venerdì 27 dicembre 2013

I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller (2013)

È dai tempi della commedia indie per eccellenza Giovani, carini e disoccupati che il Ben Stiller dietro la macchina da presa ci piace e sembra non sbagliare un colpo. Il suo ultimo film, l’adorabile I sogni segreti di Walter Mitty sembra dialogare proprio con la pellicola manifesto che fece di Ethan Hawke l’attore feticcio della indie culture. In quest’ultima pellicola una generazione tradita, fragile, umana e reale si confronta con la contemporaneità, le cui logiche sono ormai totalmente finanziare, irreali e lontane dal concetto di lavoro.
Il film è l’immaginifico rifacimento dell’omonimo TheSecret Life of Walter Mitty (in Italia Sogni proibiti) girato nel 1947 da Norman Z. McLeod e prodotto da Samuel Goldwyn (il cui figlio produce oggi insieme a Stiller il remake), a sua volta tratto da un racconto di James Thurber. Walter Mitty (Ben Stiller), manager del reparto negativi alla prestigiosa rivista «LIFE» (principale luogo di espressione del genere fotogiornalismo) è un preciso e coscienzioso impiegato che da tempo ha rinunciato all’idea di viaggiare e girare il mondo, dedicandosi anima e corpo alla valorizzazione del lavoro del fotografo Sean O’Connell (Sean Penn). Questi, saputo della chiusura della rivista (che sta per trasformarsi in «qualcosa .com») invia a Walter il suo ultimo rullino - con richiesta di usare per la copertina dell’ultimo numero lo scatto 25 - e un portafogli su cui è inciso il motto della rivista «Vedere il mondo. Cose pericolose da raggiungere. Trovarsi l’un l’altro e sentirsi. Questo è il significato della vita». Mentre un giovane, ignorante e odioso manager (interpretato da Adam Scott) smembra i reparti storici della rivista, licenziando tutto il personale, Walter parte alla ricerca dello scatto 25 (mancante nel rullino inviato da Sean) e del suo avventuroso alter ego Sean, fra Groenlandia, Islanda e Afghanistan.

giovedì 26 dicembre 2013

Marie Antoinette di Sofia Coppola (2006)

Shüttern sul Reno, 1770. Un confine che è già la parete di una prigione accoglie il corpicino, presto svestito di ogni spoglia austriaca, della giovane arciduchessa Antoine. L’appena quattordicenne deve rinunciare al suo nome e a tutto ciò che di austriaco si porta dietro per divenire Marie Antoinette, Delfina di Francia. Per il suo terzo lungometraggio Sofia Coppola costruisce una nuova prigione - qui dallo sfarzo inaudito trattandosi del vituperato simbolo dell’assolutismo: Versailles - dentro la quale i suoi giovani protagonisti sperimentano rinunce, costrizioni e reazioni. Così come i giovani eroi de Il giardino delle vergini suicide e Lost in translation, Marie Antoinette è costretta a trovare la propria chiave di sopravvivenza nell’ostico labirinto delle convenzioni e dell’etichetta (si vedano le scene della vestizione mattutina per mano della corte), nell’incombente tragedia storica.
La Francia pre-rivoluzione di Sofia Coppola è un caleidoscopio visivo ed emozionale dove il re ha il volto timido di Jason Schwartzman, Marianne Faithfull è l’Imperatrice Maria Teresa, Asia Argento veste i panni della sfrontata Contessa Du Barry, la notoria protetta del re, Jamie Dornan è il bellissimo Conte di Fersen, Rose Byrne è la Duchessa di Polignac, arbiter elegantiae libera e anticonvenzionale e la regina Marie Antoinette ha il volto di una delle vergini: Kirsten Dunst. Quella di Sofia Coppola è una Versailles in cui risuonano Siouxsie and the Banshees, Adam and the Ants i Cure di Plainsong, gli Air e The Strokes, si indossano parrucche altissime dall’attitudine punk e Converse All Star giacciono sotto tavolini stracolmi di leccornie e coppe di champagne.

domenica 15 dicembre 2013

Il grande Lebowski dei fratelli Coen (1998)


Il Grande Lebowski non è soltanto il capolavoro più conosciuto, amato e venerato (c’è anche una religione riconosciuta ispirata al protagonista: il Dudeismo) dei fratelli Coen è anche – insieme a Arizona Junior e Barton Fink – la loro pellicola più vicina a una scelta estetica Avant-Pop. La costruzione di una grande narrazione originale a partire da istanze, riferimenti e generi diversi è qui completamente riuscita ed esemplare. Joel e Ethan partono da un importante modello di riferimento: quel Raymond Chandler da cui i Coen mutuano la coesistenza (e interazione) orizzontale delle diverse classi sociali e la rappresentazione “epica” e squisitamente letteraria della città (in questo caso Los Angeles), con precisi connotati in termini di way of life (dalla corrotta Venice Beach alle autostrade in notturna passando per le ville dei magnati già incontrate in Barton Fink). Abbiamo poi la matrice filosofica di natura accademica (non dimentichiamo che Ethan si è laureato a Princeton con una tesi su Wittgenstein) che in particolare ne Il Grande Lebowski vede l’ideologia trotskista incarnata nella fisicità rilassata del Drugo (interpretato da un iconico Jeff Bridges) e il nichilismo tedesco materializzato nei suoi antagonisti, per l’appunto il trio dei Nichilisti: musicisti pop rock con esplicito riferimento ai Kraftwerk (quale band migliore per rappresentare l’estetica nichilistica?). Infine la rappresentazione critica dell’arte contemporanea e le sue futili e spesso incomprensibili istanze incarnate nel personaggio di Maude Lebowski (dichiarato riferimento all'artista dell’avanguardia femminista Carolee Schneemann).

sabato 14 dicembre 2013

Archetipi Avant-Pop: Picnic ad Hanging Rock


Twin Peaks, da molti accolto come una sorta di nuovo anno zero, trova le sue radici già qualche decennio prima della sua baluginante apparizione sui nostri teleschermi. Certo, Twin Peaks è rivoluzionario in quanto prodotto seriale pensato appositamente per la televisione: un seme che ha permesso il germogliare di un nuovo genere (e soprattutto di una nuova qualità) che va da X-Files fino a Lost; ma se andiamo a recuperare uno strambo romanzo del 1970 possiamo già trovare suggestioni e tematiche d’ansia e trascendenza riprese poi nello stesso Lost (che appunto abbiamo detto è germogliato grazie al dissodamento operato da Lynch): Picnic ad Hanging Rock. Dal romanzo, qualche anno dopo, venne tratto l’omonimo e bellissimo film di Peter Weir.

