Il limite
che spesso evidenzia la cinematografia basata su storie vere, i biopic che portano sullo schermo storie
di vite eccezionali è, di contro, la loro estrema convenzionalità. Il mediare
tra una rappresentazione che risulti comprensibile e il desiderio di restituire
la fascinazione di gesta, intuizioni e pensieri d’individui straordinari,
spesso incanala le altrettanto eccezionali potenzialità dell’arte
cinematografica in opere poco audaci, dalla struttura semplificata. A differenza
di The Imitation Game dove questo
limite è una vera e propria tara, La teoria del tutto di James Marsh si avvale di un punto di
vista, quello di Jane Hawking, moglie
del cosmologo e icona globale Stephen per venticinque anni. Lo sceneggiatore Anthony
McCarten aveva intuito la necessità di una prospettiva, cercando per ben tre
anni di convincere Jane a portare la sua biografia Verso l’infinito (Travelling
to Infinity: My Life with Stephen) sullo schermo, convinto di poter
realizzare una visione delicata, poetica e commovente. La teoria del tutto si allontana sia dalla forma del biopic sia da quella della storia d’amore
convenzionale per assumere i connotati sognanti di una fiaba «altra», dove l’eroina
e il suo amato attraversano e superano tutti gli ostacoli, qui intesi come
limiti fisici, intellettivi ed emotivi, per permettere l’incoronazione dell’intelletto
di Stephen e del legame unico e anticonvenzionale dei due. Un percorso fiabesco
fatto d’immagini stupende: la storia d’amore fra Jane e Stephen nata fra i
severi edifici di Cambridge il ballo con le camicie e i cravattini degli
uomini e guanti delle donne che brillano alla luce ultravioletta per l’utilizzo
del detergente Tide («come stelle che nascono e muoiono» ci dirà Stephen), la
progressiva discesa agli inferi a causa della malattia, la forza di Jane nel
superare ogni ostacolo per permettere a Hawking di lavorare sul suo sistema
scientifico.
Lo Stephen Hawking di Eddie Redmayne. |
È lo
sguardo di Jane (Felicity Jones) a guidarci nella conoscenza di Stephen ma occorre spendere più di una parola sull’eccellente lavoro
fatto da Eddie Redmayne per
realizzare il suo Hawking. Il corpo dell'attore (imparato a controllare grazie a un
insegnante di danza), si annoda man mano che la malattia del motoneurone che
colpì Hawking progredisce, le dita delle mani e dei piedi si ripiegano in
maniera sempre più evidente, le gambe e le spalle si dissestano con la
progressiva perdita dello stimolo volontario. Redmayne ha lavorato tanto sul
suo corpo da procurarsi un disallineamento della spina dorsale. Infine le
labbra del suo Stephen si stirano e non rimangono che le efficaci espressioni
facciali per cui è noto Hawking: l’eloquenza delle sopracciglia, la smorfia per
indicare il diniego e il sorriso per l’assenso. Il risultato è poetico e
commovente. Non solo, Redmayne restituisce benissimo anche l’ironia e lo spirito
che contraddistinguono Hawking, strappando allo spettatore più di un sorriso.
In chiusura
segnaliamo la presenza di Emily Watson nel ruolo della madre di Jane, memorabile
in un'unica battuta british - solo apparentemente
innocua - sul bisogno di Jane di ricavarsi del tempo per partecipare
al coro della chiesa. Come unica nota di demerito registriamo, invece, la
rappresentazione saltellante,
semplificata, troppo leziosa persino per una fiaba, della famiglia di Hawking.
non c'avevo pensato a questo punto di vista...
RispondiEliminagran bella chiave di lettura fiabesca!
Grazie Marco! È una lettura secondo me adatta a questa pellicola.
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