lunedì 28 maggio 2012

Cosmopolis: la colonna sonora di Howard Shore + METRIC


di Lorenzo Peroni

Cosmopolis è un film bellissimo e difficile: una cosa non ha mai escluso l'altra. Oggi non si capisce come mai dovrebbe. Poco importa perché il nuovo film di Cronenberg è soprattutto un film importante. Come qualcuno ha già osservato Cosmopolis è il primo (grande) film sul nuovo millennio. Tacciata ingiustamente di essere anti-cinematografica la pellicola è imbevuta di una forte carica suggestiva e i dialoghi - riportati fedelmente dal romanzo omonimo di Don DeLillo - di tale bellezza fredda e straniante che altro adattamento o riduzione non sarebbe sembrata ammissibile. 
La poetica dell'identità/alterità (caposaldo della produzione di Cronenberg) scivola dall'individuo rappresentato con un sistema (Videodrome) a un sistema intero rappresentato come un individuo. 
Ad accompagnare le immagini una colonna sonora sintetica e ipnotica composta dal premio Oscar Howard Shore (fedele a Cronenberg dai tempi di Brood - La covata malefica) in collaborazione con i METRIC. Dal Canada, il compositore e la band si ritrovano così nuovamente riuniti al cinema dopo aver già collaborato al pezzo All Yours per la colonna sonora di Eclipse (con Robert Pattinson). Il risultato è una perfetta sinergia tra suono e immagine, tra intento e risultato, tra mezzo e messaggio, in una sorta di via crucis nella quale ogni tappa di questo disturbante viaggio verso il boh è scandita da un pezzo, un tema per ogni capitolo: Asymmetrical per la visita rettale e la scoperta della prostata imperfetta (asimmetrica); la bellissima Mecca, del somalo K'NAAN (con testi di Don De Lillo), per i funerali itineranti con danze sufi dell'amico rapper del protagonista, e via di seguito. 

Compiuta, piena di visioni e suggestioni, onirica ed erotica, disturbante e conciliante: una colonna sonora che si rivela un tassello vitale per un film fondamentale alla cinematografia e alla coscienza sociale.

domenica 27 maggio 2012

Corpo tecnologico, natura e sessualità: Cosmopolis di David Cronenberg (2012)


«Il nostro legame con l’auto è molto primitivo. L’auto è diventata un’appendice quintessenziale dell’uomo (…). Abbiamo ormai incorporato l’automobile nella comprensione del tempo, dello spazio, della distanza e della sessualità. Voler immergersi in tutto ciò in modo letteralmente fisico mi pare una buona metafora. C’è un desiderio di fondersi con la tecnologia». Queste parole, usate da David Cronenberg per annunciare nel 1996 la volontà di voler lavorare all’adattamento cinematografico del romanzo di J. G. Ballard Crash, mi sembrano perfette per introdurre il nuovo lavoro del regista canadese, l’ennesima impervia riduzione cinematografica della sua carriera: Cosmopolis tratto dall’omonimo romanzo profetico e genuinamente Avant-Pop di Don De Lillo, pubblicato nel 2003. Queste parole sono anche il motivo per cui i fan detrattori di A Dangerous Method torneranno ad amare il lavoro del regista che ha regalato loro Videodrome, Scanners ed eXistenZ, tre pellicole che si rivelano parentali nei confronti del nuovo arrivato Cosmopolis.
Per il protagonista Eric Packer (Robert Pattinson), giovanissimo magnate della finanza, l’automobile non è soltanto parte di sé, armonica rappresentazione della fusione fra tecnologia ed essere umano, è il SÉ, il proscenio teatrale in cui si agitano e prendono forma le proprie sfere intrapsichiche: i torbidi desideri dell’Es e le imposizioni del Super-Io. A quest’ultimo Eric tenterà di sottrarsi per tutto il tempo in modo da ottenere quella conoscenza, che lo rende tanto terribile agli occhi del mondo e della neo moglie Elise (Sarah Gadon). Eric è figlio dei degenerati protagonisti di Crash, sa che quello fra tecnologia e natura non è più un semplice rapporto ma che è ormai una fusione totalmente estremizzata. La natura – nella New York di Cosmopolis – è ormai emanazione della tecnologia, gli esseri umani, le loro manifestazioni - come spiega la consulente teorica Vija Kinsky (una straniante e magnifica Samantha Morton) – sono azioni del corpo tecnologico degenerato, che vive nella contemporaneità sottoforma di capitalismo finanziario. Eric l’ha capito da giovanissimo costruendo la sua fortuna su modelli finanziari ricalcanti le strutture naturali, ma oggi (è centrale nel film, come nel romanzo, il rimarcare continuo del tempo inteso come eterno presente, uno streaming temporale fatto di rappresentazioni contemporanee giustapposte), mentre ingaggia una sfida contro lo yen (in particolare contro la sua rappresentazione finanziaria e quindi digitale) e mentre un’oscura «minaccia plausibile» lo incalza, Eric prenderà coscienza dell’anomalia, del dettaglio sfuggitogli durante la costruzione dell’armonico e simmetrico schema finanziario che lo ha portato al successo, un concetto che è già dentro di sé (come rivelerà lo straniante non-finale) e di cui il giovane magnate si renderà conto solo troppo tardi.

