venerdì 2 gennaio 2015

Mister Hula Hoop dei fratelli Coen (1994)

«Nessuno di noi si aspettava una tale quadratura del cerchio»
 
Mister Hula Hoop (titolo originale: The Hudsucker Proxy) è uno degli esempi più riusciti dell’operazione Avant-Pop di recupero e rielaborazione di materiali propri della cultura popolare. In questo caso Joel e Ethan Coen riprendono l’immaginario della screwball comedy (così come rifaranno dieci anni dopo con Prima ti sposo, poi ti rovino) proponendone stilemi, visioni (ed esagerazioni) per ammiccare allo spettatore con piglio postmodernista, sorprenderlo e spiazzarlo con inserti onirici (l’Habanera ballata in sogno dal protagonista) e una deliziosa commistione con il cinema di Frank Capra attraverso l’esplicito (e spassoso) riferimento all’angelo Clarence de La vita è meravigliosa.
Siamo nel 1958 (/’59): la vita è una serie di piani (di grattacielo of course) da scalare (o da guardare mentre si precipita di sotto dopo che ci si è gettati dalla finestra) e Norville Barnes - giovane provincialotto interpretato da un eccellente Tim Robbins (prima che si desse ehm… alla musica) – arriva a New York City dall’Indiana per cercare lavoro dopo il college. Saranno la sua goffaggine e una minimale invenzione a portarlo al 44˚ piano del grattacielo delle Hudsucker Industries (non contando il mezzanino!), ma il successo, si sa, dà alla testa (e la screwball comedy con la sua comparazione dei piani sociali ce lo insegna) per cui non ci si stupiremo quando Norville abbandonerà ingenuità e amore (per Amy la giornalista sotto copertura che stava per rovinargli la carriera) per godersi con arroganza ogni benefit della sua nuova condizione (con tanto di Anna Nicole Smith nei panni di Zsa Zsa Gabor al braccio…). 

Ė l’espressionismo visivo di una scenografia e una regia al limite della perfezione formale (e citazionistica), la recitazione slapstick di Robbins e Paul Newman e quella esagerata, ritmica (decisamente al cardiopalma), in buona sintesi magistrale di Jennifer Jason Leigh nei panni della giornalista Amy Archer a fare della pellicola un vero cult per cinefili. 
La decostruzione della voce narrante poi sorprende e entusiasma: viene affidata a un narratore onnisciente e a mirabolanti soluzioni visive, poi – con piglio sperimentale - a due a comparse nel frammento della tavola calda in cui due autisti di bus raccontano il primo incontro fra Norville e Amy per tornare - solo nel finale - a svelare l’identità “superiore” del narratore onnisciente. 


Una pellicola imprescindibile – accusata ingiustamente di formalismo dopo la sua presentazione al 47˚ Festival di Cannes – da rivedere magari in una maratona cinematografica insieme a Prima ti sposo, poi ti rovino, altra ripresa della screwball comedy fatta dai Coen nel 2003. 

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