sabato 17 novembre 2012

Nota a margine sulla quinta e ultima stagione di Damages



Quello cui una serie come Damages deve pensare nella sua incarnazione finale (in questo caso dieci episodi prodotti da Audience Network) è completare il tratteggio dei suoi protagonisti e solo in maniera derivativa risolvere l’intreccio. Quest'ultimo amplificato sufficientemente dal caso di quest’anno dedicato all’hacking e all’informazione ai giorni di Wikileaks, con protagonista Ryan Phillippe nei panni del disturbato ed egocentrico hacker e guru Channing McClaren. Le ultime due stagioni del serial ci hanno proposto intrecci narrativi meno complessi (ma non meno avvincenti) puntando maggiormente sulla costruzione endemica del carattere di Ellen Parsons (Rose Byrne) per opera di Patty Hewes (Glenn Close). I silenzi, gli sguardi sull’orrore immateriale che Patty punta spesso di fronte a sé durante la quarta stagione si fanno, ora, sempre più presenti e ingombranti. Essi annunciano, nell’incertezza affatto simulata, il timore di Patty nei confronti della realizzazione del bildungsroman scritto per Ellen. 
Facciamo un passo indietro. Una parabola ascendente ha visto Patty astrarsi dalla «terra» - vituperata e vilipesa fino alla fine, nel confronto col padre e col figlio Michael - per maneggiare l’astrazione delle azioni, della parola e degli intenti. Un percorso che ha allontanato Patty dal contatto materiale e che le ha permesso di agire con questi strumenti sulla carne pur rimanendole lontana. Questo anche quando gli affetti (l’amico fragile Ray Fiske, il pari Tom Shayes e zio Pete) sono caduti, umiliati e offesi, ai suoi piedi. Non vi è mai odore di morgue intorno a Patty, eppure dovrebbe esserci, non v’è neppure contatto salvifico, eppure una bambina è l’unica cosa rimastale di una famiglia naufragata in tregenda. Patty muove allora l’ultimo passo della scalata alla realtà non-umana che ha scelto per sé. Lo fa in particolare nello sguardo e nella parola senza remissione che annichiliscono il padre sul letto di morte. Da lì, l’attitudine umana e carnale alla maternità diviene a sua volta un’idea, una prerogativa, possiamo dire un’istanza, che veste agli occhi di Patty i panni alteri dell’eredità. Ellen è quanto di più vi si sia avvicinato e Patty deve compiere un’ultima «mossa» nei confronti della sua protégé (che non riuscirà mai a percepire se stessa come antagonista) per allontanarla dalle facezie della sua umanità. Vi riuscirà. L’agnizione finale, come sempre sul molo, vede Patty impegnata a mostrare l’inutilità ontologica del terreno, della carne, del «sangue» che, serafica, segnala sulle mani di entrambe. L’appendice, con l’incontro (edulcorato) tra le due donne, serve solo a mettere in scena l’ultimo moto umano di Patty, il dubbio. Lo vediamo attraversare il suo volto prima dell’ultimo rifiuto, quello della propria casa, in favore del ritorno nell’empireo lavorativo. 



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