domenica 23 dicembre 2012

I Goonies di Richard Donner (1985)


I Goonies è uno di quei film perfetti per un pomeriggio di festa. Solo a sentirlo nominare ti vengono subito in mente, divano e coperta, magari una cioccolata calda mentre guardi in TV - rigorosamente in VHS - un film come, Gremlins, gli Addams, GhostbustersLabyrinth - dove tutto è possibile, Piramide di pauraEdward Mani di forbiceE. T. l'extraterrestre o, appunto, I Goonies.
Alzi la mano chi non ricorda le battute principali di Data (Jonathan Ke Quan), Mikey (Sean Astin), Brandon (Josh Brolin) e gli altri ragazzi di Astoria durante le loro avventure alla ricerca del tesoro dimenticato di Willy l’Orbo. I Goonies racconta infatti delle peripezie dei giovani goonies (dal nome del quartiere Goondocks) alla ricerca di un modo per salvare la casa di Mikey, il cui padre archeologo è costretto a cedere ad alcuni spietati imprenditori, intenzionati a costruirvi un campo da golf. Tra una sortita in soffitta e un inseguimento sotterraneo con la banda di criminali italioti Fratelli (riferimento pulp che si inserisce perfettamente all'interno dell’avventura pop-picaresca elaborata da Steven SpielbergChris Columbus) i giovani protagonisti giungeranno infine alla grotta dove è custodita la nave pirata di Willy l’Orbo - ribattezzato dal giovane Mikey “il primo goonie” - che solo nel finale liberatorio troverà il modo di tornare a solcare le acque fra le urla di giubilo dei ragazzi di Astoria.
Il film - un vero feticcio per la generazione cresciuta negli Ottanta - mescola racconto suburbano (bellissimo il frammento in cui quel furbastro di Mouth traduce alla nuova governate ispanica di casa Walsh istruzioni tutte sue col beneplacito della svampita mamma di Mikey), avventura à la Indiana Jones (prove da superare, scenografie posticce, collaborazione) e weltanschauung pop per tutti: il giovane asmatico Mikey che butterà via l’inalatore nel finale, il “sotto007″ Data di origini orientali, Brandon il fratellone di Mikey, il cicciottello e spassosissimo Chunk, le “chicks” Andy e Stef a cui si unirà presto anche il deforme e forzuto Sloth Fratelli. L'intertestualità del film attinge continuamente dal mare magnum della popular culture: dal cameo di Cindy Lauper (che canta il tema del film Goonies R Good Enough) ai continui riferimenti a diversi cult movies come Gremlins, 007, Indiana Jones e ai generi hard boiled e fantastico.

In definitiva un passaggio obbligato durante le feste, magari al posto di uno di quei cinepanettoni indigesti e ricchi di grassi idrogenati che fanno tanto male alla salute.


martedì 18 dicembre 2012

Nowhere di Gregg Araki (1997)


Una Los Angeles dai colori fluo, una vasta landa, arida, desolata, glitterata, riempita solo di vuoto e morte. Insomma il luogo ideale dove ambientare l’ultimo capitolo della Teenage Apocalypse Trilogy di Gregg Araki. L’apocalisse è deflagrata in silenzio, come una scellerata natività si è consumata al freddo e al gelo, di notte, in un capannone. All'umanità non resta che continuare a vivere in attesa del «rapture» (già annunciato da uno dei cartelli di Doom Generation), in cui essa ascenderà al cielo e Cristo tornerà sulla terra. Una speranza consolatoria per un’umanità ormai condannata. Basta guardarsi intorno. I connotati del reale sono mutati, distorti, le camere dei nostri teenager sono delle vere e proprie installazioni situazioniste, modellate sulle ossessioni, sulle paure e i desideri di coloro che le abitano. L’orrore deflagra in silenzio mentre una sensazione millenaristica, sempre più oppressiva sembra attanagliare tutti i protagonisti, anche quelli più disinibiti come Lucifer, o le leggendarie mistress Kozy e Kriss (Debi Mazar e Chiara Mastroianni). Siamo insomma in una «puntata di Beverly Hills 90210 in acido» (come ha definito Nowhere lo stesso Gregg Araki). Un luogo in cui nonostante la condanna – presente sin dall'inizio della pellicola nelle parole di Dark (James Duval) – si vivono le prime cotte, le prime esperienze sessuali, i primi goffi tentativi di approccio. Solo che qui si tratta di spanking con motociclisti violenti, sesso orale con una pralina di cioccolato, pratiche BDSM con tanto di chiave in inglese e violenza sessuale praticate dal teen idol di turno (avete mai visto Baywatch?). Araki costruisce la pellicola esattamente come una puntata di un teen drama: gli eventi ripercorrono una giornata, dalla colazione nella locale tavola calda - un «Peach Pit» che ha ritinteggiato di nero le pareti diventando «The Hole», il luogo ideale per divorare una torta con le amiche prima della seduta di vomito in bagno – fino ai giochi sotto ecstasy (Ecstasy Generation è uno dei titoli del film) per arrivare alla festa segreta, il Jujyfruit Party, in cui il meglio della società postumana si ritrova sulle note di Trash dei Suede, per celebrare l’apocalisse in un’ultima pantagruelica, sempre simbolica, cornucopia di sangue, orrore e violenza.

lunedì 17 dicembre 2012

Gremlins di Joe Dante (1984)


Si avvicinano le vacanze natalizie, con il suo seguito di riti e tradizioni che aspettano solo di essere celebrate. Questo è il periodo giusto in cui recuperare quelle pellicole, che magari si sono viste da piccoli, in quelle mattine fredde, sotto le coperte o sul divano, rigorosamente ancora in pigiama. Pellicole come i Goonies, Ghostbusters la saga di Indiana Jones, gli AddamsLabyrinth - dove tutto è possibileEdward Mani di forbice, Piramide di pauraE. T. l'extraterrestre o, come nel nostro caso, Gremlins. Alzi la mano chi non ha amato il piccolo mogwai Gizmo, l’atmosfera sognante del Natale a Kingston Falls, la perfetta calibrazione fra orrore e commedia, le innumerevoli citazioni (da Flashdance a L’uomo che visse nel futuro) e la deriva comportamentale dei mostriciattoli verdi in giro per la città la notte di Natale.
La premiata ditta Steven Spielberg/ Chris Columbus/ Joe Dante realizza il film sull'idea che Walt Disney voleva trarre dall'omonimo libro per bambini di Roald Dahl, in cui dei mostriciattoli mettevano fuori uso degli aerei durante la seconda guerra mondiale. Il riferimento al romanzo di Dahl, nel film, è incarnato dalle parole del signor Futterman, che racconta di strani esseri malvagi che minano il funzionamento degli oggetti tecnologici. Columbus, alla scrittura, Spielberg come produttore esecutivo (intervenne sotto questa veste in vari momenti per preservare la comprensione e la coerenza del film) e Dante alla regia (scelto per il suo gusto in fatto di horror, con cui si era cimentato negli anni precedenti) realizzano una pellicola immortale, scientemente pop. Il film è un successo perché incarna la tendenza al ribaltamento, al gioco speculare fra idillio e orrore che è parte integrante dell’immaginario letterario e artistico statunitense. Un gioco in cui Norman Rockwell e H. P. Lovecraft si guardano nello stesso specchio e che trova nella provincia la sua dimensione ideale. I tre ragazzi d’oro del cinema pop si divertono come matti a citare e rievocare, mentre la signora Peltzer cucina con gli improbabili strumenti inventati dal marito, sospira guardando in TV La vita è meravigliosa mentre Billy (che pur lavorando in banca vuol diventare fumettista) e Gizmo, in mansarda, guardano L’invasione degli ultracorpi. Il citare il grande immaginario pop americano, già classico, non si ferma certo qui. Il continuo calibrare i toni della commedia e del racconto horror ne è un esempio, la situazione di emergenza e di isolamento in cui versa Kingston Falls poi è un altro stilema tipico della cultura americana (da Edgar Allan Poe in avanti, verso gli esperimenti di riazzeramento sociale di Stephen King). A ciò si unisce il roboante tocco picaresco tanto caro a Steven Spielberg, che rende Gremlins l’avventura che ancora oggi amiamo vedere. 

venerdì 14 dicembre 2012

Desperate Housewives: la quarta stagione (2007/2008)