giovedì 24 maggio 2012

Popeye - Braccio di Ferro di Robert Altman (1980)


Benvenuti nella città di Sweethaven, un angolo d’America dove la tranquilla gente locale ha rinunciato alla democrazia per vivere meglio. Arroccata sul mare, vive di pesca, di quella sana semplicità che risulta preziosa in un periodo di crisi come la Grande Depressione. Qui giunge Popeye, alla ricerca del padre che l'abbandonò all’età di soli due anni, ma è soprattutto il luogo in cui Robert Altman decide di realizzare al suo tableau vivant Avant-Pop (il film è citato tra gli archetipi del movimento da Larry McCaffery nell’imprescindibile appendice al suo Schegge d’America).
Il pretesto è portare sullo schermo Popeye (Braccio di Ferro), personaggio dei fumetti creato nel 1919 da Elzie Crisler Segar, in uno degli esperimenti di osmosi fra la settima arte e il fumetto più felici in assoluto (estimatori della pellicola l'illuminato Roger Ebert e Vincent Canby). Altman dopo aver omaggiato nell'introduzione l’animatore Max Fleischer, realizza un film musicale e corale in cui i personaggi sono stereotipi dalle peculiarità esasperate, le scene riccamente coreografate e la comicità filologicamente slapstick. I costumi di Scott Bushnell (collaboratore di Altman in molti suoi lavori tra cui Pret-à-porter) tendono a esasperare i simboli sociali: cappelli enormi, stole viventi, scarpe da fumetto, cappotti a campana, colori sgargianti, pois, fiori e altri accessori giganti. Bushnell lavora come se i personaggi di American Gothic di Grant Wood debbano partecipare una sfilata di Moschino, per poi finire la serata all’after party organizzato dal Cappellaio Matto…

lunedì 21 maggio 2012

Breakfast Club di John Hughes (1985)