È particolarmente interessante la vicenda editoriale del romanzo: scritto in sole quattro settimane dall'australiana Joan Lindsay l'opera venne pubblicata senza il capitolo finale. La vicenda è presentata ambiguamente come documento storico con dati volutamente incoerenti, narra di un picnic svoltosi sabato 14 febbraio 1900 (ma nel 1900 il 14 febbraio cadde di mercoledì). Un gruppo di studentesse dell’aristocratico e vittoriano collegio Appleyard si reca in gita di piacere sul complesso roccioso di Hanging, dove tra l'afa silente e il sole immobile la tragedia profuma l’aria con toni pungenti. Tre ragazze e un’insegnante spariscono nel nulla e vane saranno le ricerche per ritrovarle, una tragedia misterica che sconvolge e guasta l’animo dei sopravvissuti. Al mistero l’autrice diede una spiegazione nel capitolo XVIII, che però venne scartato dalla Casa Editrice e venne pubblicato solo dopo la morte della Lindsay. La mancanza, per lungo tempo, di una risoluzione esplicita all’enigma ha fomentato la fantasia di molti, creando attorno alla storia un alone di “misterismo” inquietante e seducente. 

mercoledì 4 dicembre 2013

Prima che tu mi tradisca di Antonella Lattanzi (2013)

Il suo Devozione era stata una lettura viscerale, straziante per la capacità di porre il lettore di fronte a se stesso, di fronte al desiderare, quell’attitudine a darsi senza condizioni per qualcosa o per qualcuno. Un narrare già allora compiuto quello di Antonella Lattanzi, che oggi torna in una rappresentazione più ampia, maneggiata con sicurezza e capacità, in Prima che tu mi tradisca (Einaudi Stile Libero BIG).
Il romanzo è una lettura avvincente, dall’architettura complessa, godibilissima, ancora una volta in grado di rappresentare l’umano per quello che è: abile menzognero, teso nel desiderio, immerso nell’inconscio e mutabile.
Al centro della vicenda di Prima che tu mi tradisca c’è la famiglia, luogo, rete, labirinto umbratile e terrificante, codice, particella elementare di colpa e dolore. Gli interni asfittici e orribili (si pensi alla casa delle sorelle Del Sole che ricorda certe visioni di Mauro Bolognini), la sterilità dell’accudire tipica di Mamma Italia, l’odio deflagrante dopo il più ignavo dei silenzi.
Michela e Angela Junior (Angelagèi) Cipriani sono, nelle mani di Antonella Lattanzi, nuovo strumento per porre ancora una volta il lettore di fronte a se stesso, in un’esperienza di lettura unica, fatta di dolore, piacere e accondiscendenza. Michela, si scompone fra le pagine, è una creatura polimorfa, adolescente introversa in cerca della propria occasione, sorella col culo scomodo in famiglia, mefitica e macilenta giovane donna. La seconda, Angela Junior, è la sorella che vive dall’altra parte dello specchio, lontana, eterea, bellissima e cosciente, poi fragilissima e devota, ça va sans dire, nel senso lattanziano del termine. Le due sorelle Cipriani scrivono le proprie memorie dal sottosuolo prima in una Bari che è l’amato proscenio in cui si consuma la tragedia di più di una generazione - il bombardamento del ’43, il rogo del Petruzzelli, la Japigia feroce e fiabesca in cui diventare adulti – poi in una Roma sospesa, liquefatta e precaria.  Come in Devozione la prosa di Lattanzi si muove fra diversi registri, punti di vista e immaginari: la fiaba, la poesia, il gioco linguistico («nascondersi nel papà», «Angelajunior si annoiò della tristezza»), i dialoghi usati come strumento narrativo principe.
Lattanzi è oggi l’ultima delle scrittrici in grado di narrare il femminile. Il tradimento, la colpa, l’abbandono e la rincorsa del sogno d’amore che muovono le scelte di Angela Junior e Michela sono tutti elementi che fanno di Antonella Lattanzi l’unica capace di percorrere la via segnata da Aleramo e de Céspedes.

Muoversi fra i diversi piani temporali di Prima che tu mi tradisca assume presto l’aspetto di una ricerca, un esercizio mnemonico e cangiante in cui menzogna e realtà si diluiscono l’una nell’altra, con squarci di lucidità agghiaccianti e memorabili. Il tutto prima dell’imponente visione finale, (neanche a dirlo nel cuore di Bari) per l’ultimo confronto, shakespeariano e umorale, della famiglia Cipriani.  

domenica 3 novembre 2013

Lost In Translation di Sofia Coppola (2003)

OK, dichiariamolo subito: amo Sofia Coppola. Amo il suo stile, i suoi immaginari, la regia, la cura dei dettagli e le straordinarie colonne sonore.
Oggi provo a mettermi nei miei panni, in quel preciso momento in cui qualcuno mi chiede «cosa ci trovo di bello in Sofia Coppola». Mi sono accorto che spesso tiro fuori per primo Lost in translation. Mi sembra contenga, nell'equilibrio più felice, tutte le caratteristiche, gli stilemi, le peculiarità, di un film «di Sofia Coppola»: le solitudini sospese e sovrastate da un contesto che sta per carpirle per sempre, il confronto con realtà umane lontane da sé, una narrazione che rifugge dalle classiche funzioni narrative del racconto moderno, che non ha nemmeno le caratteristiche frante e sincopate del postmoderno, ma che si basa sul rapporto sovrastante del contesto sull'umano, con l’accompagnamento di colonne sonore stra-tos-fe-ri-che.
La finitezza dei personaggi di Sofia non ha mai nulla di drammatico o tragico. Si pensi agli splendidi protagonisti di Lost in translation: Charlotte (Scarlett Johansson), neo-laureata, segue il marito, importante fotografo, a Tokyo, vivendo nella sua scia, dietro le sue spalle, senza nemmeno vedere i suoi flash e Bob (Bill Murray), attore trascinato da impegni commerciali a Tokyo per girare uno spot televisivo per un whisky dal sapore occidentale. Bob e Charlotte, al momento in cui si incontrano nel bar dell’albergo, stanno per essere sopraffatti dalla vacuità delle proprie vite: Charlotte da una solitudine senza spiragli, la vediamo osservare la metropoli stendersi sotto le enormi finestre della sua camera, muoversi per le vie delle città giapponesi di Tokyo e Kyoto, osservare tutto, guardando a destra e sinistra, col mento in su e con le mani in tasca. Bob segue i suoi impegni giapponesi con lo stesso atteggiamento, gira il suo spot con un regista giapponese, è ospite di uno strampalato programma televisivo (che dialoga con la Notte dei Telegatti di Somewhere), sorride gentilmente e segue serafico la delegazione che organizza la sua vita a Tokyo. Il grande albergo che li ospita e li scherma, sospendendoli in una realtà simile a quella creata da Murakami nel suo Dance Dance Dance, è anche teatro del loro primo incontro. Bob e Charlotte, due realtà sospese fra gli ambienti lussuosi e artificiali dell’albergo, iniziano a condividere a muoversi al di fuori, nella metropoli. La bolla emozionale e fisica che li ingloba e trascina per locali a Tokyo, di nuovo al bar dell’albergo, di corsa fra corridoi affollati da pachinko, è destinata a sdoppiarsi nuovamente, forse a scoppiare. Non prima dell’arrivo di un finale indimenticabile, sulle note di Just like honey dei The Jesus and Mary Chain, con gli occhi arrossati di Scarlett, le sue palpebre nel fremito, la spalla di Bill e la sua espressione finalmente compita.

sabato 26 ottobre 2013

Kill Bill di Quentin Tarantino (2003-2004)


[Avvertenze: questo intervento non contiene il termine «postmoderno»]. 

Il quarto progetto cinematografico di Quentin Tarantino, Kill Bill (diviso nei due volumi 1 e 2), ha avuto per il cinema a-venire (a occhio e croce fino all'uscita di Bastardi senza gloria) un valore didattico di immane portata. Non si parla solo degli stilemi riproducibili (e riprodotti) fino al logorio (nel cinema quanto nella narrativa) ma del valore intrinseco della pellicola, una sorta di energia potenziale-immaginifica in grado di aprire la visione dello spettatore sia orizzontalmente (leggi geograficamente) che verticalmente (stili, registri, immaginari intercambiabili).

Molti di voi staranno cercando nel paragrafo precedente le parole: «citazione» e «intertestualità» per cui meglio dedicare a ognuna di loro altrettanto spazio.