La quarta stagione di Desperate Housewives sarà sicuramente ricordata come la serie della redenzione (ma a caro prezzo), il dolore e lo sconforto saturarono l’aria di Wisteria Lane molto presto e le geografie emotive delle protagoniste (già profondamente provate) subirono importanti cambiamenti.
Gabirelle Solis arrivò talmente vicino ai torni del noir da rimanerne quasi irrimediabilmente segnata, Susan Mayer fece per la prima volta i conti con una piena vita familiare (non si dice poi che il matrimonio sia la tomba dell’amore?) rischiando di finire più di una volta sul proverbiale “orlo di una crisi di nervi”, ampio spazio (e ne siamo davvero felici) venne dato al personaggio di Lynette Scavo (una sempre più brava Felicity Huffman) narrata nei rapporti con la sua famiglia originaria e con la sua nuova amica, la vicina dal cuore d’oro Karen McCluskey (Kathryn Joosten, che da qui in poi avrà lo spazio che si merita).
Dalla quarta stagione non ne escono bene invece i maschietti della serie, bistrattati, traditi (non l’avevamo già sentita?), quasi uccisi e malmenati nelle più disparate occasioni. Sempre più accessori, come l’immancabile filo di perle, filo di trucco e filo di tacco, dovranno arrendersi all'evidente influenza delle compagne sulle più importanti questioni della propria everyday life e non. Spicca sempre e comunque su tutti la verve comica di Kyle McLachlan, brillante e gradevole nel ruolo di Orson Odge, marito di Bree.
Questa stagione a causa dello sciopero degli sceneggiatori la serie vide i suoi episodi ridursi da i canonici 23/24 a 17 ma non sembra averne sofferto poi molto, considerato che il mistero di quest’anno, riguardante la nuova, amatissima casalinga Katherine Mayfair (Dana Delany) si dipana con il giusto ritmo all'interno della trama, amalgamandosi perfettamente con le altre storie del quartiere. Sembra quasi di essere tornati ai tempi della torbida storia di Mary Alice della prima stagione, abbiamo infatti un’adolescente all'oscuro del suo passato con contorno di genitori dissimulatori e senza scrupoli. Il tema della violenza domestica è, purtroppo, appena accennato. Avremmo forse preferito un maggiore approfondimento delle motivazioni dei personaggi, abbozzati nei flashback e un po’ statici nella rappresentazione contemporanea.

martedì 11 dicembre 2012

The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman (1975)


Stanno per cominciare le vacanze natalizie e ogni cinefilo che si rispetti ha in programma di rivedere per l'ennesima volta il cult assoluto The Rocky Horror Picture Show, pellicola di Jim Sharman tratta dalla fortunata pièce teatrale omonima di Richard O’Brien che nel film interpreta il maggiordomo Riff Raff. Come sappiamo, la pellicola ebbe una fortuna incredibile generando fenomeni massicci di fandom con proiezioni collettive nei cinema di tutto il mondo (soprattutto in prossimità di Halloween) dove gli spettatori costruivano veri e propri mini-cast truccandosi e vestendosi come i personaggi del film e recitando le battute insieme alla pellicola. Oggi, nell'era del web e dei social network la pellicola sembra vivere una nuova stagione di fortuna grazie a milioni di fan in tutto il mondo che si ritrovano su Twitter e Facebook per giocare con le battute del film, creare spin-off e parodie di ogni genere.
The Rocky Horror Picture Show è un vero invito a nozze per l’amante della cultura Avant-Pop, che qui si diverte a recuperare ogni citazione, ogni riferimento (anche periferico) presente nella scenografia, nel testo delle canzoni (solo nel brano introduttivo Science Fiction/Double Feature ce ne sono più di quaranta tra cinema, radio e letteratura) e persino nella locandina che riprende quella de Lo Squalo. Dall'austera coppia di American Gothic di Grant Wood (che ritroviamo prima personificati durante le scene iniziali poi riproposti più o meno velatamente durante tutto il film) per arrivare al salvagente del Titanic, dall'antenna della RKO (scalata da Rocky come l’Empire State Building in King Kong) a La creazione di Adamo di Michelangelo e, ovviamente, la Gioconda (allegoria di genere per eccellenza). In più il delirio visivo della pellicola rimanda continuamente ai genere più popolari: la science fiction e il gotico, il pulp e il picaresco.

lunedì 10 dicembre 2012

La magnifica orda di Alessandro Bertante (2012)



Il romanzo La magnifica orda che Alessandro Bertante pubblica per Il Saggiatore è un oggetto prezioso già nell’accezione fisica del termine, non a caso è pubblicato nella rinata collana de «Le Silerchie», che ritrova oggi vita e lustro grazie al lavoro d’eccellenza di Luca Formenton. Il romanzo è breve, cinquantatré pagine che suddividono la narrazione in tre movimenti assai evocativi. Bertante trascina il lettore prima in un’epica battaglia concettuale contro la «magnifica orda» proveniente da oriente, poi verso un colloquio di lavoro in una Milano da «fine impero», per arrivare alle parole oracolari, nel Parco Sempione del 1983, di un barbone che tiene con sé tre cani dai nomi simbolici: L’umanità, La bella e L’amore, in cui l’articolo determinativo in maiuscolo conferisce l’importanza che gli appellativi stessi sembrano aver perduto.
Al centro dei tre capitoli, delle tre diverse ambientazioni, c’è Alessio Slaviero (che possiede le catene della schiavitù intellettuale cui è ridotto l’occidente persino nel nome). Nel primo movimento Alessio è uno scrivano, cronista al fianco di Napoleone Bonaparte. Questi guida con ardore immemore l’armata occidentale contro l’invasione dell’orda proveniente da oriente. Orda, avvolta nel luccicore concettuale che la rende mito, organismo unico e indefesso, quindi «magnifico». Alessandro Bertante ha la capacità di rendere i brani di battaglia meravigliosi affreschi narrativi (ricordiamo Nina dei lupi) in cui il dettaglio prezioso si confronta con la maestosità emotiva di due schieramenti che si scontrano fra loro. La disfatta armata occidentale è composta, nel mito concettuale de La magnifica orda, dai macedoni di Alessandro Magno, Ivan il Terribile, Ottone I il grande e dal coraggioso e strenuo Gioacchino Murat, l’unico che riuscirà a puntare, folle e intoccabile verso il nulla al centro dell’orda, che Bertante ci racconta come «dorato» e «splendente». Conscio della sconfitta nel confronto con la magnifica orda, Napoleone invita Slaviero al sacrificio ultimo, ma come può uno scampolo dell’occidente che nemmeno partecipa alla battaglia e ha bisogno del continuo incitamento del suo generale per scrivere e raccontare, scegliere il sacrificio piuttosto che la fuga?

mercoledì 5 dicembre 2012

Doom Generation di Gregg Araki (1995)


L’avvento dell’apocalisse è vicino, a ben vedere essa è già avvenuta, consumandosi durante gli anni Novanta. Non a caso Doom Generation, film centrale della Teenage Apocalypse Trilogy di Gregg Araki, è aperto da un enorme rave party industrial immerso in una luce demoniaca e bidimensionale, in cui i teenager - abbandonato l’esame autoreferenziale e amniocentico-amicale di Totally Fucked Up e consci di essere ormai irrimediabilmente perduti - sono inghiottiti verso la fine (annunciata per strada piuttosto che in negozi di abbigliamento che avrebbero mandato in brodo di giuggiole John Waters e Van Smith). Non ne conoscono la portata ferina ma sanno già che sta arrivando, «mi sento come un castoro che soffoca nel buco del culo di Richard Gere» dirà Jordan, cercando di dare una forma al loro presagire. Non gli rimane che attraversare quel che resta della civiltà, un susseguirsi di non luoghi pop e kitsch, shop in cui paghi sempre 6,66$ (come vorrebbe la Bestia), cartellonistiche prosastiche, camere d’albergo situazioniste (che diverranno modello per i futuri ambienti abitati dai ragazzi di Nowhere), bar di cartapesta, negozi di dischi (immancabili in una trilogia che fa della colonna sonora un punto di forza poetico ed epocale) e disperati e lerci paesaggi di fine-mondo. Tutto intorno ai tre protagonisti è ormai «post», dalla fauna, che in Totally Fucked Up avevamo solo intravisto, e che qui accerchia i nostri sempre più pericolosamente, soffocandoli di un desiderio che è ossessione e che possiede caratteri a metà fra l’infantile e il sessuale, «voglio la mia babycake!» griderà loro uno di essi mentre i tre sgommano ancora una volta via nella notte.