Manifesto generazionale sottoforma di pellicola, ha avuto la prontezza di fissare nel modo migliore quella MTV Generation che da lì a breve sarebbe esplosa, moltiplicandosi negli anni a venire in decine e decine di nicchie sociali (leggi anche appetibili segmenti commerciali). Parliamo del sempreverde Breakfast Club di John Hughes che con questo film riprese il filone generazionale cinematografico contemporaneo degli High School Movie, poi traslatosi con risultati altalenanti nella serialità televisiva (Beverly Hills 90210, Dawson’s Creek) per arrivare oggi alla deriva nel reality (si pensi al programma Made di MTV). Il film è ricordato anche per le qualità cinematografiche, tra cui dialoghi e sceneggiatura memorabili.
È il 24 marzo 1984. Siamo a Chicago ed è sabato pomeriggio. Un gruppo di automobili si avvicina all’ingresso principale della Shermer High School, al volante alcuni genitori che lasciano di fronte all’ingresso i propri figli, costretti a passare per punizione un pomeriggio intero nella biblioteca della scuola. Fa eccezione Bender (Judd Nelson) che avvolto in un lercio cappotto di panno raggiunge a scuola a piedi. Già dalle prime inquadrature si delinea la base su cui Hughes intende poggiare Breakfast Club: la tipizzazione sociale dei diversi personaggi che da individui incarnano cinque diverse categorie giovanili. Claire Standish (Molly Ringwald) è la «principessa di papà», ricca, vergine e popolare, Andrew Clark (Emilio Estevez), la sua controparte maschile, sportivo, icona della scuola, vive carico di aspettative (alcune davvero oscure) da parte del padre, Brian Johnson (Anthony Michael  Hall) è il classico nerd, secchione e sensibile, Allison Raynolds (Ally Sheedy) è la disadatta, dark, stramba e creativa (anche nella menzogna) e John Bender, l’outsider, anticonformista, sessualmente libero e scanzonato, con una famiglia violenta e disfunzionale alle spalle. Cinque declinazioni che Hughes intrappola nella biblioteca della scuola per raccontare un’intera generazione. 

sabato 19 maggio 2012

Francesco Paolo Catalano: Il video di Jökking di Donato Di Trapani (2012)


Un bozzolo di suoni elettronici, un insieme di melodie fuse a formare un sincizio pulsante di suoni ed evocazioni, questo è Jökking, brano prodotto dal musicista di origini siciliane Donato Di Trapani. Sulle suggestioni del brano ha lavorato il fotografo e videomaker palermitano Francesco Paolo Catalano che rileva l’attitudine nevroromantica del brano attraverso la rappresentazione della dicotomia – mutuata dal cinema di David Lynch e David Cronenberg - interno/esterno. Il setting del video è un appartamento dalle pareti bianche, scevro di orpelli e ricco di oggetti-simbolo, attraverso cui F.P.C. narra la storia di Costanza (personaggio precedentemente creato dal fotografo per quella che lui stesso definisce come una sua «novella fotografica»). La regia sceglie sfocature, inquadrature simmetriche, stop motion e reiterazione della stessa immagine per raccontare una storia fatta di identità, nevrosi, onirismo e rimozione.  L’impossibilità di recuperare un oscuro segmento di memoria, ecco come F.P.C. interpreta Jökking, egli punteggia di dettagli stranianti (fasciature, sincopi respiratorie, corpi dall’identità celata) la sua visione provocando nello spettatore, alla maniera dei surrealisti, un effetto di perturbazione e inquietudine crescente. 

sabato 12 maggio 2012

Dark Shadows di Tim Burton (2012)


Fa davvero piacere ritrovare Tim Burton in piena forma, coerente sia con l’immaginario che l’ha reso riconoscibile nel mondo sia con la macabra e fiabesca ironia che l’ha contraddistinto dai tempi di Beetlejuice e Edward mani di forbice. Il primo punto di partenza è certamente l’amore dichiarato per la soap opera gotica Dark Shadows su cui è basata la pellicola, ma non basta (pensiamo all’imbarazzante Alice in Wonderland). In Dark Shadows a fare la differenza è il recupero (insieme alla grande carica immaginifica che non ha mai abbandonato il regista di Big Fish) delle istanze ironiche del suo cinema negli anni Novanta.
Andiamo con ordine. L’idea è di realizzare un remake (non di certo il primo) della fortunata soap opera gotica Dark Shadows che nella sua programmazione originale tenne incollati gli spettatori dal 1968 al 1971, con ben 1225 episodi. Dark Shadows, che inizialmente non possedeva istanze sovrannaturali, passò alla storia per essere la prima soap ad aver introdotto elementi come fantasmi, vampiri (la serie iniziò ad avere successo dall’introduzione del vampiro Barnabas Collins nel cast), lupi mannari, zombie, streghe, viaggi nel tempo e universi paralleli. Bisogna dirlo, il lavoro di Tim Burton è eccellente e raffinato. Il regista de Il mistero di Sleepy Hollow, nel prologo racconta di come la famiglia inglese dei Collins sia giunta nel Maine per mettere su una grande impresa ittica, la cui fortuna si rifletterà nello sviluppo di un porto e di una cittadina, che proprio dalla famiglia d’imprenditori prenderà il nome di Collinsport. È delizioso come Burton riproponga le istanze del gotico americano nella figura di H. P. Lovecraft ambientando la vicenda nel Maine, in una cittadina portuale nei cui anfratti si officiano oscuri rituali e le cui scogliere sono scenario di inspiegabili e orribili morti suicide. Un immaginario che richiama alla memoria la cittadina di Innsmouth dei racconti lovecraftiani.