La citazione: una delle attività principali con cui i fan e i cineasti amano dilettarsi è la ricerca delle decine e decine di citazioni/omaggi ri-elabotate da Tarantino nel raccono, meglio, nei racconti di cui è costruita l’epica della Sposa. Si tratta di citazioni formali, contenutistiche e musicali che spaziano dallo spaghetti-western più zozzo alle taglienti pellicole giapponesi come Lady Snowblood (lo scheletro, l’impalcatura, di Kill Bill è stata plasmata sui questa meravigliosa pellicola di Fujita Toshiya) passando per il kung-fu anni Sessanta/Settanta, la serialità e il cinema d’autore (Kubrick, Coppola). 
Quentin Tarantino, cinefilo-flanuer dall'appetito infinito si nutre (e ci nutre) di frammenti e passages di celluloide con cui plasmare nuovi e inediti racconti.

L’intertestualità: Dal soggetto di Q&U (Quentin e Uma) le vicende della Sposa sono suddivise in capitoli che non rispettano la cronologia degli eventi ma che si richiamano, legano e completano fra loro nell'intreccio scientemente intertestuale. Personaggi, intenzioni, background, oggetti e paesaggi si decompongono e ricostruiscono continuamente donando allo spettatore un’esperienza lisergica e avant-pop nella sua accezione più orizzontale e geografica: dal Messico al Giappone di O-Ren, dallo sconfinato orizzonte della California visto dai vetri lerci della roulotte di Budd al Brasile pop del finale. Come detto abbiamo richiami di tipo formale, ad esempio l’anime giapponese o il black’n white, sottili ed eleganti riferimenti al cinema altrui come il Twisted Nerve di Bernard Herrmann quanto al proprio: le sigarette Red Apple, la squadra DVAS come le Volpi forza 5 di Pulp Fiction o il motivetto che si sente ne Le Iene quando Mr. Blonde accende la radio prima di torturare il poliziotto riproposto all'inizio di Kill Bill vol. 2.

giovedì 3 ottobre 2013

Genoismo e rivincita del fenotipo: Gattaca di Andrew Niccol (1997)

Un futuro il cui aspetto si gioca sui toni dell’oro, del rame e del verde, dove lo stile, le auto, le ambientazioni richiamano l’immaginario del noir più classico. Un futuro dove il genoma è l’occhio del Grande Fratello attraverso cui plasmare la società.
È il codice genetico che in Gattaca (il cui titolo è formato dalle lettere che identificano le basi azotate di cui è formato il genoma: adenina, timina, citosina e guanina) è sintetizzato prima del concepimento del nascituro donandogli caratteristiche e peculiarità, esonerandolo da patologie e tare fisiche. La società totalitaria di Gattaca è rigida e continuamente sotto controllo diagnostico, i colloqui di lavoro si risolvono in analisi del sangue e delle urine e i «non validi» – individui concepiti naturalmente, senza l’ausilio dell’ingegneria genetica – hanno un destino segnato: svolgere i lavori più umili. Si tratta di «genoismo», una forma di razzismo in base alla costituzione della doppia elica di DNA, quello che in Gattaca è chiamato «quoziente genico».
Gattaca, l’ente astronomico impegnato nell’organizzare missioni spaziali è anche il luogo in cui si consuma il tentativo del non valido Vincent (Ethan Hawke) di diventare astronauta mentre fra le scrivanie perfette e tutte uguali del complesso astronomico si consuma un feroce delitto. Al suo fianco un atleta paraplegico, Jerome Eugene Morrow, che ha il volto umbratile e lo sguardo tagliente di Jude Law, Irene Cassini (dal nome dell’astronomo italiano Giovanni Domenico), un’inarrivabile Uma Thurman e Gore Vidal nei panni del mellifluo direttore Josef.

domenica 29 settembre 2013

L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956)

«Stiamo perdendo tutti la nostra umanità, poco a poco: che succeda di colpo da un giorno all’altro, fa poca differenza». 

Anticipatorio, cellula totipotente della cultura popolare, modello, immaginario, riflessione umana (lontana da qualsiasi lettura politica, checché ne dicano le prime pagine scritte alla sua uscita), tutto questo è L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956). Chi non ricorda l’arrivo silente dei replicanti alieni nella città di Santa Mira? Simulacri in carne, ossa e tegumento. Come accorgersi dell’invasione se le copie non-umane sono perfettamente identiche allo stampo cui si sostituiscono? Grazie a un marker prezioso: l’assenza di alcun moto dell’animo. Un’intera gamma emozionale totalmente aliena ai replicanti. Ecco che, allora, è l’umanità dell’osservatore a fare la differenza. Inizialmente ad accorgersi delle sostituzioni saranno gli individui che possiedono la più spiccata delle sensibilità (come i bambini) poi però? È possibile fermare un’invasione così silenziosa e sistematica?
La forza de L’invasione degli ultracorpi sta nel suo essere oggetto “altro” rispetto al mainstream cinematografico, quello che l’ha reso immortale è la forza dell’idea e la sua messa in scena claustrofobica. In una contemporaneità in cui tutto è rapido e affidabile con quale sguardo possiamo discernerne e indagare il reale? Non a caso L’invasione degli ultracorpi è tra i più amati dal personaggio di X-Files, Fox Mulder. Non c’è bisogno di dire quanto sia la serie sia il personaggio paghino debito al film di Don Siegel. Non sono gli unici. La pellicola, girata con un budget ridotto e scritto con la revisione di Sam Peckinpah, nonostante il finale posticcio voluto dalla produzione è diventato una pietra miliare nel tornado caleidoscopico della cultura popolare, influenzandola sotto diversi punti di vista: la tensione creata senza uso di effetti speciali, l’idea dell’invasione di una cittadina isolata, la replicazione aliena.

sabato 28 settembre 2013

Metti una sera a casa di Mamma Italia: Gran Bollito di Mauro Bolognini (1977)

Metti una bella cucina. Bella-bella eh, spaziosa, con tutto a portata di mano! Al centro della cucina un bel tavolo di legno, di quelli solidi e una lampada con carrucola che si può regolare per lavorare con la migliore delle illuminazioni. È questo l’opistodomo allestito da Mauro Bolognini per la sua Leonarda Cianciulli. Un luogo mistico, in cui superstizione, rituale e archetipi simbolici si lavano insieme nel sangue per offrirsi sottoforma di manicaretti e doni. Gran bollito di Mauro Bolognini (1977) è tra le pellicole che meglio incarnano quel connubio tra realtà sociale, surrealtà e attitudine gotica che è punto di forza di tanto cinema italiano.
Mauro Bolognini mette al centro della sua tragedia (la nota vicenda della saponificatrice di Correggio, Leonarda Cianciulli) una Shelley Winters, stupenda e agghiacciante «madre Italia», allegoria mortuale di quell'attaccamento ai propri figli tutto italiano, una follia cieca che pur di impedire il distacco muove verso i territori della follia più bieca e assassina. La Leonarda di Shelley Winters è di più, è una megera, una maga dagli oscuri appetiti e rituali, una strega che dal sud primigenio porta le sue doti divinatorie e la sua magia nera nel cuore del «continente», nella provincia emiliana, conquistando le simpatie di un gruppo di «amiche», tutte accomunate da una fragilità femminile che solo un trio di attori come Renato Pozzetto, Max von Sydow e Alberto Lionello poteva incarnare con tanta finezza e precisione. Il film, speculare rispetto a sé stesso, vede i tre attori interpretare, oltre alla parte femminile, anche una parte maschile in un gioco identitario che è anche di Leonarda. Quest’ultima è spinta, obbligata, dall'irrefrenabile follia superstiziosa che desidera dividere suo figliolo Michele (Antonio Marsina) dalla bella Sandra (Laura Antonelli) per tenerlo sempre con sé.

