Il romanzo La magnifica orda che Alessandro Bertante pubblica per Il
Saggiatore è un oggetto prezioso già nell’accezione fisica del termine, non a
caso è pubblicato nella rinata collana de «Le Silerchie»,
che ritrova oggi vita e lustro grazie al lavoro d’eccellenza di Luca Formenton.
Il romanzo è breve, cinquantatré pagine che suddividono la narrazione in tre
movimenti assai evocativi. Bertante trascina il lettore prima in un’epica battaglia
concettuale contro la «magnifica orda» proveniente da oriente, poi verso
un colloquio di lavoro in una Milano da «fine impero», per arrivare alle parole
oracolari, nel Parco Sempione del 1983, di un barbone che tiene con sé tre cani
dai nomi simbolici: L’umanità, La bella e L’amore, in cui l’articolo
determinativo in maiuscolo conferisce l’importanza che gli appellativi stessi
sembrano aver perduto.
Al centro dei tre capitoli, delle
tre diverse ambientazioni, c’è Alessio
Slaviero (che possiede le catene della schiavitù intellettuale cui è
ridotto l’occidente persino nel nome). Nel primo movimento Alessio è uno
scrivano, cronista al fianco di Napoleone Bonaparte. Questi guida con ardore
immemore l’armata occidentale contro l’invasione dell’orda proveniente da
oriente. Orda, avvolta nel luccicore concettuale che la rende mito, organismo
unico e indefesso, quindi «magnifico». Alessandro Bertante ha la capacità
di rendere i brani di battaglia meravigliosi affreschi narrativi (ricordiamo Nina dei lupi) in cui il
dettaglio prezioso si confronta con la maestosità emotiva di due schieramenti
che si scontrano fra loro. La disfatta armata occidentale è composta, nel mito concettuale de La magnifica orda, dai macedoni di Alessandro Magno, Ivan il Terribile, Ottone I il grande e dal coraggioso e strenuo Gioacchino Murat, l’unico che riuscirà a
puntare, folle e intoccabile verso il nulla al centro dell’orda, che Bertante
ci racconta come «dorato» e «splendente».
Conscio della sconfitta nel confronto con la magnifica orda, Napoleone invita
Slaviero al sacrificio ultimo, ma come può uno scampolo dell’occidente che
nemmeno partecipa alla battaglia e ha bisogno del continuo incitamento del suo
generale per scrivere e raccontare, scegliere il sacrificio piuttosto che la fuga?
Attesa che si materializzerà in presa
di coscienza e visione durante il colloquio di lavoro che Alessio Slaviero fa a
Milano, oggi, muovendosi da una periferia desaturata, greve e condannata. «Questo è
hinterland, ed è un luogo privo di dignità» dirà Alessio, quarantenne e
disoccupato mentre si avvia, in sterile anticipo al suo colloquio. Attesa
rinfrancata e argomentata nel salto temporale al 1983, dal veggente col suo
triciclo e i suoi tre cani a Parco Sempione. Nelle sue parole alla
luminosissima «orda» si contrappone «l’onda» che ci uccide (rà), attraverso il
segnale, le televisioni, annichilendo e asservendo. Se nell’oggi assoggettato
del colloquio la visione sembra liberare da ogni significazione il gioco
sterile tra l’esaminando e l’esaminatore, nel 1983, a Parco Sempione,
premonisce la crisi (nel senso più salvifico del termine) e finalmente la perdita delle vestigia di un occidente indegno e fragile.
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