, per tornare a New York, richiama quella dei suoi diretti
predecessori Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Pur condividendo l’humor e lo sbeffeggiamento sociale al moralismo
da sottana con Tom Sawyer, qui reincarnatosi nella critica alla spocchiosità
della classe medio-alta, dei preps
(descritti a sapide e grottesche pennellate come disgustosi e melliflui), Holden
sa già che la sua è una fuga «sfinita». La ricerca che lo attanaglia e che nel
flusso narrativo per sua voce è spesso sincopata e straziante, si consuma nel
pre-rientro a casa. Nonostante il
desiderio finale di fuggire verso l’ovest Holden sa già che essa è sfiatata
dall’impossibilità di realizzarla. Questa non è la panica fuga di Huck Finn
nella natura, ma un percorso fra quelli che sono a tutti gli effetti non-luoghi
e metafisici incontri à la Edward
Hopper nell’isola di Manhattan. Alla fine del racconto - per quanto
diversificata e lacerante sia stata la ricerca - la normalizzazione deve
avvenire e il disagio per la propria diversità, così ben rappresentata da
Holden nel suo racconto, non può che implodere e consumarsi senza remissione e
tutta in interno.
complimenti per il post!
RispondiEliminaquesto è uno di quei capisaldi di cui avrei un gran timore reverenziale a parlarne...
Marco ti ringrazio moltissimo!
EliminaL'ho riletto da poco e ho voluto appuntare qui le suggestioni. Che meraviglia la pagina di Salinger.