giovedì 19 settembre 2013

Milano Film Festival 2013: cosa è stato

di Laura Vayola

Si è appena conclusa la diciottesima edizione del Milano Film Festival.
Un’edizione molto speciale perché ha segnato la raggiunta “maturità” della manifestazione ma anche una tappa fondamentale nell'evoluzione della stessa.
Milano Film Festival è sempre stato fucina e osservatorio per talenti più o meno conosciuti, tappa fondamentale per appassionati e neofiti del cinema ma soprattutto corsia preferenziale per i giovani cineasti di tutto il mondo. Anche quest’anno il concorso ha visto protagonisti undici lungometraggi e ben cinquanta cortometraggi provenienti da ogni angolo del globo.
Tra i più significativi sono sicuramente da segnalare Les Rencontres D’Après Midi (vincitore nella sezione lungometraggi), esordio alla regia di Yann Gonzales (ex M83) tra fiaba kitsch, immaginario surrealista e allusioni porno-soft e Ilo Ilo (Anthony Chen/Singapore/2013, Camera d’Or a Cannes) melò familiare delicato e toccante, sullo sfondo di una Singapore in piena crisi economica.
La selezione cortometraggi ha lasciato molto spazio a forme autoriali ibride, al mash-up tra animazione e narrazione cinematografica classica dagli esiti inaspettati, come nel brillante Fatigués d’etre beaux (Anne-Laure Daffis, Léo Marchand/France/2012), western tra tinte oniriche e sfide dell’assurdo. Da segnale anche Pequeno bloque de cemento con pelo alborotado conteniendo el mar (Jorge Lopez Navarrete/Spain/2013), vincitore del premio come miglior film, una poetica storia di libertà che rifugge la prigione delle “categorie”.
Ma la programmazione del festival, come sempre ben diversificata, non ha trascurato l’animazione, la forma documentaristica, gli incontri tra arte e cinema, i focus d’autore e la musica, con un’ampia rassegna di undici artisti italiani e non.
La maratona d’animazione, uno degli appuntamenti fondamentali del Milano Film Festival, ha registrato come sempre una grandissima partecipazione da parte del pubblico, accorso numeroso alla proiezione di più di quaranta cortometraggi variegatissimi nelle soluzioni tecniche e nei linguaggi espressivi, dalla stop motion alla clay motion, dalla 2D alla silhouette.
Piccoli gioiellini come The animation of a men (Amanda Nedermeijer/Netherlands/2012), Fear of flying (Conor Finnegan/Ireland/2012) o Carn (Jeff Le Bars/France/2012) si sono susseguiti durante la lunga maratona, fornendoci una vastissima gamma di soluzioni estetiche, di soggetti narrativi, di studio volto alla sperimentazione.
Con la sezione «Colpe di Stato» ci siamo addentrati nel terreno delle “verità nascoste”, attraverso nove documentari tra cui segnalerei il crudissimo Camp 14 – Total Control Zone (Marc Wiese/Germany/2012), un vero atto d’accusa contro i campi di prigionia in Corea del Nord e The act of killing (Joshua Oppenheimer/Denmark, Norway, UK/2012) incentrato sullo sterminio di oltre mezzo milione di indonesiani da parte dei famosi “squadroni della morte”.
Non è mancato lo spazio per lungometraggi Outsiders, storie di personaggi accomunati dal un comune senso di estraneità, per l’appartenenza ad una comunità di emarginati, dalla lontananza, dall'esclusione. Pellicole come Rent a family Inc. (Kaspar Astrup Schoder/Denmark/2012), Lunarcy (Simon Ennis/Canada/2012) o 12 o’ Clock Boys (Lofty Nathan/USA/2013) disegnano, attraverso le immagini, la perenne insoddisfazione appartenente al genere umano, la voglia, impossibile da soddisfare, di far parte di un “qualcosa”.
Il consueto focus autoriale quest’anno ha omaggiato il lavoro del cineasta francese Sylvain George, attraverso la proiezione di tutti i suoi cortometraggi e di Les eclats e Vers Madrid, due tra i suoi lungometraggi che si propongono di scardinare le consuete modalità di comunicazione per lasciare spazio all'espressività e all'eloquenza dell’immagine.
La sperimentazione come chiave di volta dell’intera manifestazione, come nella sezione «Vernixage» che interroga le vaste connessioni che intercorrono tra arte e cinema attraverso il lavoro di tre differenti autori e dei loro lavori. Frozen flames (Luca Trevisani/Italy/2013), Negus – Echoes Chamber (Invernomuto/Italy/2013) e Now showing: Austerity Measures (Joao Laia e Andrey Shental/UK/2012) sono testimonianza di un cinema volto alla sperimentazione di profili sempre nuovi e nel contempo di una continua ricerca di connessione verso forme artistiche delle origini.

domenica 15 settembre 2013

District 9 di Neill Blomkamp (2009)


Amo quando prendono forma pellicole come District 9, primo lungometraggio di Neill Blomkamp (oggi nei cinema con Elysium) che trasla in un contesto sci-fi il tema dell’apartheid, del razzismo e della xenofobia.
Il lavoro di Blomkamp nel creare la sua storia mutante cominciò qualche anno prima, con la produzione di un cortometraggio di soli sei minuti Alive in Joburg, dal quale grazie all'incontro con Peter Jackson si svilupperà District 9: è il 1982 e un’enorme astronave si è posizionata sulla città di Johannesburg senza dare alcun segno di vita. La motivazione è presto scoperta: gli alieni ribattezzati in maniera spregiativa dai terresti "gamberoni" hanno perso il modulo di comando dell’astronave e non riescono a ripartire. Allo sbando, sporchi, spossati e denutriti gli alieni vengono condotti in salvo sulla terraferma. Negli anni la convivenza fra questi e gli umani si fa sempre più difficile fino a quando i "gamberoni" vengono segregati nel District 9 del titolo (che richiama il reale District Six di Città del Capo) in regime di apartheid.
Dopo varie contestazioni da parte degli abitanti di Johannesburg per via delle continue rivolte degli esseri alieni che non accettano di essere rinchiusi nello spazio a loro riservato, il governo sudafricano decide di spostarli in una zona franca a 240 km dalla metropoli: un vero e proprio campo di concentramento. Da questo momento partono le vicende di Wikus Van De Merwe funzionario della multinazionale NMU addetta al trasporto degli alieni nella nuova zona franca. Il nostro è un omuncolo mellifluo e povero di spirito, davvero poco umano nel confrontarsi con la comunità aliena da lui trattata in maniera spregiativa e derisoria. Come ne La mosca di David Cronenberg sarà un incidente a squarciare la vicenda, ribaltandone i connotati. Un processo che trasformerà gradualmente Wikus in uno degli alieni.

sabato 14 settembre 2013

Jodie Foster looking pissed o Elysium di Neill Blomkamp (2013)

Benvenuti a Elysium. Si dovrebbe stare bene a Elysium, insomma sei lontano dalla mefitica e sovraffollata atmosfera della terra, parli francese con i tuoi bambini che, belli, biondi e accecanti, ingurgitano macarones e rimangono comunque belli, biondi e accecanti. Hai pure costruito Wisteria Lane su una sorta di stazione circolare orbitante, sbattendo in faccia il tuo status suburbano, elitario e sovrastante, a tutti i poveri mentecatti che alzano lo sguardo al cielo in cerca di conforto. Gente che si fa operare da metalmeccanici sotto anfetamine o nel migliore dei casi che esibisce treccine alla Snoop Lion. Cosa manca a Elysium? Ma niente! Hai pure una sorta di doccia pressurizzata che ti guarisce da qualunque malattia (pensa se una cosa così l’avesse avuta Elizabeth Shaw!), insomma che ti manca a Elysium? Chiediamolo a Jodie Foster. Anzi chiedeteglielo voi perché io avrei paura solo a intralciarle la strada mentre porta regali ad altri bambini belli biondi e accecanti. Se «Betty Draper looking pissed» è stato un trend topic per anni non so cosa aspettarmi dopo l’uscita in sala di Elysium di Neill Blomkamp (neanche a crederci quello di District 9) Insomma Jodie ma che ti hanno fatto? Te ne stai lì seduta con le mani strette, incazzatissima, con la paresi facciale, la bocca all'ingiù, le sopracciglia aggrottate e quel taglio di capelli pronto a vincere le primarie dei repubblicani. Jodie, dico davvero, c’è un motivo per cui sei così assatanata? OK, poi arriverà Matt Damon in versione pornoattore, morente e pimpato con un esoscheletro e un hard disk nel cranio (sic!) a disturbare la tua suburbia perfetta ma prima perché ce l’hai così su con tutti? Ce lo vuoi dire?

