Oggi, il genere horror si barcamena percorrendo e
rendendo sempre più sfruttata e noiosa la strada del P.O.V. (point of view) ma dimostra di avere
ancora le energie giuste, in genere energie nuove,
in grado di ottenere risultati interessanti e originali. Lo avrà pensato - mettendo
a frutto ancora una volta un certo talento nello scouting - anche il regista e produttore messicano Guillermo del Toro che visto su Youtube
(dove è ancora disponibile) il corto Mama
realizzato dal giovane regista spagnolo Andrés Muschietti, decide di produrre un lungometraggio a esso ispirato, uscito (straordinariamente
in anticipo) da noi con il titolo La Madre. Il risultato è una
pellicola in cui il gotico e il fiabesco si commistionano nel contemporaneo per
raccontare la maternità, traumatizzata, inattesa, abbracciata e subita dalle
piccole protagoniste: Victoria (Megan Charpentier) e Lilly (Isabelle Nélisse).
Assai importante la presenza al centro della vicenda di Annabel, rocker
indipendente che viene, suo malgrado, a trovarsi in un grande casa insieme alle
due bambine cui deve far da madre (dividendosi inconsapevolmente i compiti con
quella dall'altro mondo), interpretata in maniera eccellente da Jessica Chastain, bellissima sotto il
caschetto nero di Annabel e principale bersaglio dell’irata genitrice
sovrannaturale.
sabato 30 marzo 2013
Mama: La madre di Andrés Muschietti (2013)
mercoledì 27 marzo 2013
Excision di Richard Bates Jr. (2012)
Le eredità, di qualunque tipo, sono spesso simili ai
fiumi carsici. Il riarrangiamento genico può provocare il salto di una
generazione o più, e rivelare un insieme di caratteri dopo tempo. È quello che
è successo alla schiera di registi freak
e proto-punk che ha guidato orde di cinefili antisistema, geek, disturbati (leggi illuminati…). Registi come il «re del
vomito» ed esteta sopraffino John Waters
o l’agghiacciante e formale Paul Bartel
che ci hanno fatto attraversare le lande di un cinema “altro”, irriverente,
sanguinolento, umorale, in grado di ribaltare codici e stilemi, un cinema
capace di mettere la società capitalistica di fronte alle proprie orribili
generazioni. A distanza di anni dall’uscita di Female Trouble e Bambole e
sangue ecco che, fresco di diploma alla prestigiosa Tisch School of the
Arts, arriva questo giovane e promettente Richard
Bates che realizza una prima prova che è già un capolavoro: Excision.
Ambientato in una suburbia che a
stento riesce a mantenere lindi i propri steccati, le cui nevrosi sottese a
splendidi sorrisi (secondo la lezione di Grace Metalious e Bree Van De Kamp)
non è più possibile celare. Un luogo vacuo, in cui quel che resta
dell’istituzione familiare e scolastica è sul tavolo operatorio messo su in
garage dalla morte, ancora una volta pronta a lavorare in diretta. Nella zona
residenziale di Excision alcuni dei freak suburbani più iconici della
cinematografia americana occupano posti istituzionali: Traci Lords è una nevrastenica e moralmente minimale madre di
famiglia, Malcom McDowell un
conforme professore di matematica, John Waters un contrito reverendo e il mefistofelico Ray Wise veste, ovviamente, i panni del preside. Il lavoro
situazionista di Bates si completa con la scelta della protagonista, la star di
90210 Annalynne McCord che stravolge la propria fisicità per vestire i
panni di Pauline, agghiacciante adolescente dalle pulsioni necrofile,
sociopatica con la passione per la chirurgia, il sangue e le infezioni.
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venerdì 15 marzo 2013
Jackie Brown di Quentin Tarantino (1997)
Quentin Tarantino ha appena finito di raccogliere larghi consensi di critica e di pubblico con il suo ultimo film Django Unchained ma tutte le sue pellicole godono, oggigiorno, di ottima salute e vengono continuamente riscoperte da parte di addetti ai lavori, fans e spettatori che semplicemente le beccano in seconda serata sulla TV generalista.