martedì 4 dicembre 2012

John Carpenter e il genere western: Vampires (1998)


Perché non possiamo prendere Vampires – ricordato come l’unico successo al botteghino degli anni Novanta di John Carpenter – per quello che è? Non appena il regista di Essi vivono ha dichiarato che il film possiede la struttura orizzontale del genere western piuttosto che quella verticale del racconto gotico, qualcuno è corso ad accostare Vampires all'Opera di John Ford. Com'è possibile? Il western di Ford possiede delle implicazioni sociali e coloniali che hanno fatto storia. In Sentieri Selvaggi e soprattutto in Cavalcarono Insieme è centrale la riflessione sul razzismo, sull'integrazione e sulle implicazioni di uno scontro di civiltà, senza contare che stilisticamente e visivamente Ford possiede un forte senso pittorico e compositivo visibile in ogni singola inquadratura. Vampires è quanto di più lontano da Ford, è un film ferino, misogino, sessista, che mette in scena programmaticamente odio, rabbia e violenza, tanta violenza. Certamente Vampires è un western, ne possiede tutte le caratteristiche, dal paesaggio desertico e di frontiera all'idea del cavaliere errante, fino allo scontro al di fuori della legge, ma le declina secondo un paradigma che Carpenter stesso – in quel periodo in piena crisi nei confronti del cinema e del mestiere registico – costruisce sul nichilismo. È così che il film ottiene la sua peculiarità.
Sulla base di un racconto di John Steakley (Vampire$) che Carpenter giudica fiacco e poco adatto al suo progetto, il film racconta di Jack Crow (James Woods, scelto da Carpenter perché secondo il regista è «l’aggressività fatta persona»), un cacciatore di vampiri, perennemente incazzato, violento, vecchio e cattivo. Con lui una nutrita banda di polverosi guerriglieri con cui stana i vampiri (qui gerarchicamente suddivisi in adepti e maestri) bruciandoli alla luce del giorno. Uno di loro, il più antico, Jan Valek (Thomas Ian Griffith), sfugge al protocollo di Crow e in una delle scene più belle del film fa visita al Motel in mezzo al deserto in cui i cacciatori stanno festeggiando fra alcol e prostitute la ricca giornata di lavoro. La cornucopia gore è assicurata, a essa scampano solo Crow, Katrina una prostituta che è stata morsa da Valek (interpretata da un’allucinata Sheryl Lee) e solo un componente della squadra originale: Montoya (Daniel Baldwin). Questa gang di reietti dovrà vedersela con le origini cristiane di Valek che sembra aver a che fare con uno strano esorcismo operato dalla Santa Sede e andato male…

sabato 1 dicembre 2012

L'impero familiare delle tenebre future di Andrea Gentile (2012)


Sono il ritmo, la ripetizione a condurre e introdurre il lettore alla visione pluridimensionale, vorticosa e sincopata di Andrea Gentile in L’impero familiare delle tenebre future (Il Saggiatore). Un ritmo che investe la narrazione di un’aura che è stata ed è tipica della tradizione orale, un racconto mesmerizzante in cui trovano spazio la filastrocca e la canzone. È ancora il ritmo a produrre nel lettore una pulsatile sensazione di premonizione, millenaristica eppure personale, l’incombere di un apocalittico scontro fra bene e male. L’io narrante e femminile de «L’impero» è imprigionato in una serie di eventi che sono contenuti in una sensazione: «la nausea», che attanaglia e amplifica a ondate la sua ossessione e la sua dolorosa impotenza. Questi eventi che sono poi visioni affastellate prendono forma da Masserie di Cristo, un luogo mitico, in un sud necrotico, fatto di spazi metafisici, terra e aspra vegetazione, «infinitesimale paese in questo infinitesimale paese, che è Italia». Mentre monta l’angoscia della voce narrante, su tutti i televisori accesi si consuma, immobile ed ecumenica, l’agonia del Vicario di Cristo, di Papa R. Benché la modernità nella sua emanazione tecnologica rifiuti e chiuda all’io narrante le sue funzioni, i televisori continuano a trasmettere l’immagine di un pontefice già reliquia, nella sua agonia da Supremo, avvolto e costretto nella teatralità che la sua condizione gli impone. Una presenza televisiva che permea d’angoscia la ricerca ossessiva della madre, temuta morta nel tragitto casa-lavoro. La sensazione premonitrice, la nausea, che mette in moto il viaggio nella surrealtà mitica costruita da Andrea Gentile, porta l’io narrante a muoversi e attraversare continue visioni, «ti vedo» è l’intercalare mesmerizzante da lei utilizzato per alimentare la sua ossessione. Man mano che procede la narrazione, la realtà si diluisce nel mito mutando i suoi connotati più rassicuranti («Qui, ora, in questo batterio di mondo, la Storia mi appare sciolta nell'acido. Il mondo è una vasca che questo acido contiene?»). Il racconto leggendario prende forma attraverso l’errare, attraverso questa iperrealtà mitica e cangiante. Ci rendiamo presto conto però che l’epopea, il mito, si svolge nell'io narrante, è esso stesso l’impero familiare delle tenebre future.

martedì 27 novembre 2012

Pulp Fiction di Quentin Tarantino (1994)


Quentin Tarantino ha segnato più di una volta le istanze del cinema futuro - si pensi a Kill Bill e Bastardi senza gloria - ma con Pulp Fiction (1994) è riuscito a influenzare in maniera mai vista prima non solo le forme della cinematografia ma anche quelle della letteratura mondiale (da noi ne ha tracciato gli effetti Elisabetta Mondello nel suo saggio La giovane narrativa degli anni Novanta: cannibali e dintorni), della serialità e della musica (si consiglia la lettura della lunga e illuminante riflessione sul rock nel cinema di Tarantino proposta nel numero di agosto 2010 di «Rolling Stone Magazine»).
Scritta a quattro mani insieme a Roger Avary, Pulp Fiction, muove da alcune situazioni topiche dell’immaginario criminale più classico per stravolgerne i contorni portando al limite personaggi, situazioni e azioni. Con cura minuziosa e dedizione per i dettagli Tarantino materializza, inquadratura per inquadratura, il suo personale paradigma cinematografico tutto da declinare, un universo citazionistico, caleidoscopico, dove si incontrano Godard, Fellini, George Lucas, i film d'exploitation, il poliziottesco, la letteratura di consumo e ancora Scorsese, Elia Kazan e senza dubbio l'amattissimo Segio Leone. Con Pulp Fiction Tarantino dopo l’eleganza narrativa de Le Iene ragiona ancora sulla forma ricorrendo a un racconto frammentato (ma non franto), episodico e intertestuale.
La maggior parte del budget per Pulp Fiction fu speso per il cast stellare: John Travolta (che con il ruolo di Vincent Vega ritrovò caratura), Samuel L. Jackson (iconico), Tim Roth, Bruce Willis, l’immenso Harvey Keitel, Christopher Walken e lei, da allora musa di Quentin Tarantino (tra l’altro causa della fine della relazione del regista con Sofia Coppola), l’unica a poter indossare quel caschetto nero: Uma Thurman. Il suo volto divenne il brand del film: Uma appare nella locandina su di un letto, con una sigaretta in mano, un pulp magazine e una pistola accanto a lei. Dopo Pulp Fiction, Uma stringerà con Quentin un sodalizio amicale e creativo assai duraturo, collaborando persino al soggetto di Kill Bill, dove interpreta un altro ruolo topico, entrato nell'affollato e impermanente immaginario della cultura pop: la Sposa.

domenica 25 novembre 2012

Dracula 3D di Dario Argento (2012)


