venerdì 27 dicembre 2013

I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller (2013)

È dai tempi della commedia indie per eccellenza Giovani, carini e disoccupati che il Ben Stiller dietro la macchina da presa ci piace e sembra non sbagliare un colpo. Il suo ultimo film, l’adorabile I sogni segreti di Walter Mitty sembra dialogare proprio con la pellicola manifesto che fece di Ethan Hawke l’attore feticcio della indie culture. In quest’ultima pellicola una generazione tradita, fragile, umana e reale si confronta con la contemporaneità, le cui logiche sono ormai totalmente finanziare, irreali e lontane dal concetto di lavoro.
Il film è l’immaginifico rifacimento dell’omonimo TheSecret Life of Walter Mitty (in Italia Sogni proibiti) girato nel 1947 da Norman Z. McLeod e prodotto da Samuel Goldwyn (il cui figlio produce oggi insieme a Stiller il remake), a sua volta tratto da un racconto di James Thurber. Walter Mitty (Ben Stiller), manager del reparto negativi alla prestigiosa rivista «LIFE» (principale luogo di espressione del genere fotogiornalismo) è un preciso e coscienzioso impiegato che da tempo ha rinunciato all’idea di viaggiare e girare il mondo, dedicandosi anima e corpo alla valorizzazione del lavoro del fotografo Sean O’Connell (Sean Penn). Questi, saputo della chiusura della rivista (che sta per trasformarsi in «qualcosa .com») invia a Walter il suo ultimo rullino - con richiesta di usare per la copertina dell’ultimo numero lo scatto 25 - e un portafogli su cui è inciso il motto della rivista «Vedere il mondo. Cose pericolose da raggiungere. Trovarsi l’un l’altro e sentirsi. Questo è il significato della vita». Mentre un giovane, ignorante e odioso manager (interpretato da Adam Scott) smembra i reparti storici della rivista, licenziando tutto il personale, Walter parte alla ricerca dello scatto 25 (mancante nel rullino inviato da Sean) e del suo avventuroso alter ego Sean, fra Groenlandia, Islanda e Afghanistan.

giovedì 26 dicembre 2013

Marie Antoinette di Sofia Coppola (2006)

Shüttern sul Reno, 1770. Un confine che è già la parete di una prigione accoglie il corpicino, presto svestito di ogni spoglia austriaca, della giovane arciduchessa Antoine. L’appena quattordicenne deve rinunciare al suo nome e a tutto ciò che di austriaco si porta dietro per divenire Marie Antoinette, Delfina di Francia. Per il suo terzo lungometraggio Sofia Coppola costruisce una nuova prigione - qui dallo sfarzo inaudito trattandosi del vituperato simbolo dell’assolutismo: Versailles - dentro la quale i suoi giovani protagonisti sperimentano rinunce, costrizioni e reazioni. Così come i giovani eroi de Il giardino delle vergini suicide e Lost in translation, Marie Antoinette è costretta a trovare la propria chiave di sopravvivenza nell’ostico labirinto delle convenzioni e dell’etichetta (si vedano le scene della vestizione mattutina per mano della corte), nell’incombente tragedia storica.
La Francia pre-rivoluzione di Sofia Coppola è un caleidoscopio visivo ed emozionale dove il re ha il volto timido di Jason Schwartzman, Marianne Faithfull è l’Imperatrice Maria Teresa, Asia Argento veste i panni della sfrontata Contessa Du Barry, la notoria protetta del re, Jamie Dornan è il bellissimo Conte di Fersen, Rose Byrne è la Duchessa di Polignac, arbiter elegantiae libera e anticonvenzionale e la regina Marie Antoinette ha il volto di una delle vergini: Kirsten Dunst. Quella di Sofia Coppola è una Versailles in cui risuonano Siouxsie and the Banshees, Adam and the Ants i Cure di Plainsong, gli Air e The Strokes, si indossano parrucche altissime dall’attitudine punk e Converse All Star giacciono sotto tavolini stracolmi di leccornie e coppe di champagne.

domenica 15 dicembre 2013

Il grande Lebowski dei fratelli Coen (1998)


Il Grande Lebowski non è soltanto il capolavoro più conosciuto, amato e venerato (c’è anche una religione riconosciuta ispirata al protagonista: il Dudeismo) dei fratelli Coen è anche – insieme a Arizona Junior e Barton Fink – la loro pellicola più vicina a una scelta estetica Avant-Pop. La costruzione di una grande narrazione originale a partire da istanze, riferimenti e generi diversi è qui completamente riuscita ed esemplare. Joel e Ethan partono da un importante modello di riferimento: quel Raymond Chandler da cui i Coen mutuano la coesistenza (e interazione) orizzontale delle diverse classi sociali e la rappresentazione “epica” e squisitamente letteraria della città (in questo caso Los Angeles), con precisi connotati in termini di way of life (dalla corrotta Venice Beach alle autostrade in notturna passando per le ville dei magnati già incontrate in Barton Fink). Abbiamo poi la matrice filosofica di natura accademica (non dimentichiamo che Ethan si è laureato a Princeton con una tesi su Wittgenstein) che in particolare ne Il Grande Lebowski vede l’ideologia trotskista incarnata nella fisicità rilassata del Drugo (interpretato da un iconico Jeff Bridges) e il nichilismo tedesco materializzato nei suoi antagonisti, per l’appunto il trio dei Nichilisti: musicisti pop rock con esplicito riferimento ai Kraftwerk (quale band migliore per rappresentare l’estetica nichilistica?). Infine la rappresentazione critica dell’arte contemporanea e le sue futili e spesso incomprensibili istanze incarnate nel personaggio di Maude Lebowski (dichiarato riferimento all'artista dell’avanguardia femminista Carolee Schneemann).