giovedì 22 agosto 2013

Darkman di Sam Raimi (1990)

Il genio di Sam Raimi è celebrato per molte cose. Principalmente per la trilogia “altra” de La Casa (Evil Dead), ancora oggi al centro di incredibili dibattiti nella nutrita schiera di appassionati, poi per la trilogia di Spider-man, amata da grandi e piccini, ma c’è una delle sue pellicole che merita altrettanto entusiasmo e questa pellicola è Darkman, un autentico capolavoro con radici che si innestano equamente nella cultura pop e nella letteratura.
Darkman, scritto e girato fra il secondo e il terzo film de La Casa, possiede l’attitudine a realizzare una nuova attrazione di quel grande Luna Park cinematografico che è la filmografia di Sam Raimi, ma c’è dell’altro, il film dimostra anche un equilibrio impeccabile nelle suggestioni, nei temi, nella realizzazione formale e nella scelta degli attori. In Darkman c’è il gotico di Mary Shelley come prototipo della science fiction, c’è l’attitudine comics e roboante che ci entusiasma sempre, la flânerie di Benjamin (interpretata sul finale da Bruce Campbelll!), «I semi del male» e la tragedia shakespeariana. Tutto ciò fluisce, perfettamente dosato come in uno degli alambicchi del protagonista Peyton Westlake (Liam Neeson), per essere distillato dal genio di Raimi in una visione che consegna all'immaginario pop uno dei personaggi più interessanti della cinematografia contemporanea.
Darkman è il più felice esempio di una delle principali caratteristiche del talento di Raimi: quella di creare, personaggi, situazioni, gag, persino stacchi (si pensi a quello che vede Julie cambiare d’abito e di scena traslandosi al cimitero dopo la “morte” di Peyton) in grado di imprimersi nell’ormai satura memoria dello spettatore e di rimanerci. Il processo, questa volta, è aiutato dalla presenza di due attori di smisurato talento quali Liam Neeson e Frances McDormand (un ulteriore legame con i fratelli Coen, dopo il loro intervento durante il montaggio de La Casa e l’influenza reciproca nel recupero della slapstick comedy). Mentre Neeson da “volti” (il plurale è d’uopo) a Peyton, nella sua evoluzione e nello sbocciare dei bad seeds (che qui hanno origine biologica, specificatamente spinotalamica), McDormand è la frizzante Julie, avvocato alla scoperta di un legame criminale fra il magnate Louis Strack Jr. e la malavita.

Recuperiamo quindi Peyton, all'interno del suo laboratorio, nella sintesi di un’epidermide artificiale, passando per la trasformazione cruenta in Darkman, godiamoci ognuno degli step della vendetta nei confronti dei malavitosi al soldo del mellifluo Durant, fino allo scontro finale ambientato su un grattacielo in costruzione (niente di meglio per simulare situazioni da Luna Park tanto care a Raimi) e al finale aperto che anticipa quelle che saranno le future esperienze di Sam Raimi nel cine-comic

mercoledì 21 agosto 2013

La caduta della casa degli Harmon: nota a margine sulla prima stagione di American Horror Story


Esiste una nuova schiera di narratori americani, spregiudicati e talentuosi, che si è presa carico di realizzare quell'aspirazione comunitaria nota ai più come la stesura del «grande romanzo americano». Questo gruppo di autori ha scelto come mezzo non più la carta stampata bensì il piccolo schermo, ha attraversato l'âge d'or della serialità televisiva, moltiplicando le possibilità di concretizzare l’idea di una narrazione di grande respiro, di un immaginario il più univoco possibile che non disdegni di guardare alle proprie origini, alla serialità narrativa, al racconto che è alla base della migliore narrativa americana, da Mark Twain e Sherwood Anderson in poi. Tre di loro meritano particolare menzione: Alan Ball (padre di Six feet under e True Blood), I. Marlene King (Pretty Little Liars) e Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee). Tralasciando, solo per ora, i primi due occupiamoci del diafano creatore di Nip/Tuck, in particolare della «creatura» data alla luce dopo che Sean McNamara ha lasciato Christian Troy all'aeroporto di Los Angeles. È proprio qui, nella città degli angeli, che arrivano da Boston gli Harmons, nuovi e ignari proprietari di quella che impareranno a conoscere come la Murder House, paradigma fisico e proscenio multiplo della prima stagione di American Horror Story.

domenica 4 agosto 2013

L'armata delle tenebre di Sam Raimi (1992)

Dopo aver realizzato uno dei film più iconici del genere horror, aver attirato l’attenzione dei produttori e virato su una visione spassosissima e splatterstick i Michigan Boys, guidati dal genio di Sam Raimi, riescono finalmente nel loro intento: scaraventare il loro protagonista, Ash Williams, nel medioevo. Un’idea che al gruppo era già balenata ai tempi de La Casa 2 ma che ora può finalmente trovare realizzazione materiale, portando a compimento la mitopoiesi del loro protagonista beone. Se ne La Casa la performance in solitaria di Bruce Campbell era stata costretta da un budget risicato e da problemi di produzione (ottenendo comunque un esito disturbante, ormai immortale) e ne La Casa 2 la virata cartoonista aveva acceso gli animi dei fan, si deve al terzo film, L’armata delle tenebre, l’assunzione di Ash Williams nell'empireo pop.
Com'è stato possibile? Grazie alla scrittura di Sam e del fratello Ivan che donarono un ritmo pazzesco alle battute di Ash, in tandem a un magnifica regia da fumetto. Neanche a dirlo, grazie a entrambe le cose il film è diventato un cult in tutto il mondo. Frasi come «your pain, my gain», «Boomstick: $199.99, Shells: 39.99, zombies heads blowing off: priceless» o «first you wanna kill me, now you wanna kiss me» sono ancora oggi oggetto continuo di memetica per i fan, che sembrano non averne mai abbastanza. L'armata delle tenebre vanta un fandom entusiasta, in grado di ricostruire persino la vita dell’adorabile beone, dagli studi in ingegneria al lavoro ai grandi magazzini S-Mart (vedi prologo e finale de L’armata delle tenebre).

sabato 3 agosto 2013

Within the Woods di Sam Raimi (1978)