Jackie Brown è tra le pellicole che preferisco. I dialoghi tarantiniani (ricordate la discussione sulle armi fra Ordell e Louis davanti alla TV?), l’arte certosina del «recupero delle fonti» che qui vede la riproposizione del blaxploitation (film d’exploitation per un pubblico di afroamericani) con la presenza della magnifica Pam Grier, l’omaggio spassionato alla letteratura pulp di Elmore Leonard (il film è tratto dal suo romanzo Rum Punch e il personaggio di Jackie Brown cita il libro The Friends of Eddie Coyle amatissimo da Leonard stesso ).
Jackie Brown (quella procace black mama di Pam Grier) è una hostess invischiata in un giro di contrabbando di armi e denaro per conto di Ordell Robbie (Samuel L. Jackson e il suo cappellino Australian si sono conosciuti su questo set, n.d.r.) uno sciamannato piccolo farabutto convinto di tenere le redini di chissà quale enorme giro di affari. Al suo fianco Louis (uno spiegazzato e spassosissimo Robert De Niro) e Melanie (una sexy e rompiballe Bridget Fonda). La polizia - nei panni di Ray Nicolette (un irritante Michael Keaton) e Mark Dargus - inizia a interessarsi al caso mettendo alle strette Jackie che intanto ha conquistato il cuore di Max Cherry, professione garante di cauzioni. Gli ingredienti per un ottimo noir ci sono tutti, se poi a girarlo è Quentin Tarantino lo spasso è assicurato (attenzione il film è stato riscoperto negli ultimi anni, allora venne considerato addirittura un passo falso!).
Le citazioni sono moltissime, gli appassionati (e non) potranno divertirsi a trovarle tutte compresi i riferimenti ai film precedenti di Tarantino (Le iene, Pulp Fiction) ma resta indubbia la bellezza della pellicola in cui Quentin sposta sullo sfondo l’esegesi dello schizzo di sangue per raccontare con più ampio respiro la storia d’amore tra Jackie e Max e dare il giusto spazio all'intreccio squisitamente crime.
Una vita al massimo di Tony Scott (1993)
Una vita al massimo (titolo originale True Romance) - secondo capitolo della «trilogia pulp» di Quentin Tarantino dopo il capolavoro formale e citazionistico Le Iene - riprende trame, tic e stilemi del Romance Comic: fumetto incentrato su storie d’amore certamente romantiche ma messe in difficoltà da complicazioni come gelosia e tradimenti. Materiale che Tarantino porta all'estremo nella sua sceneggiatura regalando al pubblico una delle coppie più rock della cinematografia tutta. Basti pensare alla sola reazione di Alabama «è così romantico!» al massacro compiuto da Clarence per lei.
Nella prima, cupissima, parte della pellicola il giovane Clarence Worley (che ha il volto da teen devil di Christian Slater) incontra la dolce prostituta Alabama Withman (la stupenda Patricia Arquette) ingaggiata da un amico per il suo compleanno. Fra i due è subito amore, assoluto e devoto. Sarà questo sentimento incendiario (complice il modello dei fumetti e dei b-movie di cui fa incetta) a spingere Clarence nella tana del vecchio protettore di Alabama, per ucciderlo. Qui il nostro avrà il suo incontro con l’evento casuale (forza motore di ogni produzione pulp che si rispetti): una valigetta piena di cocaina purissima che in una girandola di eventi sempre più cruenti porterà i protagonisti a Los Angeles e, poim al finale (o, come vedremo ai finali). Già, valigetta, come quella zeppa di diamanti de Le iene o quella misteriosa e catartica dell’ultimo film della trilogia Pulp Fiction.