martedì 8 maggio 2012

Nip/Tuck: crudezza estetizzante e famiglia customizzata


«Ci dica cosa non le piace di se stesso». Per sei stagioni abbiamo seguito i consulti dei chirurghi plastici Sean McNamara (Dylan Walsh) e Christian Troy (Julian McMahon), introdotti dalla frase di rito che presentava ai due medici (e agli spettatori dello show) i desideri, le aspirazioni e le ossessioni dei pazienti desiderosi di mutare il proprio Io attraverso la modificazione e la manipolazione dell’aspetto fisico. Ognuno dei cento episodi di quella che a buon diritto è considerata una serie di culto, prende il titolo dal nome del personaggio che richiede l’intervento dei due chirurghi. Sean e Christian, specularmente, riflettono e proiettano le scelte e le ossessioni dei pazienti nella propria, incasinatissima, vita privata. Il makeover è verbo, è totalizzante ed è alla base di una visione della realtà che tende a celare oscurità, bruttura e imperfezione sotto la caduca superficie del proprio corpo. 
Le sei stagioni (2003-2010) di Nip/Tuck hanno visto saldamente al timone della serie il creatore Ryan Murphy (oggi padre di Glee e American Horror Story) che ha garantito un’evoluzione dei personaggi coerente con l’idea iniziale. Christian e Sean rappresentano la coppia intorno a cui si muove e si evolve una scellerata famiglia customizzata. Il primo è estroverso, cinico, epicureo, vittima sessuale del padre durante l’infanzia sfoga il trauma con una sovraesposizione sessuale e godereccia che lo porterà a mettere incinta persino la moglie del suo compagno di vita, il morigerato e insicuro Sean. Al centro del ménage à trois Julia (interpretata dalla sempre più stupenda Joely Richardson), madre e moglie frustrata (ha lasciato gli studi di medicina a causa di una gravidanza), porterà sull’orlo della follia i propri figli: Annie (che da adolescente inizierà a nutrirsi solo dei capelli che si strapperà dalla testa), Matt (che finirà a rapinare i negozi di Venice Beach truccato da mimo) e il piccolo Conor che vivrà convinto di aver provocato il divorzio dei genitori. Menzione particolare meritano l’anestesista Liz Cruz (Roma Maffia), unica ancora di sensibilità e coerenza nella tempesta di immonde azioni e intenzioni del duo di chirurghi, e la pornostar Kimber Henry (Kelly Carlson), vittima sacrificale predestinata da immolare sull’altare del desiderio edonistico e solistico eretto da Christian.

lunedì 7 maggio 2012

eXistenZ di David Cronenberg (1999)