Recuperiamo da dove abbiamo lasciato i nostri «Michigan boys». Anzi no, torniamo un po’ indietro, alla genesi della trilogia “altra” de La casa, quando i giovanissimi Sam Raimi, Bruce Campbell, Robert G. “Rip” Tapert e Scott Spiegel sono nell'occhio del ciclone della loro passione: i filmati in super 8 e hanno quest’idea folle di realizzare il film più disturbante della storia del cinema d’orrore. Un film che nei loro progetti aveva ancora Book of the dead come titolo e tantissimo bisogno di finanziatori. Roosevelt una volta disse «fai quello che puoi con quello che hai, nel posto in cui sei» e questo fecero Raimi e i suoi compagni, buttarono giù e girarono in Super 8 un sunto cinematografico della loro idea di orrore, un condensato di tutti quelli che sarebbero stati gli stilemi e le caratteristiche formali del loro film, usando persino alcuni degli attori che poi avrebbero recitato nel loro primo lungometraggio. Nacque così Within the woods, un corto di trentadue minuti, girato nella fattoria dei Tapert (ricordiamo, «nel posto in cui sei») con protagonisti Bruce Campbell e la mia preferita tra le «ladies of Evil Dead»: Ellen Sandweiss.
Nonostante la bassa qualità delle copie in giro di Withinthe woods (a quando un cofanetto della trilogia con la riedizione del cortometraggio?) il recupero riserva grandi sorprese e accende gli animi di entusiasmo. Chi pensa che la genialità di Sam Raimi risieda solo nelle scelte formali, nella camera che corre rasoterra, nella propria interpretazione della slapstick, si sbaglia. Nella sua visione c’è quell'attitudine a «fingere le cose paurose» che nasce dalla cultura americana più classica e simbolica, quel fiume carsico che attraversa i boschi su cui posarono lo sguardo i padri pellegrini, la rassicurante suburbia in cui i bambini giocano col non-visibile, i luoghi dei nativi sporchi di sangue e senso di colpa. In buona sintesi quel Gotico Americano che Raimi richiama già in Within the woods, con il portico e una dondola identica a quella che troviamo a casa dei Finch nel film Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan, qui impazzita e disturbante nel suo sbattere continuo contro la parete di legno.

mercoledì 19 giugno 2013

La casa 2 di Sam Raimi (1987)

Ho sempre trovato leggendaria la nascita e lo sviluppo della trilogia “altra” de La casa, realizzata da Sam Raimi con l’ausilio della sua ruggente crew: Robert Tapert, Scott Spiegel e Bruce Campbell. Pensiamoci, da film a basso costo, da opera di un regista che più che integrato nel genere horror ha bisogno di cimentare il proprio, straordinario, talento all'operazione sperimentale di remake/reboot nella grande produzione de La casa 2, alla creazione del mito di Ash con L’armata delle tenebre.
Oggi ci collochiamo a metà, dopo il successo planetario de La casa, dopo l’interessamento di De Laurentiis al lavoro di Raimi (veicolato, narra la leggenda, da Stephen King), quando il giovane regista ha già l’idea di precipitare il suo protagonista beone nel Medioevo. Il risultato è invece un La Casa 2 (Evil Dead 2) che più che puntare sull'orrore e il disturbo realizza quello che è stato sempre il desiderio di Raimi: mettere su una roboante giostra, una «casa» degli orrori, in cui i trucchi di cui godere sono l’estremizzazione della recitazione di Bruce Campbell, persino della sua fisicità (gli zigomi sembrano voler uscire dal suo volto, gli occhi, la bocca continuamente e parossisticamente sgranati), gli effetti speciali e la regia sempre più concitata. Tutto contribuisce a una messa in scena che è esperimento sulla slapstick (qui splatterstick, nonostante l’utilizzo del sangue verde). Bruce Campbell è il mattatore assoluto, centralissimo nella riuscita della sperimentazione, assai godibile e viscerale, de La casa 2. Un’attitudine, quella nei confronti dello slapstick che ha radici nell'amicizia stretta da Raimi con Joel ed Ethan Coen ai tempi del montaggio newyorkese de La casa. Non a caso i Coen andranno in sala, nel 1987 (stesso anno dell’uscita de La casa) con Arizona Junior, film che fa del recupero dei toni slapstick uno dei suoi punti di forza.

lunedì 17 giugno 2013

Fine Impero di Giuseppe Genna (2013)

Narrare in un contesto diafano, proiettato, umbratile e fagocitante come il nostro ha bisogno di una prospettiva, di un punto di vista d’elezione, che sia in grado di coglierne le caratteristiche fugaci, spesso invisibili e soffuse. La scelta di quest’angolatura, di quest’apertura focale sul discorso narrativo è, oggi più che mai, impresa ardua, al limite della possibilità. Per questo motivo coloro che riescono nell'impresa pongono nelle mani del lettore un oggetto deflagrante, in grado di assorbirlo completamente. Sono pochi gli autori che riescono in quest’obiettivo, ancor meno quelli italiani. Se Don DeLillo, nel 2003, era riuscito scegliendo il fluire della limousine di Eric Packer come paradigma postumano e postcapitalistico attraverso cui narrare l’oggi (che è già passato e futuro nella pagina retroattiva di Cosmopolis), Giuseppe Genna, nel suo nuovo romanzo Fine Impero (appena uscito per Minimum Fax) sceglie come punto di vista - meglio sarebbe dire come origine di replicazione del reale - il dolore più assoluto avvertibile dalla consapevolezza umana. Nel caso di Fine Impero si tratta del dolore della voce narrante: intellettuale, scrittore prestato al periodismo di moda, annichilito e svuotato, dissimulante un vuoto senza remissione. Un punto di vista che attraversa, circolarmente come in plasmide batterico, l'«immaginario compresso» e sfiatato di Fine Impero, in cui strane manifestazioni del reale italiano d’oggi e del passato, orribili traumi e indicibili dolori personali (e per questo ecumenici e generazionali) si susseguono secondo un percorso che è via crucis in notturna. Diafane apparizioni, coagulazioni vivide e inondate di luce ultraterrena, sono attraversate dallo scrittore al fianco del potente e mellifluo zio Bubba, proiezione esso stesso (al limite del ventriloquismo) di un potere onnipresente che opprime e sfinisce e divora, insaziabile, la carne. Il consumo incessante avviene sotto l’occhio liquido degli schermi televisivi, essi stessi proiezione mordoriana d’immane potenza.

mercoledì 12 giugno 2013

La casa di Sam Raimi (1981)

È incredibile come ancora oggi – soprattutto oggi, direte voi, dopo l’uscita del reboot che ha richiamato l’attenzione e l’entusiasmo di una nuova generazione di spettatori – rivedere il primo lungometraggio di Samuel Marshall “Sam” Raimi porti a una susseguirsi di scariche di puro piacere cinefilo, ammirazione per il genio creativo del regista e a una riflessione pressoché infinita sugli ingredienti che hanno fatto la fortuna di Evil Dead, uscito da noi con il titolo La casa.
Il giovanissimo Sam Raimi, con l’imprescindibile sostegno della sua crew: Robert Tapert Scott Spiegel e Bruce Campbell, lavora sulla costruzione di un immaginario che fa dell’unità di luogo la sua prima caratteristica: siamo in mezzo a un bosco, il ponte che ci collega alla civiltà è irrimediabilmente danneggiato e l’unico rifugio (si fa per dire) è una casetta di legno, apparentemente semplice e spartana ma le cui caratteristiche sono pronte a fissarsi nell'immaginario pop mondiale, dalla botola che conduce a una buia cantina, alla pendola appesa al muro, dalla rimessa per gli attrezzi alla dondola che sbatte sulla parete esterna (mutuata da Within the woods). Il grande talento di Sam Raimi è di costruire il suo immaginario secondo canoni assai immaginifici, nonostante l’inesperienza e la finitezza della produzione. Le riprese animate dei boschi che circondano la casa, il punto di vista ectoplasmatico dei demoni candariani che osservano e attaccano a turno i cinque giovani protagonisti dalle finestre, lo straniamento sull'orlo della pazzia e dell’orrore di Ash Williams (Bruce Campbell nel ruolo che lo consacrerà nel firmamento geek come una dei personaggi più amati), tutto è realizzato da Raimi attraverso soluzioni creative e personali, come la telecamera che sfreccia fra i boschi e gli ambienti, il volo disarticolato dei personaggi posseduti, il confronto surrealista di Ash allo specchio e le riprese finali con la casa che letteralmente sanguina dalle prese elettriche, fra le assi delle pareti e sulle lampadine, donando alla rappresentazione un appeal arty, surreale e decisamente folle. Tutte caratteristiche che denotano una creatività in grado di superare i confini dell’horror un attimo dopo averli mutati.