Gli sceneggiatori e (allora) amici Quentin Tarantino e Roger Avary mettono fra le mani del regista Tony Scott una grande quantità di materiale cinefilo: dai film visionati continuamente dai diversi personaggi (i film di Sonny Chiba, A better tomorrow II, Freejack fuga dal futuro) alle citazioni formali, come la scena di sesso fra Alabama e Clarence (che richiama quella fra Tom Cruise e Kelly McGillis in Top Gun) e ai divertissement iconici come il mafioso italiano Vincenzo Cocotti interpretato dall'immenso Christopher Walken o lo sfattissimo coinquilino losangelino interpretato da Brad Pitt e infine il mexican standoff (che ritroviamo in tutti i film della trilogia) a casa del produttore e spacciatore Lee Donovitz.
domenica 10 marzo 2013
Tarantino e l'omaggio corale alla Nouvelle Vague: Four Rooms (1995)
Difficile destreggiarsi tra i molti progetti portati avanti da Quentin Tarantino: le presentazioni, le collaborazioni, le consulenze, i cammei. Prendiamo per esempio il progetto Four Rooms, nato dal suo desiderio di realizzare un film collettivo (doveva intitolarsi inizialmente Five Rooms prima della defezione del regista Richard Linklater), al fianco di alcuni colleghi del Sundance Film Institute: la regista indipendente Allison Anders (Mi vida loca), il regista, sceneggiatore e produttore Alexandre Rockwell (In the soup) e l’amico fraterno Robert Rodriguez (Sin City). Tarantino - qui intenzionato a omaggiare la Nouvelle Vague - portò avanti il progetto con il proverbiale entusiasmo che lo caratterizza ma il risultato – oggi storicamente apprezzato – non suscitò la giusta risposta di critica e pubblico. E dire che anni dopo, schiere di esegeti in tutta America e Europa si sarebbero occupati di sviscerare intenti, stilemi, citazioni (moltissime, come sempre) e divertissement assortiti dei quattro registi, portando ognuno degli episodi in cui è suddiviso il film allo status di cult da celebrare con attitudine feticista.
Collante fra le quattro storie – ambientate in altrettante camere dello stesso albergo – è il fattorino Ted (interpretato da un Tim Roth in versione Buster Keaton postmoderno) che si muove fra le diverse camere fino al crollo nervoso e al magistrale climax finale.
L’hotel è sempre stato uno dei paradigmi Avant-Pop attraverso cui declinare temi, esperimenti stilistici e costruzioni di immaginari. Pensiamo a Hotel Room di David Lynch o al film 1408 tratto dall'omonimo racconto di Stephen King.
Il primo episodio: Honeymoon Suite - The Missing Ingredient scritto e diretto da Allison Anders vede un gruppo di streghe (tra cui una Madonna appena uscita dalle pagine di SEX) impegnate a sedurre Ted per carpire il suo sperma, ingrediente finale che riporterà fra noi la Dea cui la congrega di streghe è devota. Fra citazioni d’antan come il burlesque à la Betty Page e effetti posticci multicolori, Ted finirà per cedere alle lusinghe della strega designata a “prelevare” il materiale (una fragolosa pin-up interpretata da Ione Skye) e la congrega potrà così completare il proprio rituale.
Il secondo episodio: Room 404 - The Wrong Man diretto da Alexandre Rockwell vede Ted finire per sbaglio nel bel mezzo di un gioco pericoloso fra due folli amanti (di cui Ted sconosce la matrice ludica). Il marito Siegfried accusa Ted di aver irretito la moglie (Jennifer Beals) tenuta per questo legata a una sedia. I tre danno vita a una sequela di dialoghi e sketch meravigliosi (come quella in cui Jennifer Beals inizia a ripetere tutti i sinonimi della parola «pene»).
sabato 9 marzo 2013
Barton Fink - È successo a Hollywood dei fratelli Coen (1991)
Barton Fink – quarta
pellicola dei fratelli Coen - rappresenta il superamento di un impasse creativo vissuto dal duo
di cineasti ai tempi della scrittura di Miller’s Crossing. È così
succede che, abbandonando temporaneamente il progetto in corso, Joel e Ethan
scrivano Barton Fink in sole tre settimane. Abituati a ragionare sul
genere e a rielaborare immaginari i Coen costruiscono qui uno dei personaggi più
interessanti della cinematografia contemporanea, quel Barton Fink interpretato
dall'immenso John Turturro (che collaborò alla stesura del personaggio
rendendolo più umano). Barton Fink è incarnazione dell’intellettuale
puro e utopico, integro e fragile (perché poco duttile), calato da Broadway
nella Oscura Babilonia di Hollywood, con i suoi giganteschi ingranaggi seriali
e i suoi rivoli di sangue e lacrime ai lati dei marciapiedi.
