domenica 23 dicembre 2012

I Goonies di Richard Donner (1985)


I Goonies è uno di quei film perfetti per un pomeriggio di festa. Solo a sentirlo nominare ti vengono subito in mente, divano e coperta, magari una cioccolata calda mentre guardi in TV - rigorosamente in VHS - un film come, Gremlins, gli Addams, GhostbustersLabyrinth - dove tutto è possibile, Piramide di pauraEdward Mani di forbiceE. T. l'extraterrestre o, appunto, I Goonies.
Alzi la mano chi non ricorda le battute principali di Data (Jonathan Ke Quan), Mikey (Sean Astin), Brandon (Josh Brolin) e gli altri ragazzi di Astoria durante le loro avventure alla ricerca del tesoro dimenticato di Willy l’Orbo. I Goonies racconta infatti delle peripezie dei giovani goonies (dal nome del quartiere Goondocks) alla ricerca di un modo per salvare la casa di Mikey, il cui padre archeologo è costretto a cedere ad alcuni spietati imprenditori, intenzionati a costruirvi un campo da golf. Tra una sortita in soffitta e un inseguimento sotterraneo con la banda di criminali italioti Fratelli (riferimento pulp che si inserisce perfettamente all'interno dell’avventura pop-picaresca elaborata da Steven SpielbergChris Columbus) i giovani protagonisti giungeranno infine alla grotta dove è custodita la nave pirata di Willy l’Orbo - ribattezzato dal giovane Mikey “il primo goonie” - che solo nel finale liberatorio troverà il modo di tornare a solcare le acque fra le urla di giubilo dei ragazzi di Astoria.
Il film - un vero feticcio per la generazione cresciuta negli Ottanta - mescola racconto suburbano (bellissimo il frammento in cui quel furbastro di Mouth traduce alla nuova governate ispanica di casa Walsh istruzioni tutte sue col beneplacito della svampita mamma di Mikey), avventura à la Indiana Jones (prove da superare, scenografie posticce, collaborazione) e weltanschauung pop per tutti: il giovane asmatico Mikey che butterà via l’inalatore nel finale, il “sotto007″ Data di origini orientali, Brandon il fratellone di Mikey, il cicciottello e spassosissimo Chunk, le “chicks” Andy e Stef a cui si unirà presto anche il deforme e forzuto Sloth Fratelli. L'intertestualità del film attinge continuamente dal mare magnum della popular culture: dal cameo di Cindy Lauper (che canta il tema del film Goonies R Good Enough) ai continui riferimenti a diversi cult movies come Gremlins, 007, Indiana Jones e ai generi hard boiled e fantastico.

In definitiva un passaggio obbligato durante le feste, magari al posto di uno di quei cinepanettoni indigesti e ricchi di grassi idrogenati che fanno tanto male alla salute.


martedì 18 dicembre 2012

Nowhere di Gregg Araki (1997)


Una Los Angeles dai colori fluo, una vasta landa, arida, desolata, glitterata, riempita solo di vuoto e morte. Insomma il luogo ideale dove ambientare l’ultimo capitolo della Teenage Apocalypse Trilogy di Gregg Araki. L’apocalisse è deflagrata in silenzio, come una scellerata natività si è consumata al freddo e al gelo, di notte, in un capannone. All'umanità non resta che continuare a vivere in attesa del «rapture» (già annunciato da uno dei cartelli di Doom Generation), in cui essa ascenderà al cielo e Cristo tornerà sulla terra. Una speranza consolatoria per un’umanità ormai condannata. Basta guardarsi intorno. I connotati del reale sono mutati, distorti, le camere dei nostri teenager sono delle vere e proprie installazioni situazioniste, modellate sulle ossessioni, sulle paure e i desideri di coloro che le abitano. L’orrore deflagra in silenzio mentre una sensazione millenaristica, sempre più oppressiva sembra attanagliare tutti i protagonisti, anche quelli più disinibiti come Lucifer, o le leggendarie mistress Kozy e Kriss (Debi Mazar e Chiara Mastroianni). Siamo insomma in una «puntata di Beverly Hills 90210 in acido» (come ha definito Nowhere lo stesso Gregg Araki). Un luogo in cui nonostante la condanna – presente sin dall'inizio della pellicola nelle parole di Dark (James Duval) – si vivono le prime cotte, le prime esperienze sessuali, i primi goffi tentativi di approccio. Solo che qui si tratta di spanking con motociclisti violenti, sesso orale con una pralina di cioccolato, pratiche BDSM con tanto di chiave in inglese e violenza sessuale praticate dal teen idol di turno (avete mai visto Baywatch?). Araki costruisce la pellicola esattamente come una puntata di un teen drama: gli eventi ripercorrono una giornata, dalla colazione nella locale tavola calda - un «Peach Pit» che ha ritinteggiato di nero le pareti diventando «The Hole», il luogo ideale per divorare una torta con le amiche prima della seduta di vomito in bagno – fino ai giochi sotto ecstasy (Ecstasy Generation è uno dei titoli del film) per arrivare alla festa segreta, il Jujyfruit Party, in cui il meglio della società postumana si ritrova sulle note di Trash dei Suede, per celebrare l’apocalisse in un’ultima pantagruelica, sempre simbolica, cornucopia di sangue, orrore e violenza.

