Da dove è
partito il giovane e malinconico Tim Burton? Qual è stata la coagulazione di immaginari che l’hanno portato a
creare la sua visione – dolce, delicata e umoristica - del nero e dell’orrore
che oggi, reiterata, inizia a mostrare i segni del tempo?
Bisogna
ritornare alla fine degli anni Ottanta, quando, trentenne, affrontava la sua
prima e compita opera (forte dell’esperienza avventurosa di Pee Wee e dei primi
corti): Beetlejuice. È qui che Burton libera tutte le sue energie
creative nel modo più naturale, spassoso e sopra le righe possibile, esorcizzando la
morte in modo del tutto americano: posticcio, plastico, godereccio, comico e cartoonista.
In Beetlejuice, al centro della vicenda
troviamo una casa. Attenzione però, non una dimora qualunque ma la riedizione
fine anni Ottanta di un’abitazione in stile Carpenter Gothic, un identificativo riferimento all’immaginario gotico americano che
poi diventerà cardinale nella visione di Tim Burton. Grazie alla dimora dei
defunti Maitland, Beetlejuice diventa un'irriverente e spassosa rilettura dell’Antologia
di Spoon River, in cui gli spiriti sono una coppia d’ignari e giovani
innamorati – con i quali Burton si diverte a citare l’American Gothic di Grant Wood – alle prese con le dinamiche
burocratiche del regno dei morti. Dinamiche che scopriamo essere ben più
fastidiose di quelle del mondo dei vivi.