domenica 18 gennaio 2015

La teoria del tutto di James Marsh (2014)



Il limite che spesso evidenzia la cinematografia basata su storie vere, i biopic che portano sullo schermo storie di vite eccezionali è, di contro, la loro estrema convenzionalità. Il mediare tra una rappresentazione che risulti comprensibile e il desiderio di restituire la fascinazione di gesta, intuizioni e pensieri d’individui straordinari, spesso incanala le altrettanto eccezionali potenzialità dell’arte cinematografica in opere poco audaci, dalla struttura semplificata. A differenza di The Imitation Game dove questo limite è una vera e propria tara, La teoria del tutto di James Marsh si avvale di un punto di vista, quello di Jane Hawking, moglie del cosmologo e icona globale Stephen per venticinque anni. Lo sceneggiatore Anthony McCarten aveva intuito la necessità di una prospettiva, cercando per ben tre anni di convincere Jane a portare la sua biografia Verso l’infinito (Travelling to Infinity: My Life with Stephen) sullo schermo, convinto di poter realizzare una visione delicata, poetica e commovente. La teoria del tutto si allontana sia dalla forma del biopic sia da quella della storia d’amore convenzionale per assumere i connotati sognanti di una fiaba «altra», dove l’eroina e il suo amato attraversano e superano tutti gli ostacoli, qui intesi come limiti fisici, intellettivi ed emotivi, per permettere l’incoronazione dell’intelletto di Stephen e del legame unico e anticonvenzionale dei due. Un percorso fiabesco fatto d’immagini stupende: la storia d’amore fra Jane e Stephen nata fra i severi edifici di Cambridge il ballo con le camicie e i cravattini degli uomini e guanti delle donne che brillano alla luce ultravioletta per l’utilizzo del detergente Tide («come stelle che nascono e muoiono» ci dirà Stephen), la progressiva discesa agli inferi a causa della malattia, la forza di Jane nel superare ogni ostacolo per permettere a Hawking di lavorare sul suo sistema scientifico.

Lo Stephen Hawking di Eddie Redmayne.
È lo sguardo di Jane (Felicity Jones) a guidarci nella conoscenza di Stephen ma occorre spendere più di una parola sull’eccellente lavoro fatto da Eddie Redmayne per realizzare il suo Hawking. Il corpo dell'attore (imparato a controllare grazie a un insegnante di danza), si annoda man mano che la malattia del motoneurone che colpì Hawking progredisce, le dita delle mani e dei piedi si ripiegano in maniera sempre più evidente, le gambe e le spalle si dissestano con la progressiva perdita dello stimolo volontario. Redmayne ha lavorato tanto sul suo corpo da procurarsi un disallineamento della spina dorsale. Infine le labbra del suo Stephen si stirano e non rimangono che le efficaci espressioni facciali per cui è noto Hawking: l’eloquenza delle sopracciglia, la smorfia per indicare il diniego e il sorriso per l’assenso. Il risultato è poetico e commovente. Non solo, Redmayne restituisce benissimo anche l’ironia e lo spirito che contraddistinguono Hawking, strappando allo spettatore più di un sorriso. 

In chiusura segnaliamo la presenza di Emily Watson nel ruolo della madre di Jane, memorabile in un'unica battuta british - solo apparentemente innocua - sul bisogno di Jane di ricavarsi del tempo per partecipare al coro della chiesa. Come unica nota di demerito registriamo, invece, la rappresentazione saltellante, semplificata, troppo leziosa persino per una fiaba, della famiglia di Hawking. 

2 commenti:

  1. non c'avevo pensato a questo punto di vista...
    gran bella chiave di lettura fiabesca!

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    1. Grazie Marco! È una lettura secondo me adatta a questa pellicola.

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