lunedì 17 dicembre 2012

Gremlins di Joe Dante (1984)


Si avvicinano le vacanze natalizie, con il suo seguito di riti e tradizioni che aspettano solo di essere celebrate. Questo è il periodo giusto in cui recuperare quelle pellicole, che magari si sono viste da piccoli, in quelle mattine fredde, sotto le coperte o sul divano, rigorosamente ancora in pigiama. Pellicole come i Goonies, Ghostbusters la saga di Indiana Jones, gli AddamsLabyrinth - dove tutto è possibileEdward Mani di forbice, Piramide di pauraE. T. l'extraterrestre o, come nel nostro caso, Gremlins. Alzi la mano chi non ha amato il piccolo mogwai Gizmo, l’atmosfera sognante del Natale a Kingston Falls, la perfetta calibrazione fra orrore e commedia, le innumerevoli citazioni (da Flashdance a L’uomo che visse nel futuro) e la deriva comportamentale dei mostriciattoli verdi in giro per la città la notte di Natale.
La premiata ditta Steven Spielberg/ Chris Columbus/ Joe Dante realizza il film sull'idea che Walt Disney voleva trarre dall'omonimo libro per bambini di Roald Dahl, in cui dei mostriciattoli mettevano fuori uso degli aerei durante la seconda guerra mondiale. Il riferimento al romanzo di Dahl, nel film, è incarnato dalle parole del signor Futterman, che racconta di strani esseri malvagi che minano il funzionamento degli oggetti tecnologici. Columbus, alla scrittura, Spielberg come produttore esecutivo (intervenne sotto questa veste in vari momenti per preservare la comprensione e la coerenza del film) e Dante alla regia (scelto per il suo gusto in fatto di horror, con cui si era cimentato negli anni precedenti) realizzano una pellicola immortale, scientemente pop. Il film è un successo perché incarna la tendenza al ribaltamento, al gioco speculare fra idillio e orrore che è parte integrante dell’immaginario letterario e artistico statunitense. Un gioco in cui Norman Rockwell e H. P. Lovecraft si guardano nello stesso specchio e che trova nella provincia la sua dimensione ideale. I tre ragazzi d’oro del cinema pop si divertono come matti a citare e rievocare, mentre la signora Peltzer cucina con gli improbabili strumenti inventati dal marito, sospira guardando in TV La vita è meravigliosa mentre Billy (che pur lavorando in banca vuol diventare fumettista) e Gizmo, in mansarda, guardano L’invasione degli ultracorpi. Il citare il grande immaginario pop americano, già classico, non si ferma certo qui. Il continuo calibrare i toni della commedia e del racconto horror ne è un esempio, la situazione di emergenza e di isolamento in cui versa Kingston Falls poi è un altro stilema tipico della cultura americana (da Edgar Allan Poe in avanti, verso gli esperimenti di riazzeramento sociale di Stephen King). A ciò si unisce il roboante tocco picaresco tanto caro a Steven Spielberg, che rende Gremlins l’avventura che ancora oggi amiamo vedere. 

venerdì 14 dicembre 2012

Desperate Housewives: la quarta stagione (2007/2008)