sabato 18 maggio 2013

Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann (2013)


Ci risiamo, è straordinario come non perdiamo un’occasione per dimostrare di non possedere memoria a breve termine. Quando si è saputo che all'ultimo festival di Cannes, dove il film è stato proiettato tre giorni fa, Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann ha ottenuto una tiepidissima accoglienza, dicheno al limite dell’imbarazzo, ci si è subito precipitati a ingrossare le fila dei detrattori, a storcere il nasino alla francese (che non tutti, però, possiamo esibire) di fronte alla nuova trasposizione del romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Nessuno sembra ricordarsi che, nel 1996, all’uscita di Romeo + Giulietta di William Shakespeare, la reazione era stata simile se non peggiore, salvo negli anni successivi sperticarsi in un crescendo di lodi che portarono il film ad assumere il ruolo principe fra le trasposizioni cinematografiche della tragedia shakespeariana. Si arrivò persino alla dichiarazione da parte degli esegeti più intransigenti che Il film fosse in grado di superare la visione statica e legata di Franco Zeffirelli. Qualcosa mi dice che stessa sorte toccherà anche al Gatsby di Luhrmann, una lunga, magnifica, visione in cui il regista australiano riesce a liberare e materializzare l’incredibile carica visiva insita nella pagina di Fitzgerald. Il film è punteggiato da citazioni dirette dal romanzo, inserzioni tipografiche che deflagrano nella visione cinematografica come i fuochi d’artificio durante una delle feste di Jay Gatsby.

venerdì 17 maggio 2013

Dark Star di John Carpenter (1974)


Proviamo a collocarci temporalmente. Attenzione, siamo molto prima della definitiva rottura, poco tempo prima dell’inizio delle due incredibili carriere che i nostri protagonisti intraprenderanno nel cinema, lavorando su piani e in modi diversi. Siamo dopo che i nostri due eroi, ancora giovani studenti dell’University of South California, si conoscessero decidendo di mettere insieme ingegno e quella carica creativa che avranno entrambi il modo di liberare nei successivi lavori per il grande schermo. Di chi e cosa stiamo parlando? Di John Carpenter e Dan O’Bannon e del loro primo lungometraggio Dark Star, che sarà ricordato come la spassosa e brillante risposta alla pretenziosità creativa di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Dark Star è innanzitutto un tavolo di lavoro su cui Carpenter e O’Bannon affrontano per la prima volta i propri interessi: la fantascienza, il confronto alieno/umano, l’insondabile, l’inferenza tecnologica. Il risultato è un’irriverente incursione “altra” nella fantascienza, in cui gli astronauti sono degli sciamannati unici (su tutti il sergente Pinback, interpretato dallo stesso Dan O’Bannon!) o nel migliore caso degli svampiti colti nella contemplazione estatica del grande universo. Il recupero delle questioni capitali di 2001 e de Il dottor Stranamore sono qui affrontate con un fortunato senso del parodistico e del surreale: «la bomba» (ovvero: come imparai a non preoccuparmi e a convincerla a non esplodere), l’approccio distruttivo e colonizzatore, la questione esistenziale e l’intelligenza artificiale.

mercoledì 8 maggio 2013

Il divo: La spettacolare vita di Giulio Andreotti di Paolo Sorrentino (2008)


Il divo, pellicola del 2008 di Paolo Sorrentino dimostra il suo straordinario impatto visivo ed emotivo (in grado di investire non il solo spettatore italiano) già dalla sua sequenza di apertura, la magistrale carrellata di omicidi sulle note di Toop Toop dei Cassius: il generale Dalla Chiesa, Mino Pecorelli, i banchieri Calvi e Sindona, Giorgio Ambrosoli e la deflagrante immagine dell’attentato a Giovanni Falcone. Una sequela annichilente di morti su cui si costruisce l’immaginario oscuro che sarà del «divo» Giulio.
Sorrentino focalizza la sua rappresentazione sul periodo che va dal 1991 al 1993, dalla nascita del VII Governo Andreotti all'apertura del maxiprocesso di Palermo, ma la sua è una raffinata operazione di esplorazione e manipolazione, un’operazione estremamente creativa, che consegna allo spettatore una visione straniante, fatta di sequenze iconiche. Sequenze che spaziano nel territorio del grottesco, in grado di rappresentare nel miglior modo possibile gli eventi. Si pensi all'arrivo della «corrente» andreottiana al cospetto del  «divo»  La segretaria, la signora Enea (interpretata da una commovente Piera Degli Esposti), chiude le finestre perché «sta arrivando una brutta corrente» e come in uno dei più sporchi spaghetti western ecco la materializzazione della metafora: Paolo Cirino Pomicino, Giuseppe Ciarrapico, Salvo Lima, Franco Evangelisti, Vittorio Sbardella e il cardinale Fiorenzo Angelini, osservati dalla camera di Sorrentino attraverso la lente del grottesco, l’unica in grado di fissare le orride peculiarità di ognuno in maniera indelebile. La sequenza è un esempio delle metafore e delle allegorie presenti ne Il divo. Immagini che hanno un immediato potere coagulativo sullo spettatore e che spesso sono vere e proprie «manifestazioni» di natura surrealista, notturne, umbratili e disturbanti, perfettamente coadiuvate dai brani musicali di commento (il rock, l’elettronica, la leggera italiana). Si pensi, ancora, alla sequenza della batucada in cui il palazzo del potere batte al ritmo di una samba straniante, più che un suono celebrativo, questa ha tutte le caratteristiche dell’apertura di una danse macabre che da lì a poco inghiottirà irrimediabilmente tutti.

giovedì 2 maggio 2013

Tutto a posto e niente in ordine di Lina Wertmüller (2012)



«Ma che signora, io sono una regista!». (Lina Wertmüller)


È successo di nuovo. Per la seconda volta – dopo l’esperienza con Shock - mi capita fra le mani un’autobiografia scritta da uno dei miei cineasti preferiti che si rivela essere anche un eccellente scrittore. Iniziamo subito col dire che questa volta si tratta di una donna – e che donna! – la straordinaria Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, nota al pubblico con il nome di Lina Wertmüller. La conquista, come sempre avviene con le sue produzioni, arriva già dal titolo: Tutto a posto e niente in ordine. Vita di una regista di buonumore (Mondadori). Titolo che introduce il lettore nell'universo vitale e intraprendente di una dei più grandi registi italiani. Grazie alle pagine di questo volume ci si renderà presto conto che c'è stata un'Italia colta e vitale, spregiudicata e di grande talento, capace di comunicare - senza pregiudizio alcuno o sovrastrutture - sia con la provincia più chiusa che con la scena europea e internazionale. Un manipolo di scrittori, artisti, registi e attori che hanno creato e vissuto di bellezza, in un'epoca in cui, appunto, «tutto era a posto e niente in ordine».
Se i primi capitoli presentano un allure fumettistica, irriverente e, lasciatemelo dire, esemplare nella narrazione delle origini dei Werdmüller e delle prime avventure scolastiche della nostra Lina, i successivi raccontano della determinazione con cui la regista di Mimì metallurgico ferito nell’onore si dedicò al teatro, in un roboante e meraviglioso affresco che era il mondo dello spettacolo: Guido Salvini, Andreina Pagnani, Lelio Luttazzi,  il “sadico” Visconti,  una giovane Monica Vitti diva ante-litteram, il sodalizio amicale di Giorgio De Lullo e Romolo Valli, l’esperienza della rivista con Garinei e  Giovannini. Ognuna di queste storie, incontrate e vissute dalla giovane Lina «topolino da palcoscenico» Wertmüller possiedono il duplice valore di elemento formativo e prezioso racconto in grado di conquistare una volta di più il lettore.