Dopo l'uscita di Giallo ci eravamo davvero rassegnati a dire addio a Dario Argento. Restava l’affetto spropositato nei suoi confronti, nei confronti della sua Opera (che nel mio caso raggiunge la vera e propria venerazione) e della sua creatura in carne, ossa e tegumento: Asia Argento. Dopo le prime notizie sul progetto Dracula mi sono chiesto il perché Dario Argento abbia voluto confrontarsi con un immaginario oggi estremamente saturo e inflazionato come quello delle zannute creature della notte. Perché farlo con precedenti - attenendoci alla sola contemporaneità - dalle dimensioni artistiche di un Moloch come quello di Francis Ford Coppola? La catastrofe sembrava annunciata: la pellicola nonostante sia ben girata risulta telefonatissima, non ha alcun guizzo tensivo figuriamoci se orrorifico. Mi è bastato andare a vederlo per capire che, nonostante ciò, Dracula 3D è un vero capolavoro. Lo è perché è un’opera camp come non se ne vedevano da un pezzo. Se osservato dalla giusta prospettiva – che potremmo battezzare come il senso di Dario per il kitschDracula di Dario Argento è una visione imperdibile e spassosissima. C’è di più, la scelta del camp applicata a un genere ormai mainstream, normalizzato, persino conservatore, come quello dei vampiri (si pensi alla saga di Twilight dove questi poveri disgraziati da sempre simbolo di pansessualità e ludibrio praticano la castità, non desiderano altro che il matrimonio e mettono alla luce paffute creature da reclame) diventa una scelta programmatica. Il camp è, com'è sempre stato dai tempi in cui Sontag lo teorizzò, la via d’uscita, il salvacondotto per una visione moderna e libera.

sabato 24 novembre 2012

Totally Fucked Up di Gregg Araki (1993)


Ci sono, occasionalmente, registi che sono in grado di rappresentare la realtà sociale e culturale che li ha prodotti, diventando, al di là delle proprie prerogative e i propri stilemi, dei Grandi Narratori Epocali. Questo manipolo di filmaker imprigiona l’essenza di un’epoca, per nostre future visioni, condivisioni e immedesimazioni. Tra questi vi è certamente il losangelino Gregg Araki che con la sua TeenageApocalypse Trilogy ha messo in scena la sensibilità insicura, pop, malinconica e possibilista dell’intero decennio degli anni Novanta. La trilogia apre nel 1993 con Totally Fucked Up, in cui Araki muove il suo sguardo su una Los Angeles dai grandi formati, dove ogni non-luogo è al servizio della narrazione Avant-Pop costruita per i giovani protagonisti. Lavanderie, car wash, stazioni di servizio, negozi di dischi e ovviamente supermarket (paradigma centrale e infernale della rappresentazione narrativa e filmica degli anni Novanta), vengono attraversati, inglobano e divorano i personaggi che, serafici, sembrano ignorare le enormi cartellonistiche pubblicitarie (che fanno del film un vero happening pop art) e gli spazi vacui e vuoti, sporadicamente attraversati da assurdi individui ormai non più umani. Gregg Araki utilizza tutto questo splendido materiale pop, luccicante e di facile consumo per manipolarlo, esplorarlo e trasformarlo in citazioni e riferimenti continui che completano la narrazione.
Al centro dell’affresco Avant-Pop di Gregg Araki c’è una famiglia customizzata che sembra derivare dall’idea di Kitchen di Banana Yoshimoto (1988). Un gruppo di adolescenti omosessuali, tipizzati, che muovono, ognuno a suo modo sperimentando, lo sguardo, i sensi e i corpi tesi, in un ultimo sprazzo vitalistico e sensuale, giusto prima del declino annunciato. Ci sono le deliziose Patricia e Michele, l’unica coppia tradizionale del gruppo, materne, vitali e centrali per la famiglia customizzata; Andy lo slacker dark e ipersensibile che avverte già l’orrore che deflagrerà, fragilissimo nelle fattezze dell’amato James Duval (che Araki vorrà al centro delle successive pellicole della trilogia Doom Generation e Nowhere), Tommy (Roko Belic, qui sbarbatellissimo) che vive ancora con mammà, prototipo teen cui è destinato il compito di conservare ancora delle illusioni; Steven il fedifrago autore delle testimonianze e delle interviste che andranno a costituire lo scheletro autoreferenziale del film e infine Deric vittima di violenza perché omosessuale. Topica la narrazione dell’aggressione a Deric e le reazioni della famiglia customizzata, un modus operandi che segnerà la strada per il New Queer Cinema.  

domenica 18 novembre 2012

INLAND EMPIRE - L'impero della mente di David Lynch (2006)


Diciamolo subito, è impossibile, oltre che sterile, cercare di catalogare le suggestioni che INLAND EMPIRE, l’ultimo capolavoro realizzato da David Lynch nel 2006, ci riserva. Sono esse figlie di un automatismo onirico atto ad allargare la capacità cognitiva e interpretativa dell’oggetto cinematografico. Non a caso INLAND EMPIRE segue il raffinato Mulholland Drive, con cui condivide la cornice metacinematografica (dai contorni soffusi, sfumati, sempre in penombra), intesa come paradigma del raggiungimento di universi “altri”, tasselli, schegge, frammenti che inducono lo spettatore ad abbandonare ancora una volta i rassicuranti concetti di trama e intreccio per un viaggio “poli-emozionale”, il più delle volte impensabile in una sala cinematografica.
La pellicola si apre sull'immagine di una puntina di grammofono su un vinile, una voce (quella dello stesso Lynch) fa un annuncio in stile radiofonico introducendo i concetti di serialità e memoria, nonché di riproducibilità dell’opera massmediale. Non ci sorprende poi l’ouverture europea con i volti edulcorati che vede una prostituta senza memoria insieme a un uomo. La prostituta è una figura psicoantropologica (che, come ci insegna Benjamin, insieme al dandy e al flaneur rappresenta e descrive la modernità) fragile, esposta e sottomessa. «A woman in trouble» recita il sottotitolo originale, diventando interfaccia della rappresentazione del femminile, dilaniato da appetiti ferini, imprigionato, sottomesso nei lascivi ed eleganti frammenti polacchi piuttosto che nell'ambiente familiare suburbano e decisamente orrorifico (potrebbe essere altrimenti?). È inoltre chiaro sin da subito che INLAND EMPIRE si pone come perno dell’intera opera lynchiana: i concetti di colpa e segreto che nella rappresentazione della sitcom dada Rabbits sembra voler richiamare il dubbio massmediatico «chi ha ucciso Laura Palmer?»; la presenza di Laura Dern (Velluto Blu, Cuore Selvaggio), la cui immagine è qui riprodotta e incarnata in decine di personaggi che si avvicendano sul suo volto; il concetto di memoria franto e perduto nei meandri della parola (Hotel Room); la dualità speculare incentrata su una coppia di donne (stilema poetico assai amato da Lynch, ricordiamo Velluto Blu, Strade Perdute, Mulholland Drive): Laura Dern/Karolina Gruszka, Laura Dern/Julia Ormond; persino l’antesignano (nei confronti di questa pellicola) cortometraggio in digitale Darkened Room. È evidente qui il desiderio di Lynch di dialogare con la sua stessa opera, omaggiata persino nel finale réunion sui titoli di coda. «Bellooo» esclamerà la donna con la gamba amputata (un altro riferimento al leggendario corto The Amputee?) mentre il pantheon lynchiano si coagula sulle note di Sinner man di Nina Simone.

sabato 17 novembre 2012

Nota a margine sulla quinta e ultima stagione di Damages



Quello cui una serie come Damages deve pensare nella sua incarnazione finale (in questo caso dieci episodi prodotti da Audience Network) è completare il tratteggio dei suoi protagonisti e solo in maniera derivativa risolvere l’intreccio. Quest'ultimo amplificato sufficientemente dal caso di quest’anno dedicato all’hacking e all’informazione ai giorni di Wikileaks, con protagonista Ryan Phillippe nei panni del disturbato ed egocentrico hacker e guru Channing McClaren. Le ultime due stagioni del serial ci hanno proposto intrecci narrativi meno complessi (ma non meno avvincenti) puntando maggiormente sulla costruzione endemica del carattere di Ellen Parsons (Rose Byrne) per opera di Patty Hewes (Glenn Close). I silenzi, gli sguardi sull’orrore immateriale che Patty punta spesso di fronte a sé durante la quarta stagione si fanno, ora, sempre più presenti e ingombranti. Essi annunciano, nell’incertezza affatto simulata, il timore di Patty nei confronti della realizzazione del bildungsroman scritto per Ellen. 
Facciamo un passo indietro. Una parabola ascendente ha visto Patty astrarsi dalla «terra» - vituperata e vilipesa fino alla fine, nel confronto col padre e col figlio Michael - per maneggiare l’astrazione delle azioni, della parola e degli intenti. Un percorso che ha allontanato Patty dal contatto materiale e che le ha permesso di agire con questi strumenti sulla carne pur rimanendole lontana. Questo anche quando gli affetti (l’amico fragile Ray Fiske, il pari Tom Shayes e zio Pete) sono caduti, umiliati e offesi, ai suoi piedi. Non vi è mai odore di morgue intorno a Patty, eppure dovrebbe esserci, non v’è neppure contatto salvifico, eppure una bambina è l’unica cosa rimastale di una famiglia naufragata in tregenda. Patty muove allora l’ultimo passo della scalata alla realtà non-umana che ha scelto per sé. Lo fa in particolare nello sguardo e nella parola senza remissione che annichiliscono il padre sul letto di morte. Da lì, l’attitudine umana e carnale alla maternità diviene a sua volta un’idea, una prerogativa, possiamo dire un’istanza, che veste agli occhi di Patty i panni alteri dell’eredità. Ellen è quanto di più vi si sia avvicinato e Patty deve compiere un’ultima «mossa» nei confronti della sua protégé (che non riuscirà mai a percepire se stessa come antagonista) per allontanarla dalle facezie della sua umanità. Vi riuscirà. L’agnizione finale, come sempre sul molo, vede Patty impegnata a mostrare l’inutilità ontologica del terreno, della carne, del «sangue» che, serafica, segnala sulle mani di entrambe. L’appendice, con l’incontro (edulcorato) tra le due donne, serve solo a mettere in scena l’ultimo moto umano di Patty, il dubbio. Lo vediamo attraversare il suo volto prima dell’ultimo rifiuto, quello della propria casa, in favore del ritorno nell’empireo lavorativo. 