La quarta stagione di Desperate Housewives sarà sicuramente ricordata come la serie della redenzione (ma a caro prezzo), il dolore e lo sconforto saturarono l’aria di Wisteria Lane molto presto e le geografie emotive delle protagoniste (già profondamente provate) subirono importanti cambiamenti.
Gabirelle Solis arrivò talmente vicino ai torni del noir da rimanerne quasi irrimediabilmente segnata, Susan Mayer fece per la prima volta i conti con una piena vita familiare (non si dice poi che il matrimonio sia la tomba dell’amore?) rischiando di finire più di una volta sul proverbiale “orlo di una crisi di nervi”, ampio spazio (e ne siamo davvero felici) venne dato al personaggio di Lynette Scavo (una sempre più brava Felicity Huffman) narrata nei rapporti con la sua famiglia originaria e con la sua nuova amica, la vicina dal cuore d’oro Karen McCluskey (Kathryn Joosten, che da qui in poi avrà lo spazio che si merita).
Dalla quarta stagione non ne escono bene invece i maschietti della serie, bistrattati, traditi (non l’avevamo già sentita?), quasi uccisi e malmenati nelle più disparate occasioni. Sempre più accessori, come l’immancabile filo di perle, filo di trucco e filo di tacco, dovranno arrendersi all'evidente influenza delle compagne sulle più importanti questioni della propria everyday life e non. Spicca sempre e comunque su tutti la verve comica di Kyle McLachlan, brillante e gradevole nel ruolo di Orson Odge, marito di Bree.
Questa stagione a causa dello sciopero degli sceneggiatori la serie vide i suoi episodi ridursi da i canonici 23/24 a 17 ma non sembra averne sofferto poi molto, considerato che il mistero di quest’anno, riguardante la nuova, amatissima casalinga Katherine Mayfair (Dana Delany) si dipana con il giusto ritmo all'interno della trama, amalgamandosi perfettamente con le altre storie del quartiere. Sembra quasi di essere tornati ai tempi della torbida storia di Mary Alice della prima stagione, abbiamo infatti un’adolescente all'oscuro del suo passato con contorno di genitori dissimulatori e senza scrupoli. Il tema della violenza domestica è, purtroppo, appena accennato. Avremmo forse preferito un maggiore approfondimento delle motivazioni dei personaggi, abbozzati nei flashback e un po’ statici nella rappresentazione contemporanea.

martedì 11 dicembre 2012

The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman (1975)


Stanno per cominciare le vacanze natalizie e ogni cinefilo che si rispetti ha in programma di rivedere per l'ennesima volta il cult assoluto The Rocky Horror Picture Show, pellicola di Jim Sharman tratta dalla fortunata pièce teatrale omonima di Richard O’Brien che nel film interpreta il maggiordomo Riff Raff. Come sappiamo, la pellicola ebbe una fortuna incredibile generando fenomeni massicci di fandom con proiezioni collettive nei cinema di tutto il mondo (soprattutto in prossimità di Halloween) dove gli spettatori costruivano veri e propri mini-cast truccandosi e vestendosi come i personaggi del film e recitando le battute insieme alla pellicola. Oggi, nell'era del web e dei social network la pellicola sembra vivere una nuova stagione di fortuna grazie a milioni di fan in tutto il mondo che si ritrovano su Twitter e Facebook per giocare con le battute del film, creare spin-off e parodie di ogni genere.
The Rocky Horror Picture Show è un vero invito a nozze per l’amante della cultura Avant-Pop, che qui si diverte a recuperare ogni citazione, ogni riferimento (anche periferico) presente nella scenografia, nel testo delle canzoni (solo nel brano introduttivo Science Fiction/Double Feature ce ne sono più di quaranta tra cinema, radio e letteratura) e persino nella locandina che riprende quella de Lo Squalo. Dall'austera coppia di American Gothic di Grant Wood (che ritroviamo prima personificati durante le scene iniziali poi riproposti più o meno velatamente durante tutto il film) per arrivare al salvagente del Titanic, dall'antenna della RKO (scalata da Rocky come l’Empire State Building in King Kong) a La creazione di Adamo di Michelangelo e, ovviamente, la Gioconda (allegoria di genere per eccellenza). In più il delirio visivo della pellicola rimanda continuamente ai genere più popolari: la science fiction e il gotico, il pulp e il picaresco.

lunedì 10 dicembre 2012

La magnifica orda di Alessandro Bertante (2012)



