Narrare in un contesto diafano, proiettato, umbratile
e fagocitante come il nostro ha bisogno di una prospettiva, di un punto di
vista d’elezione, che sia in grado di coglierne le caratteristiche fugaci,
spesso invisibili e soffuse. La scelta di quest’angolatura, di quest’apertura
focale sul discorso narrativo è, oggi più che mai, impresa ardua, al limite della
possibilità. Per questo motivo coloro che riescono nell'impresa pongono nelle
mani del lettore un oggetto deflagrante, in grado di assorbirlo completamente.
Sono pochi gli autori che riescono in quest’obiettivo, ancor meno quelli
italiani. Se Don DeLillo, nel 2003, era riuscito scegliendo il
fluire della limousine di Eric Packer come paradigma postumano e
postcapitalistico attraverso cui narrare l’oggi (che è già passato e futuro
nella pagina retroattiva di Cosmopolis),
Giuseppe Genna, nel suo nuovo
romanzo Fine Impero (appena uscito per Minimum Fax) sceglie come punto
di vista - meglio sarebbe dire come origine di replicazione del reale - il
dolore più assoluto avvertibile dalla consapevolezza umana. Nel caso di Fine Impero si tratta del dolore della
voce narrante: intellettuale, scrittore
prestato al periodismo di moda, annichilito e svuotato, dissimulante un vuoto senza remissione. Un punto
di vista che attraversa, circolarmente come in plasmide batterico, l'«immaginario compresso» e sfiatato di Fine Impero, in cui strane manifestazioni del reale
italiano d’oggi e del passato, orribili traumi e indicibili dolori personali (e
per questo ecumenici e generazionali) si susseguono secondo un percorso che è via
crucis in notturna. Diafane apparizioni, coagulazioni vivide e inondate di luce
ultraterrena, sono attraversate dallo scrittore al fianco del potente e
mellifluo zio Bubba, proiezione esso
stesso (al limite del ventriloquismo) di un potere onnipresente che opprime e
sfinisce e divora, insaziabile, la carne. Il consumo incessante
avviene sotto l’occhio liquido degli schermi televisivi, essi stessi proiezione
mordoriana d’immane potenza.
La chiesa di San Bernardino alle Ossa, protagonista di una delle sequenze più intense di Fine Impero. |
Mentre lo scrittore attraversa la Brianza (luogo
inedito d’implosione del capitalismo occidentale di stampo statunitense) in uno
dei SUV di zio Bubba, il ricordo (che come detto prima è sia personale sia
generazionale) si coagula in interni familiari dei più terribili piuttosto che
in visioni pop di grande impatto, visioni che nell'oggi sfiatato e reificato
diventano leggendarie, avveniristiche e fatali. Giuseppe Genna le inserisce nella
narrazione di Fine Impero attraverso
le note, che usa come vera e propria arma Avant-Pop. Sono queste visioni che
includono schegge d’immaginario televisivo già postumane, come Lucio Flauto e il suo Pomofiore o il wrestler André detto The Giant. Continuando sulle note merita
menzione, per il forte impatto mesmerizzante, la sequenza che vede lo scrittore
seguire Zio Bubba all'interno della chiesa di San Bernardino alle Ossa, a Milano. È questa per il
lettore un’esperienza polisensoriale, unica nel suo genere, straniante nella
visione della disposizione dei resti ossei come fregi del locale, l’odore, la
caligine organica, l’incontro con il potere liminale ecclesiastico, celato e
officiante, incarnato nell'abito cardinalizio, descritto anch'esso in una nota.
Andrebbe poi trattato in maniera approfondita
l’approccio stilistico di Genna, il valore empatico e immediato del suo
periodare, la sua capacità di fissare espressioni, concetti e sensazioni, in
uniche frasi ecumeniche, il citazionismo (Shakespeare, Pascoli, Leopardi).
In definitiva Fine
Impero è una visione «compressa» che deflagra sulla pagina, promettendo di
continuare a espandersi al di là della stessa, per raggiungere continuamente e
fissare il tramonto sulle rovine di fine impero, coincidenti, neanche a dirlo,
con l’alba del nuovo impero.
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