domenica 11 novembre 2012

Absurd encounter with fear di David Lynch (1967)


Abbiamo già parlato dei corti di David Lynch, raccolti da Raro Video in cofanetto insieme a Eraserhead e Dumbland, oggi invece recuperiamo uno dei primi lavori realizzati da Lynch (visibile integralmente alla fine del post), nel 1967 (fra Six Figures Getting Sick e The Alphabet), lo straniante Absurd encounter with fear girato in una sola scena, con due protagonisti interpretati dall’amico Jack Fisk e dalla prima moglie di Lynch Peggy Reavey. L’esperimento è un esempio tra i più completi di cinema surrealista, in cui gioca un ruolo chiave la colonna sonora, tensiva e assai drammatica. Siamo, en plein air, in un campo dove una figura grottesca e traballante, dalla pelle di colore blu, si avvicina con aria minacciosa a una fanciulla accucciata fra le erbacce. Nonostante sia giorno, si tratta di una vera e propria apparizione (come quelle ricercate dai surrealisti nelle sale cinematografiche o nei boulevard più bui) che sovrasta la fragile e innocente creatura. I temi della sessualità, delle imposizioni e dello sguardo innocente violato dalle brutture adulte deflagrano quando la creatura usa le sue mani blu per aprire la cerniera dei pantaloni da cui inizia a tir fuori dei fiori di campo. Lynch anticipa qui la sua riflessione sulle minacce all’ispirazione e alla creazione artistica che saranno poi ben rappresentante in The Grandmother.

 L’arte, qui probabilmente nelle impalpabili vesti dell’ispirazione, è sovrastata e violata dalla sessualità più grottesca e ordinaria, finché lo sguardo salvifico dell’occhio cinematografico non pone fine alla sofferenza e alla paura. Absurd encounter with fear (recuperabile nel prezioso The Lime Green Set insieme a Fictitious Anacin commercial) è un breve ma illuminante esperimento che dice già molto su quella che sarà la magnifica visione surrealista del cinema di David Lynch.

sabato 10 novembre 2012

Un raffinato libro sul cattivo gusto: Shock di John Waters (1981)


Signore e signori benvenuti a Baltimora, Maryland. Datevi un’occhiata in giro, la città vanta le acconciature più vertiginose, la gente più strana che potreste incontrare e un sano, elevato, numero di crimini! Prego, lor signori, venite a prendere l’unica guida che vale la pena di consultare della città, Shock del nostro amato John Waters. Oh, fate attenzione ai ratti lì vicino al bancone!  La signora Mac, la nostra «regina dei ratti» deve ancora passare per la disinfestazione annuale.
Sì, amici prendiamo la nostra copia di Shock (in traduzione italiana la si trova per Edizioni Lindau, con una deliziosa prefazione di Vito Zagarrio), a metà fra autobiografia, manuale how-to (su come coltivare, per esempio, la propria passione per i delitti più macabri e i relativi processi mediatici), guida nell'immaginario della città di Baltimora e ode ai propri miti (Russ Meyer e Herschell Gordon Lewis). Il regista incoronato «re del vomito» (la cui fenomenologia Waters ricollega direttamente a Bergman) e del cattivo gusto, dimostra qui le sue eccellenti doti di scrittore. Brillante, elegante e diretta, la scrittura di Waters ci introduce alla sua personale visione, cinematografica e sociale. Pare che sua madre dopo aver letto la bozza di Shock (titolo originale Shock Value. A Tasteful Book About Bad Taste) abbia esclamato «Sapevo che avevi dei problemi da ragazzo ma non avevo idea che fossero così gravi». Noi invece si va in brodo di giuggiole a leggere la genesi dei Dreamlanders, la terribile gang con cui Waters realizzò le sue prime, ormai leggendarie pellicole. Il rapporto con la faccia d’angelo Mary Vivian Pearce (per gli amici Bonnie), la terribile ed elegantissima Maelcum Soul, Mink Stole (a cui Waters riconosce, fra tutti, le doti migliori nella recitazione), lo straniante David Lochary la cui morte segnerà il percorso dei Dreamlanders, e lei «la donna più bella del mondo», Divine che Waters racconta senza filtri, dalle vessazioni cui era costretto da adolescente, ai lussuosi party organizzati a spese di sgomenti genitori, fino all'acclamazione dell’icona underground (poi mainstream) con il volto creato ad hoc da Van Smith. Waters racconta, sorridendo sotto i baffetti à la Douglas Fairbanks, di come la condizione borghese e suburbana della sua famiglia (come si fa a non amare genitori simili, tratteggiati in modo così eccellente da John Waters?) abbia generato in lui sin da piccolo l’impulso verso il ribaltamento totale, dapprima estetico, poi sociale. Waters, serafico, dichiara che tutti da giovani devono compiere qualcosa al di fuori della legge (badate bene, DA GIOVANI), azioni che rappresentano le tappe di un sano percorso di vita. Un percorso che è quello di Waters stesso e dei Dreamland, dai corti alle prime sconvolgenti pellicole (qui raccontate in preziosi e imperdibili behind the scenes), Mondo Trasho, Multiple Maniacs, senza dialoghi sincronizzati ma con meravigliose colonne sonore rock’n roll, Pink Flamingos, definito dallo stesso regista come un punto di non ritorno, Female Trouble, un vero manifesto estetico (l’immagine serigrafata di Divine con il taglio alla moicana finì dritta dritta sulle t-shirt dei punk londinesi) e Desperate Living in cui Waters coinvolse la strabordante Liz Renay.

lunedì 5 novembre 2012

Desperate Housewives: la terza stagione (2006/2007)


La terza stagione di Desperate Housewives segna il definitivo ingresso del personaggio, ormai cult, di Orson Hodge (quanto ci rese felici vedere ancora una volta Kyle McLachlan sul piccolo schermo!). Conclusa la vicenda degli Applewhite, dal prologo della stagione impariamo a seguire Orson, in casa della prima moglie, Alma, con la quale condivide l’amore per l’ordine e la pulizia maniacale (non vi ricorda nessuno?). Come sempre, qualcosa si nasconde dietro le staccionate della zona suburbana e presto macchie di sangue potrebbero sporcare i lindi tappeti e la mobilia in rovere di casa Hodge. Solo ritornando a Wisteria Lane però potremmo osservare il dipanarsi della vicenda. Chi è veramente Orson e perché tenta di nascondere la madre, dandola per incapace di intendere e volere?
Non preoccupatevi, dalla midseason in poi ritroveremo la scellerata genitrice, Gloria Hodge (Una sorta di Medea postmoderna con il volto spigoloso di Dixie Carter) in piena forma e pronta a riportare le cose allo status iniziale. Non importa se questo comporterà qualche problema (affatto smacchiabile) alla nostra amata Bree. Mentre Gabrielle sta per sposare un politico senza scrupoli e Susan pare aver dimenticato Mike, Lynette dovrà affrontare la presenza della ritrovata figliastra di quel beone di suo marito Tom. L’episodio Bang (3×07), complice una deliziosa cornice da pulp story, ricreerà il microcosmo familiare sconnesso degli Scavo, in unica unità di luogo, causa un maniaco con pistola che tiene d’assedio il locale supermarket. Alla fine dell’episodio molte cose cambieranno e Lynette presto dovrà imparare a temere la sua nuova piccola e disturbata figliastra Kayla, pronta a recuperare il rapporto con suo padre…