martedì 23 aprile 2013

Antiviral di Brandon Cronenberg (2012)


Affrontiamo subito la questione. Brandon è figlio di quel Cronenberg lì. Sì, proprio quello. Ancora sì, Brandon aveva detto che si sarebbe dedicato alla scrittura, alla pittura o alla musica e poi, l’anno scorso, se n’è uscito con un film nella rassegna Un Certain Regard di Cannes. Che film però! Guardiamo un po’ a questo suo esordio: Antiviral, una pellicola che da sola spinge di molto in avanti la rappresentazione cinematografica del grottesco, utilizzando un rigore formale e un codice visivo pazzesco. Il cinema di Brandon Cronenberg possiede prerogative originali pur dialogando con l’opera del padre sia in termini concettuali sia direttamente, con la scelta di girare in Canada e fare della splendida Sarah Gadon, già Elise Shifrin in Cosmopolis, la sua musa, a metà tra l’iperreale e il carnale più mefitico.
Antiviral è ciò che rimane dopo che la società dello spettacolo ha fagocitato ogni aspetto della realtà, un virus silente e implacabile che ha mutato i suoi connotati e per il quale (se mai qualcuno l’avesse cercata) non c’è alcuna possibilità di cura. Ciò che questo processo consegna è una comunità di umanotteri nevrotici, cannibali ed estremamente soli, desiderosi della più intima connessione con la celebrità del cuore. Si tratta di un legame non più basato sul desiderio sessuale ma sulla condivisione della malattia, di virus, batteri e patogeni che hanno albergato nel corpo della stella del cuore e che, depotenziati della propria virulenza, sono loro iniettati da esperti del settore. Due cliniche, la Lucas e la Vole & Tesser, due società si contendono l’Herpes simplex o l’ultimo influenzavirus avuto dalle celebrità per poi rivenderlo agli umanotteri di cui sopra.

venerdì 19 aprile 2013

Holy Motors di Leos Carax (2012)


Premier rendez-vous
L’ex enfant terrible del cinema francese, Leos Carax (Rosso sangue, Gli amanti del Pont-Neuf) torna fra noi col più inenarrabile e commovente dei film possibili. Partendo semplicemente dal concetto che dell’Occhio avevano i surrealisti. Già, l’occhio. L’occhio non può che essere “senza volto”, se parliamo della ancor bellissima Edith Scob. Se poi prendiamo Edith Scob e la mettiamo a guidare il taxi pluvial di Salvador Dalì e la mandiamo a scorrazzare Denis Lavant (icona di tutto il cinema dionisiaco francese) per una Parigi subacquea ed epilettica, tutto ciò parrà come se sulla pelle indossassimo la celebre maschera di Franju. (Andrea Bruni).

Second rendez-vous
Mentre David Cronenberg osserva una limousine bianca che percorre New York divenire il proscenio dove rappresentare, con rigore formale e preveggenza, quel che rimane delle sfere intrapsichiche di freudiana memoria, a Parigi Leos Carax ne segue un’altra, identica alla prima, nella sua funzione di trasmettitore. Il segnale trasmesso è cangiante e attraversa un organismo esso stesso franto e in continua e perpetua metastasi: una Parigi i cui passages sono ormai emanazioni di una iperrealtà multidimensionale che è già stata surrealtà.

sabato 6 aprile 2013

Arizona Dream di Emir Kusturica (1992)


Un’ode al rifugio, al terribile e doloroso passaggio dall'età dell’innocenza all'età adulta (che non coincide affatto con l’età biologica, rimandabile persino all'ora fatale) e alla dimensione onirica che membrana placentare –preziosa e fragile – ci protegge (finché può) dalle orribili e desolate grinfie del reale. Ecco cos'è Arizona Dream – arrivato in Italia con il titolo Il valzer del pesce freccia – pellicola del regista jugoslavo, naturalizzato serbo, Emir Kusturica, vincitrice dell’Orso d’Argento a Berlino nel 1993. Arizona Dream è il debutto americano di Kusturica, che con attitudine scientemente Avant-Pop, dark, sexy e melanconica, sceglie di prelevare i materiali pop e luccicanti da manipolare nella sua storia dall'immaginario americano – la metropoli come rifugio, il sogno americano, la suburbia, il cinema e la provincia come territorio d’elezione del gotico – commistionandoli a un sentimento, uno spleen, uno sguardo che ha origini nel vecchio continente. Arizona Dream possiede i caratteri ereditari del realismo convenzionale ma li trasferisce in quella che Larry McCaffery chiamerebbe «trama lunare», sviluppata visivamente dal regista di Underground grazie a un cast che definire meraviglioso e in stato di grazia è riduttivo. Un cast in grado di abbassare il punto di vista all'infanzia nonostante, fra loro, non ci sia nemmeno un bambino: le espressioni buffe e malinconiche di Axel, nella recitazione assai fisica e mimica di Johnny Depp sono il manifesto del film, così come quelle del suo corrispettivo sul viale del tramonto: lo zio Leo, interpretato con magistrale ironia e dolorosa coscienza dall'immane Jerry Lewis; come non citare poi la splendida perfomance di Vincent Gallo, che con un divertente accento newyorkese interpreta Paul, outsider, «lunare» e fragilissimo nel suo desiderio di recitare; ancora, Faye Dunaway nei panni della vedova nera Elaine, che vediamo mutare forma e attraversare gli immaginari: da spregiudicata ereditiera a versione speculare dell’Alice di Carroll, sia per età sia per desiderio di ascesa al cielo; chiude il cast Lili Taylor, perfetta interprete della nevrotica e agghiacciante Grace, figliastra di Elaine.

lunedì 1 aprile 2013

Gli amanti passeggeri di Pedro Almodóvar (2013)


In quale epoca asfittica non si riesce a godere di un film come Gli amanti passeggeri? È possibile che la comicità senza mea culpa di Pedro Almodóvar non sia stata apprezzata? Sì, perché a differenza dell’aeromobile della Peninsula su cui è ambientato il film, le operazioni di decollo, crociera e atterraggio dirette dal nostro sono perfettamente riuscite. Il regista di Che ho fatto io per meritare questo? Dopo l’incursione cupissima, disturbata e arty de La pelle che abito recupera la lente trashy di Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio per fissarla ai finestrini dell’aeromobile 340 di Peninsula e raccontare ciò che siamo diventati: un’affollata classe “economy” sedata e ignara (hostess comprese) dietro una prima classe semivuota in cui truffatori, assassini, puttanieri e maîtresse d’alto bordo cercando di gestire la situazione insieme al personale. I dialoghi, scritti dallo stesso Almodóvar, poi, sono brillanti e più d’una volta diluiti nel ritmo narrativo (mai perduto) rilasciano il loro effetto dissacrante dopo qualche minuto.
Non è un caso che ne Gli amanti passeggeri Almodóvar recuperi le istanze del suo primo cinema, le stesse utilizzate per raccontare gli anni Ottanta: origine spettacolosa della deriva contemporanea. Centrale in questo senso il personaggio di Norma, icona, simbolo immemore di sensualità (giocoforza una copertina storica di «Interview»), poi dominatrice BDSM e titolare di un’agenzia di escort che fornisce servizi (di ogni genere e colore) ai seicento uomini più importanti di Spagna. Norma, chiudendo il cerchio, è interpretata da Cecilia Roth, che iniziò la sua collaborazione con Pedro Almodóvar proprio con Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio.  Per questo sua rappresentazione della contemporaneità guidata da un’ombra di potere intriso di truffa, sesso e ricatto, con radici negli anni dell’edonismo, possiamo avvicinare (con i dovuti distinguo) Gli amanti passeggeri all'ultima, straordinaria, prova letteraria di Aldo Busi, El especialista de Barcelona.