Nel 1999, a Berlino dove il film è stato presentato, David Cronenberg disse che l’idea da cui nacque la sceneggiatura di eXistenZ (si scrive proprio così, con la prima lettera minuscola e le lettere “X” e “Z” maiuscole) fu l’incontro del regista canadese con lo scrittore indiano Salman Rushdie. Come sappiamo l’autore de I versi satanici è vittima di una fatwa islamica per aver osato riscrivere nel suo libro la storia del profeta Maometto. Come Rushdie anche la protagonista di eXistenZ Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh), è vittima di una condanna per aver osato mettere in crisi le coordinate del reale, aprendo di fronte all’essere umano («così finito», dirà la stessa Allegra all’inizio del film) possibilità immaginifiche infinite.
Ancor prima dello spettacolare Inception e nello stesso anno dell’uscita di Matrix Cronenberg realizza una pellicola – come solito nella produzione del regista di Scanners – in cui i diversi piani di rappresentazione sono tutti ugualmente possibili e mimetici. Non ci sono stacchi particolari, espedienti della fotografia o della regia che possano far pensare a un piano artificiale (onirico o digitale). I personaggi si muovono verticalmente, affrontando i diversi livelli del gioco eXistenZ. Essi perdono la percezione del perimetro del reale e questa insicurezza legata alla percezione (che è cardine fondamentale per comprendere l’intera produzione di Cronenberg) è il vero motore narrativo di eXistenZ e la riflessione che il regista vuole indurre nello spettatore.

venerdì 4 maggio 2012

Hollywood Babilonia II di Kenneth Anger (1984)


Con un obiettivo che Kenneth Anger svelerà solo nel capitolo finale – dove passeremo dall’epicureo «Hollywood Babilonia» al nefasto «Hollywood Armageddon» – lo scrittore e cineasta, amico di Aleister Crowley, ci riporta nella «città degli orpelli» per continuare a raccontare vizi, debolezze e paure delle divinità di celluloide e le azioni compiute dalla scellerata fauna di arrivisti, estorsori e assassini che nel tempo hanno provato a mettere le mani sul business dello spettacolo cinematografico.
Il primo volume si era concluso su uno sciorinare di morti al gusto di Seconal per cui non sorprende ritrovare Anger, nel primo capitolo di Hollywood Babilonia II, in giro per cimiteri a godere del silenzio che accoglie le spoglie degli eroi della sua fanciullezza: i divi del cinema degli anni Venti, tra cui l’amato Rodolfo Valentino. All’ombra dei cipressi, Kenneth Anger, ci annuncia cosa ci aspetta durante questa nuova capatina tutta in notturna, fra i viali illuminati e le lussuose abitazioni celanti i più sordidi segreti di Hollywood. Con lo stile che lo contraddistingue e l’affilatissimo humour nero (come una notte senza luna) ci porta nelle aule di tribunale, dove si consuma la passione adultera fra Paul Kelly e Dorothy Mackaye, finiti in prigione per la morte del di lei marito: il povero Ray Raymond, dove il greco Pantages si protegge da un agguato tesogli per carpire il suo giro di distribuzione cinematografica, il più grande e luccicoso d’America (i suoi cinema erano noti per essere assai sfarzosi e decorati in maniera originale).

martedì 1 maggio 2012

Carnivale: Dio biblico e Grande Depressione


Carnivàle (2003-2005) mette in scena l'annosa e bidimensionale lotta fra bene e male ambientandone le battaglie durante quella Grande Depressione che gettò nella polvere il Sogno Americano. Il contesto di una crisi, lo sappiamo, è caratterizzato da una violenta messa in discussione delle certezze e delle verità assolute, esso diventa terreno fertile - giocoforza il concetto di premio/pena - per il famelico e agghiacciante fanatismo religioso. Tutto ciò è rielaborato con attitudine surrealista in Carnivàle. Non è un caso che l’antagonista dell'ignaro e razionale Ben Hawkins (Nick Stahl) sia il prete metodista Justin Crowe (interpretato da un possente Clancy Brown), incarnazione imperfetta di un Dio biblico, vendicativo e violento. Attorno ai due protagonisti si muove una nutrita fauna di freaks ed Esp dalle intenzioni indecifrabili che arricchisce lo scenario patinato e polveroso del circo (altro topoi classico di certa fiction letteraria e cinematografica che ci piace tanto), regalando allo spettatore deliziosi momenti di suspense, comicità e delirio. 
Se la prima stagione è per Carnivàle l’Antico Testamento - con tanto di profeti e profezie, viaggi e rivelazioni, deserti di sale, terre promesse e alberi infuocati - la seconda (e purtroppo ultima) stagione rappresenta il Nuovo Testamento.