Nel finale di stagione, dopo aver risolto il giallo degli Hodge, troveremo le nostre casalinghe sommerse dalle menzogne, quelle del nuovo marito di Gabrielle, interessato solo ai voti dei latinoamericani, quelle di Bree intenta a mascherare un evidente segreto riguardante la figlia Danielle, quelle di Carlos a Edie, ancora innamorato della sua ex-moglie (che durante la stagione avrà anche una storia sui toni comedy e camp nientemeno che con un ricco e cresciuto Zach Young!) e quelle delle stessa Edie che ci lascerà, negli ultimi minuti della season finale, con un cappio alla gola e una sedia pronta a sbattere sul pavimento.

martedì 30 ottobre 2012

Le iene di Quentin Tarantino (1992)

Chi non ricorda l’inizio del cult movie Le iene in cui Mr. Brown fa l’esegesi del brano Like a virgin di Madonna? Poi, chi non ha amato alla follia i dialoghi serrati fra i protagonisti, la coolness senza tempo del completo nero-camicia-bianca-cravatta nera dei protagonisti e chi, infine, non ricorda la scena in cui il disturbatissimo Mr. Blonde taglia un orecchio a Marvin? Domande retoriche, queste, perché a distanza di anni – la pellicola uscì nel lontano e postmoderno 1992 – Le iene continua a rappresentare per la critica cinematografica (quanto per quella letteraria) un cardine imprescindibile per la comprensione di un certo modo di fare cinema: Avant-pop, creativo, dalla solida base formale e immaginifica.
Quentin Tarantino debutta nel cinema realizzando la sua versione di Rapina a mano armata, in cui la narrazione ruota intorno a un colpo (che non vedremo mai) e agli effetti di questo su un gruppo di malviventi in black suit. Attorno all'evento fuori campo Tarantino costruisce un universo composito, deliziosamente pop in cui il crimine incontra la everyday life suburbana e musica e cinema si diluiscono in dialoghi, azioni e intenzioni. Le iene – già prima di Pulp Fiction – contiene stilemi e direzioni che faranno letteralmente scuola per tanto cinema (e ripetiamo narrativa) a venire, per la verità non sempre con risultati all'altezza del modello: humor nero, decostruzione del tempo del racconto, riferimenti alla popular culture, al noir inteso come genere e immaginario, alla Nouvelle Vague (principalmente Godard).

Nota particolare merita la citazione - mai fine a stessa ma letteralmente venerata - che qui si materializza in un continuo gioco alla riedizione: i completi neri richiamano The Blues Brothers e il finale di A better Tomorrow II di John Woo, la scena più violenta del film in cui lo psicopatico Mr.Blonde taglia l’orecchio a Marvin richiama sia Milano Calibro 9 di Fernando di Leo che The Shogun Assassin di Kinji Fukasaku ma moltissimi altri riferimenti possono essere recuperati - e lo sono stati - da cinefili e appassionati sparsi per tutto il globo.
Le iene – amatissimo in Europa e riconosciuto come pellicola rivoluzionaria al Sundance Film Festival – sancisce un nuovo inizio, “un domani migliore” per l’arte cinematografica. Oggi, dopo Bastardi senza gloria, possiamo ben dire che Quentin Tarantino continua – con successo e inventiva – a mostrare le nuove direzioni del cinema migliore.

giovedì 25 ottobre 2012

Desperate Housewives: la seconda stagione (2005/2006)


Ne sono convinto, è stata la seconda stagione di Desperate Housewives a consacrare il serial nell'empireo dell’immaginario pop televisivo di culto. Se la prima stagione ci aveva presentato uno scenario post Peyton Place, cartonato, a celare orribili segreti e piccole imbarazzanti manie familiari, la seconda stagione si spinge più in là sul territorio dei generi. Gioca con gli stilemi del pulp e del thriller piuttosto che con i toni del racconto rosa e della commedia.
Un anno è passato dalla morte di Mary Alice e a Wisteria Lane sono arrivati dei nuovi vicini: i perfetti e autoreferenziali Applewhite, Betty (Alfre Woodard), una black mama versione upper class e suo figlio Matthew (Mehcad Brooks). Ma a Wisteria Lane si sa, c’è dell’orrore dietro ogni steccato e presto le nostre casalinghe inizieranno ad avvertire strani rumori provenire dalla cantina dei nuovi e cordiali vicini: catene strusciate sul pavimento, tonfi, lo scudiscio del cuoio sulla pelle e - ovviamente - urla soffocate. Magistrale la scena in cui Betty cerca di mascherare i rumori “molesti” suonando una marcia al pianoforte e quanto vorremmo rivedere ancora i suoi sguardi enigmatici e frustrati nei confronti della cordialità di Bree, Susan e Lynette. Man mano che la serie si snoda lungo i suoi ventiquattro episodi faremo la conoscenza del terzo “coinquilino” di casa Applewhite: una sorta di gobbo di Notre Dame dagli insani appetiti che, come nella migliore tradizione slasher, metterà in pericolo i giovani e pruriginosi figlioli di Wisteria Lane.

mercoledì 24 ottobre 2012

Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino (2009)


Ha ragione Andrea “Contenebbia” Bruni quando scrive che con il suo ultimo capolavoro Bastardi senza gloria Quentin Tarantino sta indicandoci la via del “cinema che verrà”. Una strada fatta di impegno e profonda fede nell'immenso potere del cinema (qui la citazione interna, in parte estetica, al cinema di Goebbles non è una coincidenza… ma poi cosa lo è in un film di Tarantino?), di allegoria, di sovversione dei generi e immaginifica ricostruzione attraverso il what if di matrice fumettistica (da Topolino alla Marvel).
Minuziosa l’opera di costruzione operata da Tarantino, brani, quasi dei “bocconi” di informazioni vengono introdotte con mano sapiente per creare un universo alternativo e riconoscibile, pop e ricercato, che va dall'interrogatorio iniziale di Hans Landa (Christoph Waltz) agli scorci parigini che avvolgono la sdrucita ed elegantissima figura di Shosanna (Mélanie Laurent) per arrivare all'ormai consolidato strumento del flashback (celebrato ampiamente in Kill Bill è ormai un vero e proprio stilema del cinema di Tarantino). Anche laddove sono presenti dei “buchi” essi vengono percepiti dallo spettatore come avvertimento dello sconfinato potenziale narrativo della storia (o delle infinite storie): il salto temporale dalla corsa di Shosanna bambina alla sua nuova identità francese o l’introduzione in medias res del personaggio-chiave di Bridget von Hammersmark (Diane Kruger), tratteggiata in poche e materiche pennellate che ne fanno a tutti gli effetti una protagonista centrale. Non bisogna poi dimenticare le contraddizioni, le sembianze ossimoriche (perciò ricche di potenziale immaginifico) di personaggi e contesti in grado di immergere lo spettatore in un mondo alternativo e deliziosamente pop, rendendo il materiale narrativo iconico e incancellabile, vero e proprio elemento capace di entrare di diritto nell'immaginario popolare: “The Bear Jew” (Eli Roth) e la sua mazza da baseball, lo psicopatico quiescente Hugo Stiglitz ( Til Schweiger) e la stessa Shosanna.

