mercoledì 19 giugno 2013

La casa 2 di Sam Raimi (1987)

Ho sempre trovato leggendaria la nascita e lo sviluppo della trilogia “altra” de La casa, realizzata da Sam Raimi con l’ausilio della sua ruggente crew: Robert Tapert, Scott Spiegel e Bruce Campbell. Pensiamoci, da film a basso costo, da opera di un regista che più che integrato nel genere horror ha bisogno di cimentare il proprio, straordinario, talento all'operazione sperimentale di remake/reboot nella grande produzione de La casa 2, alla creazione del mito di Ash con L’armata delle tenebre.
Oggi ci collochiamo a metà, dopo il successo planetario de La casa, dopo l’interessamento di De Laurentiis al lavoro di Raimi (veicolato, narra la leggenda, da Stephen King), quando il giovane regista ha già l’idea di precipitare il suo protagonista beone nel Medioevo. Il risultato è invece un La Casa 2 (Evil Dead 2) che più che puntare sull'orrore e il disturbo realizza quello che è stato sempre il desiderio di Raimi: mettere su una roboante giostra, una «casa» degli orrori, in cui i trucchi di cui godere sono l’estremizzazione della recitazione di Bruce Campbell, persino della sua fisicità (gli zigomi sembrano voler uscire dal suo volto, gli occhi, la bocca continuamente e parossisticamente sgranati), gli effetti speciali e la regia sempre più concitata. Tutto contribuisce a una messa in scena che è esperimento sulla slapstick (qui splatterstick, nonostante l’utilizzo del sangue verde). Bruce Campbell è il mattatore assoluto, centralissimo nella riuscita della sperimentazione, assai godibile e viscerale, de La casa 2. Un’attitudine, quella nei confronti dello slapstick che ha radici nell'amicizia stretta da Raimi con Joel ed Ethan Coen ai tempi del montaggio newyorkese de La casa. Non a caso i Coen andranno in sala, nel 1987 (stesso anno dell’uscita de La casa) con Arizona Junior, film che fa del recupero dei toni slapstick uno dei suoi punti di forza.

lunedì 17 giugno 2013

Fine Impero di Giuseppe Genna (2013)

Narrare in un contesto diafano, proiettato, umbratile e fagocitante come il nostro ha bisogno di una prospettiva, di un punto di vista d’elezione, che sia in grado di coglierne le caratteristiche fugaci, spesso invisibili e soffuse. La scelta di quest’angolatura, di quest’apertura focale sul discorso narrativo è, oggi più che mai, impresa ardua, al limite della possibilità. Per questo motivo coloro che riescono nell'impresa pongono nelle mani del lettore un oggetto deflagrante, in grado di assorbirlo completamente. Sono pochi gli autori che riescono in quest’obiettivo, ancor meno quelli italiani. Se Don DeLillo, nel 2003, era riuscito scegliendo il fluire della limousine di Eric Packer come paradigma postumano e postcapitalistico attraverso cui narrare l’oggi (che è già passato e futuro nella pagina retroattiva di Cosmopolis), Giuseppe Genna, nel suo nuovo romanzo Fine Impero (appena uscito per Minimum Fax) sceglie come punto di vista - meglio sarebbe dire come origine di replicazione del reale - il dolore più assoluto avvertibile dalla consapevolezza umana. Nel caso di Fine Impero si tratta del dolore della voce narrante: intellettuale, scrittore prestato al periodismo di moda, annichilito e svuotato, dissimulante un vuoto senza remissione. Un punto di vista che attraversa, circolarmente come in plasmide batterico, l'«immaginario compresso» e sfiatato di Fine Impero, in cui strane manifestazioni del reale italiano d’oggi e del passato, orribili traumi e indicibili dolori personali (e per questo ecumenici e generazionali) si susseguono secondo un percorso che è via crucis in notturna. Diafane apparizioni, coagulazioni vivide e inondate di luce ultraterrena, sono attraversate dallo scrittore al fianco del potente e mellifluo zio Bubba, proiezione esso stesso (al limite del ventriloquismo) di un potere onnipresente che opprime e sfinisce e divora, insaziabile, la carne. Il consumo incessante avviene sotto l’occhio liquido degli schermi televisivi, essi stessi proiezione mordoriana d’immane potenza.

mercoledì 12 giugno 2013

La casa di Sam Raimi (1981)

È incredibile come ancora oggi – soprattutto oggi, direte voi, dopo l’uscita del reboot che ha richiamato l’attenzione e l’entusiasmo di una nuova generazione di spettatori – rivedere il primo lungometraggio di Samuel Marshall “Sam” Raimi porti a una susseguirsi di scariche di puro piacere cinefilo, ammirazione per il genio creativo del regista e a una riflessione pressoché infinita sugli ingredienti che hanno fatto la fortuna di Evil Dead, uscito da noi con il titolo La casa.
Il giovanissimo Sam Raimi, con l’imprescindibile sostegno della sua crew: Robert Tapert Scott Spiegel e Bruce Campbell, lavora sulla costruzione di un immaginario che fa dell’unità di luogo la sua prima caratteristica: siamo in mezzo a un bosco, il ponte che ci collega alla civiltà è irrimediabilmente danneggiato e l’unico rifugio (si fa per dire) è una casetta di legno, apparentemente semplice e spartana ma le cui caratteristiche sono pronte a fissarsi nell'immaginario pop mondiale, dalla botola che conduce a una buia cantina, alla pendola appesa al muro, dalla rimessa per gli attrezzi alla dondola che sbatte sulla parete esterna (mutuata da Within the woods). Il grande talento di Sam Raimi è di costruire il suo immaginario secondo canoni assai immaginifici, nonostante l’inesperienza e la finitezza della produzione. Le riprese animate dei boschi che circondano la casa, il punto di vista ectoplasmatico dei demoni candariani che osservano e attaccano a turno i cinque giovani protagonisti dalle finestre, lo straniamento sull'orlo della pazzia e dell’orrore di Ash Williams (Bruce Campbell nel ruolo che lo consacrerà nel firmamento geek come una dei personaggi più amati), tutto è realizzato da Raimi attraverso soluzioni creative e personali, come la telecamera che sfreccia fra i boschi e gli ambienti, il volo disarticolato dei personaggi posseduti, il confronto surrealista di Ash allo specchio e le riprese finali con la casa che letteralmente sanguina dalle prese elettriche, fra le assi delle pareti e sulle lampadine, donando alla rappresentazione un appeal arty, surreale e decisamente folle. Tutte caratteristiche che denotano una creatività in grado di superare i confini dell’horror un attimo dopo averli mutati.