sabato 29 marzo 2014

In fuga dalla phoniness: una nota su Il giovane Holden di J.D. Salinger (1951)



La realtà così come la conosciamo oggi, alla deriva, «sfinita» (secondo la perfetta definizione di Tommaso Pincio) saturata da un insieme impazzito e variamente accelerato di schegge d’immaginari e materiali diversi che convivono contemporaneamente ha un’origine. Vi è una continuità nella rappresentazione di ciò che ha portato alla «perdita dell’unità del mondo» e il suo punto focale è da riconoscersi negli anni Cinquanta, quando uscirono i romanzi Il giovane Holden (The Catcher in the Rye) di J.D. Salinger e Sulla strada di Jack Kerouac. Fu quello il momento in cui venne fuori un nuovo pubblico, quello giovanile, entusiasta di poter finalmente riconoscere i propri tratti, le proprie ansie e i propri orrori nei confronti della rapida e totale normalizzazione sociale, in un’opera letteraria.
Ne Il giovane Holden, da considerarsi uno dei capolavori più alti dell’arte del narrare, il sempre compianto J.D. Salinger riesce a rappresentare il lancinante desiderio di fuga dalla permeante phoniness, la falsità, l’ipocrisia del contesto sociale post secondo conflitto mondiale. Questa permea, non solo tutte le relazioni umane, ma anche l’ambiente culturale, la scuola, e la famiglia, luogo principe in cui nasce e si ambienta quello che Henry Miller definì «incubo ad aria condizionata»: il minimalismo morale delle merci, della proprietà privata e del sorriso da reclame. Lo sgomento assoluto, fisicamente invalidante, che coglie a tratti il giovane Holden Caulfield è il sintomo del disagio assoluto, insostenibile,  vissuto nei confronti dell’ipocrisia dell’interlocutore, delle diverse situazioni che la sua incipiente flânerie (frutto dello stesso disagio) mette alla sua portata.
La fuga di Holden da Pencey, per tornare a New York, richiama quella dei suoi diretti predecessori Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Pur condividendo l’humor e lo sbeffeggiamento sociale al moralismo da sottana con Tom Sawyer, qui reincarnatosi nella critica alla spocchiosità della classe medio-alta, dei preps (descritti a sapide e grottesche pennellate come disgustosi e melliflui), Holden sa già che la sua è una fuga «sfinita». La ricerca che lo attanaglia e che nel flusso narrativo per sua voce è spesso sincopata e straziante, si consuma nel pre-rientro a casa. Nonostante il desiderio finale di fuggire verso l’ovest Holden sa già che essa è sfiatata dall’impossibilità di realizzarla. Questa non è la panica fuga di Huck Finn nella natura, ma un percorso fra quelli che sono a tutti gli effetti non-luoghi e metafisici incontri à la Edward Hopper nell’isola di Manhattan. Alla fine del racconto - per quanto diversificata e lacerante sia stata la ricerca - la normalizzazione deve avvenire e il disagio per la propria diversità, così ben rappresentata da Holden nel suo racconto, non può che implodere e consumarsi senza remissione e tutta in interno. 

2 commenti:

  1. complimenti per il post!
    questo è uno di quei capisaldi di cui avrei un gran timore reverenziale a parlarne...

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    1. Marco ti ringrazio moltissimo!

      L'ho riletto da poco e ho voluto appuntare qui le suggestioni. Che meraviglia la pagina di Salinger.

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