sabato 14 dicembre 2013

Archetipi Avant-Pop: Picnic ad Hanging Rock


Twin Peaks, da molti accolto come una sorta di nuovo anno zero, trova le sue radici già qualche decennio prima della sua baluginante apparizione sui nostri teleschermi. Certo, Twin Peaks è rivoluzionario in quanto prodotto seriale pensato appositamente per la televisione: un seme che ha permesso il germogliare di un nuovo genere (e soprattutto di una nuova qualità) che va da X-Files fino a Lost; ma se andiamo a recuperare uno strambo romanzo del 1970 possiamo già trovare suggestioni e tematiche d’ansia e trascendenza riprese poi nello stesso Lost (che appunto abbiamo detto è germogliato grazie al dissodamento operato da Lynch): Picnic ad Hanging Rock. Dal romanzo, qualche anno dopo, venne tratto l’omonimo e bellissimo film di Peter Weir.

È particolarmente interessante la vicenda editoriale del romanzo: scritto in sole quattro settimane dall'australiana Joan Lindsay l'opera venne pubblicata senza il capitolo finale. La vicenda è presentata ambiguamente come documento storico con dati volutamente incoerenti, narra di un picnic svoltosi sabato 14 febbraio 1900 (ma nel 1900 il 14 febbraio cadde di mercoledì). Un gruppo di studentesse dell’aristocratico e vittoriano collegio Appleyard si reca in gita di piacere sul complesso roccioso di Hanging, dove tra l'afa silente e il sole immobile la tragedia profuma l’aria con toni pungenti. Tre ragazze e un’insegnante spariscono nel nulla e vane saranno le ricerche per ritrovarle, una tragedia misterica che sconvolge e guasta l’animo dei sopravvissuti. Al mistero l’autrice diede una spiegazione nel capitolo XVIII, che però venne scartato dalla Casa Editrice e venne pubblicato solo dopo la morte della Lindsay. La mancanza, per lungo tempo, di una risoluzione esplicita all’enigma ha fomentato la fantasia di molti, creando attorno alla storia un alone di “misterismo” inquietante e seducente. 

mercoledì 4 dicembre 2013

Prima che tu mi tradisca di Antonella Lattanzi (2013)

Il suo Devozione era stata una lettura viscerale, straziante per la capacità di porre il lettore di fronte a se stesso, di fronte al desiderare, quell’attitudine a darsi senza condizioni per qualcosa o per qualcuno. Un narrare già allora compiuto quello di Antonella Lattanzi, che oggi torna in una rappresentazione più ampia, maneggiata con sicurezza e capacità, in Prima che tu mi tradisca (Einaudi Stile Libero BIG).
Il romanzo è una lettura avvincente, dall’architettura complessa, godibilissima, ancora una volta in grado di rappresentare l’umano per quello che è: abile menzognero, teso nel desiderio, immerso nell’inconscio e mutabile.
Al centro della vicenda di Prima che tu mi tradisca c’è la famiglia, luogo, rete, labirinto umbratile e terrificante, codice, particella elementare di colpa e dolore. Gli interni asfittici e orribili (si pensi alla casa delle sorelle Del Sole che ricorda certe visioni di Mauro Bolognini), la sterilità dell’accudire tipica di Mamma Italia, l’odio deflagrante dopo il più ignavo dei silenzi.
Michela e Angela Junior (Angelagèi) Cipriani sono, nelle mani di Antonella Lattanzi, nuovo strumento per porre ancora una volta il lettore di fronte a se stesso, in un’esperienza di lettura unica, fatta di dolore, piacere e accondiscendenza. Michela, si scompone fra le pagine, è una creatura polimorfa, adolescente introversa in cerca della propria occasione, sorella col culo scomodo in famiglia, mefitica e macilenta giovane donna. La seconda, Angela Junior, è la sorella che vive dall’altra parte dello specchio, lontana, eterea, bellissima e cosciente, poi fragilissima e devota, ça va sans dire, nel senso lattanziano del termine. Le due sorelle Cipriani scrivono le proprie memorie dal sottosuolo prima in una Bari che è l’amato proscenio in cui si consuma la tragedia di più di una generazione - il bombardamento del ’43, il rogo del Petruzzelli, la Japigia feroce e fiabesca in cui diventare adulti – poi in una Roma sospesa, liquefatta e precaria.  Come in Devozione la prosa di Lattanzi si muove fra diversi registri, punti di vista e immaginari: la fiaba, la poesia, il gioco linguistico («nascondersi nel papà», «Angelajunior si annoiò della tristezza»), i dialoghi usati come strumento narrativo principe.
Lattanzi è oggi l’ultima delle scrittrici in grado di narrare il femminile. Il tradimento, la colpa, l’abbandono e la rincorsa del sogno d’amore che muovono le scelte di Angela Junior e Michela sono tutti elementi che fanno di Antonella Lattanzi l’unica capace di percorrere la via segnata da Aleramo e de Céspedes.

Muoversi fra i diversi piani temporali di Prima che tu mi tradisca assume presto l’aspetto di una ricerca, un esercizio mnemonico e cangiante in cui menzogna e realtà si diluiscono l’una nell’altra, con squarci di lucidità agghiaccianti e memorabili. Il tutto prima dell’imponente visione finale, (neanche a dirlo nel cuore di Bari) per l’ultimo confronto, shakespeariano e umorale, della famiglia Cipriani.