Il romanzo La magnifica orda che Alessandro Bertante pubblica per Il Saggiatore è un oggetto prezioso già nell’accezione fisica del termine, non a caso è pubblicato nella rinata collana de «Le Silerchie», che ritrova oggi vita e lustro grazie al lavoro d’eccellenza di Luca Formenton. Il romanzo è breve, cinquantatré pagine che suddividono la narrazione in tre movimenti assai evocativi. Bertante trascina il lettore prima in un’epica battaglia concettuale contro la «magnifica orda» proveniente da oriente, poi verso un colloquio di lavoro in una Milano da «fine impero», per arrivare alle parole oracolari, nel Parco Sempione del 1983, di un barbone che tiene con sé tre cani dai nomi simbolici: L’umanità, La bella e L’amore, in cui l’articolo determinativo in maiuscolo conferisce l’importanza che gli appellativi stessi sembrano aver perduto.
Al centro dei tre capitoli, delle tre diverse ambientazioni, c’è Alessio Slaviero (che possiede le catene della schiavitù intellettuale cui è ridotto l’occidente persino nel nome). Nel primo movimento Alessio è uno scrivano, cronista al fianco di Napoleone Bonaparte. Questi guida con ardore immemore l’armata occidentale contro l’invasione dell’orda proveniente da oriente. Orda, avvolta nel luccicore concettuale che la rende mito, organismo unico e indefesso, quindi «magnifico». Alessandro Bertante ha la capacità di rendere i brani di battaglia meravigliosi affreschi narrativi (ricordiamo Nina dei lupi) in cui il dettaglio prezioso si confronta con la maestosità emotiva di due schieramenti che si scontrano fra loro. La disfatta armata occidentale è composta, nel mito concettuale de La magnifica orda, dai macedoni di Alessandro Magno, Ivan il Terribile, Ottone I il grande e dal coraggioso e strenuo Gioacchino Murat, l’unico che riuscirà a puntare, folle e intoccabile verso il nulla al centro dell’orda, che Bertante ci racconta come «dorato» e «splendente». Conscio della sconfitta nel confronto con la magnifica orda, Napoleone invita Slaviero al sacrificio ultimo, ma come può uno scampolo dell’occidente che nemmeno partecipa alla battaglia e ha bisogno del continuo incitamento del suo generale per scrivere e raccontare, scegliere il sacrificio piuttosto che la fuga?

mercoledì 5 dicembre 2012

Doom Generation di Gregg Araki (1995)


L’avvento dell’apocalisse è vicino, a ben vedere essa è già avvenuta, consumandosi durante gli anni Novanta. Non a caso Doom Generation, film centrale della Teenage Apocalypse Trilogy di Gregg Araki, è aperto da un enorme rave party industrial immerso in una luce demoniaca e bidimensionale, in cui i teenager - abbandonato l’esame autoreferenziale e amniocentico-amicale di Totally Fucked Up e consci di essere ormai irrimediabilmente perduti - sono inghiottiti verso la fine (annunciata per strada piuttosto che in negozi di abbigliamento che avrebbero mandato in brodo di giuggiole John Waters e Van Smith). Non ne conoscono la portata ferina ma sanno già che sta arrivando, «mi sento come un castoro che soffoca nel buco del culo di Richard Gere» dirà Jordan, cercando di dare una forma al loro presagire. Non gli rimane che attraversare quel che resta della civiltà, un susseguirsi di non luoghi pop e kitsch, shop in cui paghi sempre 6,66$ (come vorrebbe la Bestia), cartellonistiche prosastiche, camere d’albergo situazioniste (che diverranno modello per i futuri ambienti abitati dai ragazzi di Nowhere), bar di cartapesta, negozi di dischi (immancabili in una trilogia che fa della colonna sonora un punto di forza poetico ed epocale) e disperati e lerci paesaggi di fine-mondo. Tutto intorno ai tre protagonisti è ormai «post», dalla fauna, che in Totally Fucked Up avevamo solo intravisto, e che qui accerchia i nostri sempre più pericolosamente, soffocandoli di un desiderio che è ossessione e che possiede caratteri a metà fra l’infantile e il sessuale, «voglio la mia babycake!» griderà loro uno di essi mentre i tre sgommano ancora una volta via nella notte.

martedì 4 dicembre 2012

John Carpenter e il genere western: Vampires (1998)


