Il Gotico Americano vive una nuova stagione di orrori consumati al sole del sud.
Oggi, che
la fuga dalla phoniness - agognata da
Holden e dalla nutrita fauna beat - è
tornata a essere un bisogno primario, artisti, scrittori e cineasti da tutto il
mondo sognano di salire sulla zattera di Huckleberry Finn e scivolare sulle
nere acque del Mississippi per scrutare la fitta boscaglia che lo costeggia, riconoscere
gli edifici in stile Carpenter Gothic imbiancati di fresco che di tanto in
tanto occhieggiano sulle colline, alla ricerca dell’origine del male.
Non ci
stupiamo di trovare accanto al sorriso sardonico della Gillian Flynn de L’amore bugiardo lo sguardo pacioso e
dolce del regista sudcoreano Park
Chan-Wook, intento a soppesare con lo sguardo la qualità di una tenuta in Tennessee,
un terreno ben fertilizzato in cui coltivare uno degli incubi contemporanei più
agghiaccianti, umbratili e sensuali: Stoker. Il film, girato in lingua
inglese, è stato realizzato sulla splendida sceneggiatura scritta da Wentworth Miller (se guardate bene su
quella zattera, c’è anche lui, camuffato come un novello Tom Sawyer), che pare
abbia persino scritto un prequel
intitolato Lo zio Charlie, incluso
nella «Black List» di Hollywood, la lista delle migliori sceneggiature non
prodotte.
Stoker è un meraviglioso racconto gotico in cui il «seme del male»
germoglia il giorno del funerale di un capofamiglia, l’amato Richard Stoker (Dermot Mulroney). Mentre il sole del Tennessee illumina il legno prezioso della bara,
la radura avvolta dalla boscaglia smeraldina e le eleganti gramaglie della
vedova e dell’unica figlia del caro estinto, India (Mia Wasikowska), assistiamo
al prepotente insorgere di fantasmi privati. Fantasmi che nel caso specifico
hanno il sorriso sornione e lo sguardo rotondo e raggelante di Matthew Goode.
India alla ricerca della visione d'insieme. |
India, è
una creatura “altra”, è la figlia nata da Holden Caulfield e Rhoda Penmark,
cresciuta cacciando fra i folti e pervasivi boschi del sud. In lei è
amplificata la percezione sensoriale del reale e nel giorno del suo
diciottesimo compleanno (nonché data della morte del padre) sente risvegliarsi
una naturale, atavica e inconscia forma di appetito ferino. Le soluzioni
registiche di grande bellezza che rappresentano il risveglio di India
all’interno delle nuove dinamiche familiari – sensuali, sussurrate e
rigorosamente osservate di sottecchi – sono elaborate da Park Chan-Wook con
maestria e leggerezza. Un campo che si allarga, rivelando gradualmente l’orrore
attraverso immagini meravigliose e memorabili.
Il
palcoscenico dove si svolge la vicenda è quello lasciato vuoto da Tennessee
Williams (non a caso autore letto avidamente dalla protagonista Mia Wasikowska
durante le riprese): una magione nel sud, rappresentata attraverso eleganti
soluzioni scenografiche, in cui i tre protagonisti, l’enigmatico zio Charlie di
Matthew Goode, la giovane eroina gotica India e la dama del sud, elegante e
patetica, Evelyn Stoker (Nicole Kidman, fermamente voluta nel film da Park
Chan-Wook), mettono in scena i principali fantasmi delle nevrosi contemporanee.
È bello riconoscere, mentre scivolano per le stanze di casa Stoker, gli
ectoplasmi di Lolita, Espiazione e Alice nel paese delle meraviglie mentre fuori dalla magione si
corrompe in un morso la fiaba teen
(che ritroveremo centrale in Horns). Tutto
è poi ammantato da una cupa e tragica attitudine noir che non può che ricordarci Welles, Wilder e Mankiewicz.
Nella
continua e sterile dissimulazione delle paure e delle nevrosi familiari India
sente rafforzarsi l’idea che il passato debba essere scavato, alla ricerca delle responsabilità di ognuno. Cresce in lei
il bisogno che sogni e miti siano divelti e messi a nudo senza compassione ma
con ferina e letale attenzione.
La
creatura che sorriderà in camera nel finale, con la chiusura del cerchio -
aperto nelle inquadrature iniziali sul campo di granturco - potrà pure
sembrarvi sovrannaturale, ma è un’impressione superficiale, destinata a durare
poco. La riconosciamo, invece, come la visione d’insieme che andavamo cercando,
il campo che finalmente si mostra per intero dopo che abbiamo imparato a
riconoscerne ogni particolare. Come sussurra India «Non sono fatta solo di me
stessa. Indosso la cintura di mio padre, stretta sulla camicia di mia madre. E
le scarpe di mio zio. Questa sono io. Proprio come un fiore non sceglie il
proprio colore noi non siamo responsabili di ciò che diventiamo. Solo dopo
averlo realizzato saremo liberi. E diventare adulti significa essere liberi».
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