lunedì 10 dicembre 2012

La magnifica orda di Alessandro Bertante (2012)



Il romanzo La magnifica orda che Alessandro Bertante pubblica per Il Saggiatore è un oggetto prezioso già nell’accezione fisica del termine, non a caso è pubblicato nella rinata collana de «Le Silerchie», che ritrova oggi vita e lustro grazie al lavoro d’eccellenza di Luca Formenton. Il romanzo è breve, cinquantatré pagine che suddividono la narrazione in tre movimenti assai evocativi. Bertante trascina il lettore prima in un’epica battaglia concettuale contro la «magnifica orda» proveniente da oriente, poi verso un colloquio di lavoro in una Milano da «fine impero», per arrivare alle parole oracolari, nel Parco Sempione del 1983, di un barbone che tiene con sé tre cani dai nomi simbolici: L’umanità, La bella e L’amore, in cui l’articolo determinativo in maiuscolo conferisce l’importanza che gli appellativi stessi sembrano aver perduto.
Al centro dei tre capitoli, delle tre diverse ambientazioni, c’è Alessio Slaviero (che possiede le catene della schiavitù intellettuale cui è ridotto l’occidente persino nel nome). Nel primo movimento Alessio è uno scrivano, cronista al fianco di Napoleone Bonaparte. Questi guida con ardore immemore l’armata occidentale contro l’invasione dell’orda proveniente da oriente. Orda, avvolta nel luccicore concettuale che la rende mito, organismo unico e indefesso, quindi «magnifico». Alessandro Bertante ha la capacità di rendere i brani di battaglia meravigliosi affreschi narrativi (ricordiamo Nina dei lupi) in cui il dettaglio prezioso si confronta con la maestosità emotiva di due schieramenti che si scontrano fra loro. La disfatta armata occidentale è composta, nel mito concettuale de La magnifica orda, dai macedoni di Alessandro Magno, Ivan il Terribile, Ottone I il grande e dal coraggioso e strenuo Gioacchino Murat, l’unico che riuscirà a puntare, folle e intoccabile verso il nulla al centro dell’orda, che Bertante ci racconta come «dorato» e «splendente». Conscio della sconfitta nel confronto con la magnifica orda, Napoleone invita Slaviero al sacrificio ultimo, ma come può uno scampolo dell’occidente che nemmeno partecipa alla battaglia e ha bisogno del continuo incitamento del suo generale per scrivere e raccontare, scegliere il sacrificio piuttosto che la fuga?
 Attesa che si materializzerà in presa di coscienza e visione durante il colloquio di lavoro che Alessio Slaviero fa a Milano, oggi, muovendosi da una periferia desaturata, greve e condannata. «Questo è hinterland, ed è un luogo privo di dignità» dirà Alessio, quarantenne e disoccupato mentre si avvia, in sterile anticipo al suo colloquio. Attesa rinfrancata e argomentata nel salto temporale al 1983, dal veggente col suo triciclo e i suoi tre cani a Parco Sempione. Nelle sue parole alla luminosissima «orda» si contrappone «l’onda» che ci uccide (rà), attraverso il segnale, le televisioni, annichilendo e asservendo. Se nell’oggi assoggettato del colloquio la visione sembra liberare da ogni significazione il gioco sterile tra l’esaminando e l’esaminatore, nel 1983, a Parco Sempione, premonisce la crisi (nel senso più salvifico del termine) e finalmente la perdita delle vestigia di un occidente indegno e fragile.

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