venerdì 30 gennaio 2015

Intanto: The One I Love di Charlie McDowell su ArtsLife

Intanto su ArtsLife parlo della versione indie e contemporanea di Chi ha paura di Virginia Woolf?, The One I Love di Charlie McDowell.


 
[ Cliccare sul Elisabeth Moss che gioca con le matrioske per leggere il post]

http://www.artslife.com/2015/01/20/the-one-i-love-la-versione-indie-e-contemporanea-di-chi-ha-paura-di-virginia-woolf/

sabato 24 gennaio 2015

Kaboom di Gregg Araki (2010)


Le strutture asciutte e metafisiche di un campus tutto in notturna accolgono l’arrivo di nuovi giovani eroi. Come nella migliore epica sono introdotti da una visione onirica, un sogno tumido e disturbante che sappiamo già contenere tutta la narrazione che Gregg Araki ha in serbo per noi. Sì, perché anche in Kaboom (pellicola vincitrice della Queer Palm al Festival di Cannes nel 2010) l’apertura ha i contorni sfumati della zona liminale tra veglia e sonno, un momento in cui i sensi in parte obnubilati sembrano sviluppare sensazioni più vivide e acute. Questo succede al diciottenne Smith (Thomas Dekker che eredita il ruolo di eroe timido, sexy e disorientato che fu di James Duval nella Teenage Apocalypse Trilogy), appena arrivato al campus per studiare cinematografia - «Ho sempre desiderato studiare cinema. Anche se risulta un po’ anacronistico, dal momento che ignoriamo se il cinema così come lo conosciamo continuerà a esistere in futuro» - insieme all’amica Stella (Haley Bennett, stupenda). In Kaboom Araki ricostruisce ancora una volta la cellula totipotente dell’unica famiglia possibile, quella componibile e di matrice amicale qui ritratta nell’esplosivo momento del risveglio sessuale.
Smith sogna il sesso con il suo compagno di stanza (un surfista di nome Thor «come il fumetto!» direbbe questi, grattandosi le palle), desidera una relazione romantica col tenero Oliver (Brennan Mejia, una versione arakiana del Ninetto Davoli di Pasolini) e sperimenta, dalla spiaggia per nudisti all’incontro con quel folletto intelligente e maturo di London (Juno Temple, adorabile e bravissima come sempre). Stella, invece, si lancia in una relazione con la strega nera Lorelai (Roxane Mesquida, senza dubbio l’erede di Eva Green) regalandoci momenti di puro disagio e divertimento (provate voi a lasciare una folle di catena con poteri sovrannaturali).

domenica 18 gennaio 2015

La teoria del tutto di James Marsh (2014)



Il limite che spesso evidenzia la cinematografia basata su storie vere, i biopic che portano sullo schermo storie di vite eccezionali è, di contro, la loro estrema convenzionalità. Il mediare tra una rappresentazione che risulti comprensibile e il desiderio di restituire la fascinazione di gesta, intuizioni e pensieri d’individui straordinari, spesso incanala le altrettanto eccezionali potenzialità dell’arte cinematografica in opere poco audaci, dalla struttura semplificata. A differenza di The Imitation Game dove questo limite è una vera e propria tara, La teoria del tutto di James Marsh si avvale di un punto di vista, quello di Jane Hawking, moglie del cosmologo e icona globale Stephen per venticinque anni. Lo sceneggiatore Anthony McCarten aveva intuito la necessità di una prospettiva, cercando per ben tre anni di convincere Jane a portare la sua biografia Verso l’infinito (Travelling to Infinity: My Life with Stephen) sullo schermo, convinto di poter realizzare una visione delicata, poetica e commovente. La teoria del tutto si allontana sia dalla forma del biopic sia da quella della storia d’amore convenzionale per assumere i connotati sognanti di una fiaba «altra», dove l’eroina e il suo amato attraversano e superano tutti gli ostacoli, qui intesi come limiti fisici, intellettivi ed emotivi, per permettere l’incoronazione dell’intelletto di Stephen e del legame unico e anticonvenzionale dei due. Un percorso fiabesco fatto d’immagini stupende: la storia d’amore fra Jane e Stephen nata fra i severi edifici di Cambridge il ballo con le camicie e i cravattini degli uomini e guanti delle donne che brillano alla luce ultravioletta per l’utilizzo del detergente Tide («come stelle che nascono e muoiono» ci dirà Stephen), la progressiva discesa agli inferi a causa della malattia, la forza di Jane nel superare ogni ostacolo per permettere a Hawking di lavorare sul suo sistema scientifico.

martedì 13 gennaio 2015

venerdì 2 gennaio 2015

Mister Hula Hoop dei fratelli Coen (1994)

«Nessuno di noi si aspettava una tale quadratura del cerchio»
 
Mister Hula Hoop (titolo originale: The Hudsucker Proxy) è uno degli esempi più riusciti dell’operazione Avant-Pop di recupero e rielaborazione di materiali propri della cultura popolare. In questo caso Joel e Ethan Coen riprendono l’immaginario della screwball comedy (così come rifaranno dieci anni dopo con Prima ti sposo, poi ti rovino) proponendone stilemi, visioni (ed esagerazioni) per ammiccare allo spettatore con piglio postmodernista, sorprenderlo e spiazzarlo con inserti onirici (l’Habanera ballata in sogno dal protagonista) e una deliziosa commistione con il cinema di Frank Capra attraverso l’esplicito (e spassoso) riferimento all’angelo Clarence de La vita è meravigliosa.
Siamo nel 1958 (/’59): la vita è una serie di piani (di grattacielo of course) da scalare (o da guardare mentre si precipita di sotto dopo che ci si è gettati dalla finestra) e Norville Barnes - giovane provincialotto interpretato da un eccellente Tim Robbins (prima che si desse ehm… alla musica) – arriva a New York City dall’Indiana per cercare lavoro dopo il college. Saranno la sua goffaggine e una minimale invenzione a portarlo al 44˚ piano del grattacielo delle Hudsucker Industries (non contando il mezzanino!), ma il successo, si sa, dà alla testa (e la screwball comedy con la sua comparazione dei piani sociali ce lo insegna) per cui non ci si stupiremo quando Norville abbandonerà ingenuità e amore (per Amy la giornalista sotto copertura che stava per rovinargli la carriera) per godersi con arroganza ogni benefit della sua nuova condizione (con tanto di Anna Nicole Smith nei panni di Zsa Zsa Gabor al braccio…). 

Ė l’espressionismo visivo di una scenografia e una regia al limite della perfezione formale (e citazionistica), la recitazione slapstick di Robbins e Paul Newman e quella esagerata, ritmica (decisamente al cardiopalma), in buona sintesi magistrale di Jennifer Jason Leigh nei panni della giornalista Amy Archer a fare della pellicola un vero cult per cinefili. 
La decostruzione della voce narrante poi sorprende e entusiasma: viene affidata a un narratore onnisciente e a mirabolanti soluzioni visive, poi – con piglio sperimentale - a due a comparse nel frammento della tavola calda in cui due autisti di bus raccontano il primo incontro fra Norville e Amy per tornare - solo nel finale - a svelare l’identità “superiore” del narratore onnisciente.