giovedì 18 ottobre 2012

Socìetas Raffaello Sanzio: Tragedia Endogonidia (2004)


di Gianluca Stirpe

Nata dalla collaborazione triangolare tra la Socìetas Raffaello Sanzio, il musicista Scott Gibbons e i registi Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, la Tragedia Endogonidia, passata incolume nell’assordante silenzio della cul-tura italiana, rappresenta il felice esito di una ricerca a tutto campo che spazia, senza difficoltà, dal teatro all’installazione, dal minimalismo all’artifizio retorico complesso.
La Socìetas dalla sua fondazione a oggi ha affrontato un percorso di ricerca sul linguaggio della figura, dalla voce alla parola, dal corpo all’immagine, tale da imporre la compagnia come fonte d’invidia del mondo verso l’Italia.
Al di là di questa microtirata retorica, l’opera rappresenta una delle punte teoriche più interessanti della compagnia. Già nel titolo essa richiama, mettendo in campo degli esseri microcellulari apparentemente quasi inutili e capaci di ripetersi senza fine, una struttura radiale che collega ogni scena all’altra.
Nel caso della Socìetas Raffaello Sanzio non è opportuno parlare di installazione, quanto di rappresentazione iconica, o meglio, presentazione iconica i cui elementi così fortemente semantici debordano oltre i limiti del palco e colano direttamente nello spettatore. L’uomo che silenzioso anima le scene, che parla appena, fatto salvo in alcuni spettacoli, sfiora l’indicibile, parla una lingua antica, assente, appena per eletti, come l’anziano, o meglio, il vecchio che indossa i paramenti in lingua ebraica, che s’impone come l’aleph sulle labbra sanguinanti dell’uomo prossimo all’omega della propria esistenza.
L’uomo di Castellucci, è un uomo rinchiuso nel giogo della punizione, di un pentimento tanto emancipato, che così mostrato pare cadere in una sorta di feticismo smaterializzato, in un gioco delle parti, di dominanza e dominato, che più che imposto sembra voluto e volontario, come a scacciare una sorta di peccato originale che proprio perché scacciato diviene ancor più peccato e onta. Non c’è dio in questo mondo, e non serve nemmeno la redenzione, il mondo sulla scena è una bolla alla rovescia, il frutto di una rappresentazione di matematica immaginaria dalle imprecisate, forse nemmeno finite, dimensioni, ognuna per ogni sfumatura dell’essenza umana che rappresenta.
Tanta astrazione, tanto vigore teorico e teoretico si concretizza, paradossalmente, in una corporeità che pretende il proprio spazio in scena, che non necessita di mediazioni e addolcimenti. È lì di fronte lo sguardo, punto, e come il respiro, l’occhio chiede la sua aria. Questo corpo di-schiude tutta la sua potenza nella carne, nella fisicità degli attori, ridotti a un’essenza minima e anonima, così facilmente sostituibile da poter chiamare in causa anche lo spettatore.

mercoledì 17 ottobre 2012

Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma (1976)


Come spesso accade con la materia narrativa di Stephen King utilizzata al cinema anche Carrie, leggendario romanzo breve del 1974, è assorbito e metabolizzato nella visione del regista che si prende l’onere di portarla sul grande schermo. In questo caso Brian De Palma che materializza la storia della giovane esper di Chamberlain secondo le proprie ossessioni, i propri modelli e stilemi. Carrie - Lo sguardo di Satana è un film deliziosamente agghiacciante, nella sua composizione di tensione, paura e carica visiva. Già dalle prime sequenze De Palma ci introduce, con la lentezza tensiva che è ormai la sua firma, al primo grande trauma della giovane Carrie (Sissy Spacek): il suo scoprirsi donna in quel rivolo di sangue che gli scivola sulla coscia sotto la doccia, arriva dopo il piano sequenza che attraversa lo spogliatoio della palestra dove le altre ragazze vivono con disinvoltura la propria femminilità. È un passaggio chiave, scatenante e terrificante perché non annunciato, reso traumatico dalla pioggia di assorbenti che le compagne di classe le gettano addosso deridendola. De Palma, porta lo spettatore ad abbandonare il suo status per renderlo partecipe, facendo coincidere il suo sguardo con quello dell’atterrita giovane donna sotto la doccia. È questo a rendere Carrie – Lo sguardo di Satana una felice trasposizione del romanzo di King. Nelle istanze del re del brivido (dichiarate esplicitamente in On writing) Carrie è un personaggio le cui caratteristiche portano a un’identificazione da parte del lettore in maniera ecumenica, «a guardar bene, tutti abbiamo conosciuto (o siamo stati) Carrie da giovani.», Brian De Palma non perde tempo a ricordarcelo.
Da questo momento in poi è un focalizzare – secondo la lezione hitchcockiana – sul rapporto morboso fra Carrie e la mefistofelica e alienata genitrice Margaret White (Piper Laurie). Quest’ultima cela sotto la sua follia fondamentalista un trauma d’abbandono e riversa nero rancore sulle esili membra della figlia (che nel romanzo è invece grassa) con le sacre scritture usate come arma. La casa delle White (in perfetto stile Carpenter Gothic) è un labirinto di anfratti bui e insostenibili, in cui la summa dell’orrore è dato dall’orribile “stanzino della penitenza” in cui un’immagine cristologica infilzata e sanguinante atterrisce e annichilisce (rovinandola irrimediabilmente) la mente di Carrie.

lunedì 15 ottobre 2012

Suburbia e orrori sepolti: le origini di Desperate Housewives


Lor signori sono i benvenuti a Wisteria Lane, la zona suburbana più ambita di Fairview. Come potete vedere il quartiere è più che elegante, prati curati, steccati impeccabili e, statene certi, qui troverete non solo del buon vicinato, troverete il migliore.
Siamo sinceri, avete mai visto niente di più incantevole?

Con Desperate Housewives il produttore e scrittore Marc Cherry riprende l’intera cosmogonia di quella suburbia che negli anni Cinquanta colpì l’interesse della scuola di Francoforte. Allora Horkheimer e Adorno, osservando la way of life statunitense, elaborano quella critica della società presente che puntava la lente su minimalismo morale (attitudine a non andare al di là dell’interesse privato) e contraddizioni del contemporaneo vivere collettivo. Prima di Cherry era stata Grace Metalious a rappresentare la suburbia e le sue contraddizioni nell’antesignano e meraviglioso Peyton Place. Nel libro della «Pandora in blue jeans» la cittadina è descritta con precisione e i luoghi sono parte integrante dell’identità dei personaggi, ne sono emanazione e prolungamento della personalità. Metalious sa che perfezione e ferocia s’incontrano e si sposano felicemente nell’opinione pubblica, sa anche che la way of life post secondo conflitto mondiale impose status symbol fisici e comportamentali ma che sotto la cartellonistica a pastello è sempre stato tutto un brulicare di passioni imperfette, violente, sensuali e perverse.
Marc Cherry ha metabolizzato la lezione di Metalious dandogli nuova vita nel quartiere di Wisteria Lane, a suo volta ben strutturato (tanto che Wikipedia ne propone la piantina con la storia di tutte le abitazioni), ogni casa ha la sua identità, che permane e amplifica quella della famiglia che la abita. Il fiume carsico che si muove sotto le meravigliose abitazioni di Wisteria Lane ha origini lontane, muove dallo steccato bianco dipinto da Tom Sawyer e passa per le abitazioni celanti orrori innominabili di Poe e Lovecraft, continua il suo percorso per diramarsi verso il genere melò à la Douglas Sirk (non a caso genere amato e scelto da altri artisti Avant-Pop quali John Waters e Pedro Almodóvar), la satira sociale e, ovviamente, il noir. Quando la casalinga Mary Alice Young rassettato come ogni mattina, decide di spararsi un colpo alla testa riemergono, attirati dal sangue fresco sul tappeto buono, orrori sepolti, rancori dissimulati, azioni innominabili e vendette dalle ombre lunghissime.

martedì 9 ottobre 2012

I torbidi segreti della vita suburbana: Peyton Place di Grace Metalious (1956)

Immaginate una grigia vita di provincia.
Immaginate una casalinga che ciabatta per casa sistemando soprammobili e portafoto. La cena è in forno e quando il marito, professore di sociologia nella locale Università, tornerà a casa la potrà gustare accompagnata da un buon bicchiere di latte fresco. C’è qualcosa che non va (c'è sempre qualcosa che non va direte voi, cari lettori!), la nostra casalinga è irrequieta, dopo aver riposto l’ultimo piatto nella credenza si avvia in silenzio al carrello dei liquori. Si porta una mano alla fronte e inizia a prepararsi un golden ginger ale. Lo beve tutto d’un fiato per prepararne immediatamente un’altro. Accende la radio, un folle brano jazz riempe il salotto, la nostra casalinga si toglie le pattine e inizia ad ancheggiare sul tappeto. Con il bicchiere in mano si avvia al suo scrittoio, lo poggia da una parte, carica un foglio nella macchina da scrivere e inizia a ticchettare svelta sui tasti. Sono gli anni Cinquanta, la nostra casalinga altri non è che Grace Metalious e il manoscritto in gestazione è la bozza di quello che tutti conosceranno come Peyton Place.
Per due terzi classico e per un terzo icona trashy il romanzo che in Italia troviamo edito da Einaudi è frutto di un lungo e raffinato lavoro di editing e comunicazione, operato non solo sul testo ma anche sulla sua autrice, eletta a personaggio torbido con il titolo di «Pandora in blue jeans», colei che sola e spregiudicata ha voluto spiare e raccontare le torbide e inquietanti storie della provincia americana, fino ad allora rappresentata da eleganti casalinghe, angeli del focolare, succulenti roastbeef e prati perfettamente curati.