Molto si è
ragionato su quanti e quali siano stati i materiali culturali utilizzati dai
Coen per la pellicola: l’horror, il thriller à la Hitchcock, i classici
delle letteratura anglosassone, la Bibbia, la rappresentazione dell’industria
cinematografica, il fascismo, l’omosessualità, la schiavitù, l’ingresso degli
Stati Uniti nel Secondo Conflitto Mondiale. Sappiamo, però, che quella dei Coen non è mai una
mera citazione quanto piuttosto una complessa rielaborazione che supera i territori già battuti del
postmodernismo.
I Coen elaborano una visione in grado di calare
lo spettatore al fianco del protagonista nel suo viaggio da New York a
Hollywood, nel passaggio dall'elitarismo snob delle produzioni teatrali alla
mercificazione più bassa della grande major, pronta a rendere Barton uno dei
tanti schiavi consenzienti (passaggio che ritroveremo nella pellicola
successiva Mister Hula Hoop). Barton tenterà di evitare il giogo
prendendo alloggio all’Hotel Earle (un meraviglioso riferimento all’Overlook
Hotel di Shining).
La tappezzeria “organica” sui colori del verde e dell’ocra, l’assenza/presenza
di coinquilini di cui registriamo l’esistenza solo dalla fila ordinata di scarpe da
lucidare fuori dalla porta nonché dagli orribili suoni “viscerali” provenienti dalle
camere, il solipsistico ritratto della donna sulla spiaggia come unico vezzo
dell’angusta camera di Barton, l’Hotel Earle è lo scellerato ventre materno che
accoglie il protagonista per restituirlo a sé stesso degradato, insicuro,
sconfitto.
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sabato 2 marzo 2013
Sukiyaki Western Django di Takashi Miike (2007)
Anche il Giappone ha avuto il suo spaghetti western
in età contemporanea, girato nientemeno che da Takashi Miike, signore e signori, nel 2007. Si tratta del
portentoso Sukiyaki Western Django. Due ore di roboante commistione fra
elementi orientali e occidentali, statunitensi e giapponesi, contemporanei e
risalenti alla guerra civile americana. Il lavoro di “Beat” Takashi è immane
perché rende, elegante, fluido e coerente un flusso narrativo nato dal
compenetrarsi di due canoni: il racconto orientale di vendetta (con la sua base
di onore, violenza e spiritualità) e il western all'italiana, cinico, violento,
antimoralistico e pessimista. Il film è introdotto dal frammento di Piringo
(interpretato da Quentin Tarantino!), un pistolero che in uno scenario posticcio
e teatrale recupera un uovo già ingoiato da una serpe per preparare il suo sukiyaki. Piringo
racconta della leggendaria battaglia fra gli Heike (i bianchi) e i Genji (i
rossi) a dei pistoleri che sembrano braccarlo. Da qui prende avvio la vicenda
vera e propria, con l’arrivo di un pistolero solitario in Nevada (come indica
un segnale di legno intagliato a caratteri giapponesi…) e il suo confronto con
le due bande di filibustieri in lotta per accaparrarsi una cittadina che
custodisce un enorme tesoro.
Fra storie di estrema violenza e poesia (come vuole
il canone giapponese), comicità, catarsi danzanti (imperdibile il frammento in
cui la “tentatrice” Shizuka racconta il suo dramma per movimenti nel saloon
degli Heike), racconto orale, mitologia e agnizioni in duello, Takashi Miike
realizza una grande opera Avant-Pop. In Sukiyaki
Western Django il frammento non è mai lasciato a se stesso o giustapposto,
è bensì elemento integrato nella narrazione. Ecco perché troviamo plausibile (e
meraviglioso) che il rozzo Kiyomori, leader dei Rossi, tiri fuori l’Enrico VI di Shakespeare, evocando la Guerra delle due rose (come Piringo
aveva citato la Battaglia di Dan-no-ura), o che Benkei, con indosso un cappello
coi crini in stile tibetano, trascini dietro la sua diligenza una copia esatta
della bara del Django corbucciano
contenente anch'essa un’enorme mitragliatrice.
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