Perché non possiamo prendere Vampires – ricordato come l’unico successo al botteghino degli anni Novanta di John Carpenter – per quello che è? Non appena il regista di Essi vivono ha dichiarato che il film possiede la struttura orizzontale del genere western piuttosto che quella verticale del racconto gotico, qualcuno è corso ad accostare Vampires all'Opera di John Ford. Com'è possibile? Il western di Ford possiede delle implicazioni sociali e coloniali che hanno fatto storia. In Sentieri Selvaggi e soprattutto in Cavalcarono Insieme è centrale la riflessione sul razzismo, sull'integrazione e sulle implicazioni di uno scontro di civiltà, senza contare che stilisticamente e visivamente Ford possiede un forte senso pittorico e compositivo visibile in ogni singola inquadratura. Vampires è quanto di più lontano da Ford, è un film ferino, misogino, sessista, che mette in scena programmaticamente odio, rabbia e violenza, tanta violenza. Certamente Vampires è un western, ne possiede tutte le caratteristiche, dal paesaggio desertico e di frontiera all'idea del cavaliere errante, fino allo scontro al di fuori della legge, ma le declina secondo un paradigma che Carpenter stesso – in quel periodo in piena crisi nei confronti del cinema e del mestiere registico – costruisce sul nichilismo. È così che il film ottiene la sua peculiarità.
Sulla base di un racconto di John Steakley (Vampire$) che Carpenter giudica fiacco e poco adatto al suo progetto, il film racconta di Jack Crow (James Woods, scelto da Carpenter perché secondo il regista è «l’aggressività fatta persona»), un cacciatore di vampiri, perennemente incazzato, violento, vecchio e cattivo. Con lui una nutrita banda di polverosi guerriglieri con cui stana i vampiri (qui gerarchicamente suddivisi in adepti e maestri) bruciandoli alla luce del giorno. Uno di loro, il più antico, Jan Valek (Thomas Ian Griffith), sfugge al protocollo di Crow e in una delle scene più belle del film fa visita al Motel in mezzo al deserto in cui i cacciatori stanno festeggiando fra alcol e prostitute la ricca giornata di lavoro. La cornucopia gore è assicurata, a essa scampano solo Crow, Katrina una prostituta che è stata morsa da Valek (interpretata da un’allucinata Sheryl Lee) e solo un componente della squadra originale: Montoya (Daniel Baldwin). Questa gang di reietti dovrà vedersela con le origini cristiane di Valek che sembra aver a che fare con uno strano esorcismo operato dalla Santa Sede e andato male…

sabato 1 dicembre 2012

L'impero familiare delle tenebre future di Andrea Gentile (2012)


Sono il ritmo, la ripetizione a condurre e introdurre il lettore alla visione pluridimensionale, vorticosa e sincopata di Andrea Gentile in L’impero familiare delle tenebre future (Il Saggiatore). Un ritmo che investe la narrazione di un’aura che è stata ed è tipica della tradizione orale, un racconto mesmerizzante in cui trovano spazio la filastrocca e la canzone. È ancora il ritmo a produrre nel lettore una pulsatile sensazione di premonizione, millenaristica eppure personale, l’incombere di un apocalittico scontro fra bene e male. L’io narrante e femminile de «L’impero» è imprigionato in una serie di eventi che sono contenuti in una sensazione: «la nausea», che attanaglia e amplifica a ondate la sua ossessione e la sua dolorosa impotenza. Questi eventi che sono poi visioni affastellate prendono forma da Masserie di Cristo, un luogo mitico, in un sud necrotico, fatto di spazi metafisici, terra e aspra vegetazione, «infinitesimale paese in questo infinitesimale paese, che è Italia». Mentre monta l’angoscia della voce narrante, su tutti i televisori accesi si consuma, immobile ed ecumenica, l’agonia del Vicario di Cristo, di Papa R. Benché la modernità nella sua emanazione tecnologica rifiuti e chiuda all’io narrante le sue funzioni, i televisori continuano a trasmettere l’immagine di un pontefice già reliquia, nella sua agonia da Supremo, avvolto e costretto nella teatralità che la sua condizione gli impone. Una presenza televisiva che permea d’angoscia la ricerca ossessiva della madre, temuta morta nel tragitto casa-lavoro. La sensazione premonitrice, la nausea, che mette in moto il viaggio nella surrealtà mitica costruita da Andrea Gentile, porta l’io narrante a muoversi e attraversare continue visioni, «ti vedo» è l’intercalare mesmerizzante da lei utilizzato per alimentare la sua ossessione. Man mano che procede la narrazione, la realtà si diluisce nel mito mutando i suoi connotati più rassicuranti («Qui, ora, in questo batterio di mondo, la Storia mi appare sciolta nell'acido. Il mondo è una vasca che questo acido contiene?»). Il racconto leggendario prende forma attraverso l’errare, attraverso questa iperrealtà mitica e cangiante. Ci rendiamo presto conto però che l’epopea, il mito, si svolge nell'io narrante, è esso stesso l’impero familiare delle tenebre future.