lunedì 8 ottobre 2012

Io e te di Niccolò Ammaniti (2010)


Considero Io e te (Einaudi) breve e meraviglioso oggetto letterario di Niccolò Ammaniti, un nuovo passo nel percorso à rebours che muove dallo sguardo fiabesco del piccolo Michele Amitrano (Io non ho paura, 2001), passa per la metamorfosi conflittuale del tredicenne Cristiano Zena (Come Dio comanda, 2006) e approda a quello nevroromantico di Lorenzo Cuni (Io e te). Lorenzo è un quattordicenne romano con problemi di socializzazione. La madre, cui Lorenzo è estremamente legato (come da manuale), lo trascina da uno psicologo che gli diagnostica un disturbo narcisistico della personalità. Per alleviare le ansie materne Lorenzo finge di essere stato invitato da un gruppo di compagni di classe a una settimana bianca. In realtà il giovane protagonista ha già predisposto tutto per passare quel periodo in completa solitudine nella cantina del palazzo dove vive. Cibo, un televisore, la Play Station, fumetti Marvel e tre romanzi di Stephen King (non a caso maestro del “riazzeramento sociale”) saranno i suoi unici compagni di ventura.
La prima parte della storia, per voce di Lorenzo, racconta di come sia arrivato a tale decisione utilizzando una similitudine biologica (espediente retorico tanto caro ad Ammaniti): Lorenzo vessato dai compagni di ginnasio ha una catarsi dopo aver visto in televisione un documentario sugli insetti imitatori, questi riproducono l’aspetto di specie più aggressive per sfuggire agli attacchi dei predatori. Lorenzo come «una mosca travestita da ape» riesce a sopravvivere a scuola ma vuole di più. Vuole dimostrare all’amata genitrice che è un ragazzo «normale», ecco quindi la menzogna sulla settimana bianca, pronta ad avvilupparlo senza scampo, giorno dopo giorno, fino a quando il pensiero di una certa cantina non arriva a salvarlo. L’età del protagonista e la narrazione in prima persona portano il lettore a un’immediata identificazione. Identificazione con la solitudine e la malinconia materica che assedia tutti gli adolescenti, in qualsiasi tempo, a qualunque latitudine. Lorenzo è un piccolo eroe nevroromantico, lo capiamo già quando racconta dei suoi giochi infantili, come chiudere la porta e sognare che la stanza sia un cubo alla deriva nello spazio siderale. Lorenzo non riesce a dare un nome ai timori e alle sensazioni che ancora oggi, a quattordici anni, lo perseguitano, materializzandosi sottoforma di immagini che fanno proprie le lezioni calviniane su leggerezza, rapidità e visibilità. Per esempio, Lorenzo immagina di essere trattenuto da un enorme gigante di pietra che lo serra a sé impedendogli qualunque movimento (come durante l’aggressione gratuita alla madre dopo un tamponamento automobilistico cui il ragazzo assiste inerme), gigante che nel finale lo lascerà andare nell’aere e volare rapido, leggero e finalmente cosciente.

martedì 2 ottobre 2012

Faust di Aleksandr Sokurov (2011)

di Gianluca Stirpe

È un Faust limitato dal corpo quello di Aleksandr Sokurov. La carne, le necessità della carne strappano il volo dello spirito, per dirla brutalmente è questo l’oggetto narrativo della pellicola. Saltando le innumerevoli recensioni apparse dalla sua uscita nelle sale, sale assai sparute, che hanno sottolineato il genio del regista o la pesantezza della pellicola, in un’opposizione di opinioni agghiacciante per superficialità e polemica gratuita. 
Procediamo per gradi. 

1. La storia. La pellicola, come indicato nei titoli, è liberamente ispirata all’opera goethiana. Forse più di ogni altra rappresentazione cinematografica esistente, quella di Sokurov, evidenzia l’elemento classico presente nell’opera letteraria. Manca il pathos egotico della colpa, e questo è un punto a favore del film, ed è presente l’ironia, a tratti anche amara, che ha difettato altri tentativi sul tema, fatto salvo però quello di Svankmajer. 
La solita diade vita VS morte, è qui allargata con la sorella ignobile conosciuta come fame. Tutti hanno fame, il corpo è affitto da quella punizione quasi divina per chi, distogliendo la sua attenzione dalle questioni pratiche della terra, rincorre una sapienza dello spirito e dell’anima. Il corpo è la zavorra dello spirito, la sua fame, la sua carne, le sue voglie, le sue necessità sono l’ancora dell’uomo. La cacciata dall’Eden non è stata la fatica, il lavoro e il dolore, ma il corpo, l’organo pesante che schiaccia sulla terra. 
I personaggi si affollano negli spazi angusti di un'interiorità casalinga, di una cittadella stretta, satura di uomini, donne, animali. Si passa, ci si strofina, ci si schiaccia addirittura. La vita e la morte si scontrano, come nel corteo funebre iniziale. 
In quest’amalgama di umani, il Dottor Faust accompagnato dal suo devoto assistente, vive distaccato, preso dalla ricerca e conoscenza del mondo, una specie di altro-mondo, punto di osservazione. Quel pianeta che osserva, è il suo vincolo, è la terra radice del suo corpo, lo stesso che gli impedisce le ascese verso la conoscenza dello spirito e dell’anima. Faust è il dottore che cerca l’anima nella carne, nel fondo terroso dell’humus umano, scava, taglia e affonda nei corpi sul tavolo operatorio, disseziona gli organi in cerca del rifugio dell’anima, inutilmente. Suo padre, sorta di medico arcaico, guaritore delle ossa, con i suoi macchinari, invece che cercare, ripara, sistema e fa funzionare i corpi, ne ritarda la morte, forse. Si tratta di una morte onnipresente, al par della gloria del dio pregato nelle chiese e professato dai preti, risuona nelle pestilenze, nelle spade dei soldati, nei crampi della fame. È un mondo crudele, quanto buffo per la sua semplicità: tanto facile vi si nasce, tanto facile lo si lascia. 
E c’è il Diavolo, a mezza via tra la figura del ruffiano e l’illuminato sull'assurdità della vita, un incrocio tanto vitale di consapevolezza da rifuggire ogni scorciatoia nichilista. Un Diavolo felice, non affamato e tanto riverente, dallo spirito sottile come una lama, di chi ha già visto chissà quante volte l’uomo perdersi nei suoi vizi, spendere tutto il proprio tempo inutilmente, ignorando totalmente anche i più rumorosi echi delle ammonizioni senechiane. Il Diavolo è tentatore, ma non nel senso contemporaneo della tentazione dell’anima, quanto del corpo, è un furbo attore da romanzo picaresco, che sollazza il corpo, e di conseguenza lo spirito in esso nascosto. Qui lo spirito dei preti è nascosto in ogni ventricolo della carne, è un suono flebile nel frastuono delle necessità e della sopravvivenza. In fondo questo Diavolo è un manipolato e non manipolatore, quasi un burattino, come nella pellicola di Svankmajer. Il suo è un male ingenuo, che collassa su se stesso, innocuo quando si scontra con il male umano. 
È un male quello umano, che si genera e autoalimenta. Circolo vizioso dell’esistenza. La giovane Margarethe è il bocciolo fresco dell’alba, anch'ella destinata alla marcescenza della vita. La giovane è il desiderio che schiaccia di Faust nel mondo, lo affonda nella terra, nella carne. Il desiderio che piano s’insinua nella giovane, è la tomba umida che cancella l’innocenza, è la fine dell’ingenuità. Anche per lei iniziano i sottili inganni e bugie per incontrare il Dottore. La via della loro unione stregata, viziata da una non specifica magia, è di una linearità tale da rendere del tutto naturali i raggiri, gli inganni, e quegli incidenti verso l’incontro carnale. 
Dono della pellicola è mostrare come il male non appartiene a entità esterne che insinuano nell'uomo la malvagità, ma è lo stesso male a costituire l’umano. La linfa umana pesca la sua essenza anche dalla radice maligna. Non si salva nessuno, ognuno è maligno, sia esso dottore, mendicante, soldato reso arido dalla fame. Faust è lo studioso affamato di conoscenza, capace di annientare pur di conoscere e procedere nella sua conquista.