«Il nostro legame con l’auto è molto
primitivo. L’auto è diventata un’appendice quintessenziale dell’uomo (…). Abbiamo
ormai incorporato l’automobile nella comprensione del tempo, dello spazio,
della distanza e della sessualità. Voler immergersi in tutto ciò in modo
letteralmente fisico mi pare una buona metafora. C’è un desiderio di fondersi
con la tecnologia». Queste parole, usate da David Cronenberg per annunciare nel 1996 la volontà di voler
lavorare all’adattamento cinematografico del romanzo di J. G. Ballard Crash, mi sembrano perfette per
introdurre il nuovo lavoro del regista canadese, l’ennesima impervia riduzione
cinematografica della sua carriera: Cosmopolis tratto dall’omonimo romanzo profetico e genuinamente Avant-Pop di Don De Lillo, pubblicato nel 2003.
Queste parole sono anche il motivo per cui i fan detrattori di A Dangerous Method torneranno ad amare
il lavoro del regista che ha regalato loro Videodrome,
Scanners ed eXistenZ, tre pellicole che si rivelano parentali nei confronti del
nuovo arrivato Cosmopolis.
Per il protagonista Eric Packer (Robert Pattinson), giovanissimo magnate della finanza, l’automobile non è
soltanto parte di sé, armonica rappresentazione della fusione fra tecnologia ed
essere umano, è il SÉ, il proscenio teatrale in cui si agitano e prendono forma
le proprie sfere intrapsichiche: i torbidi desideri dell’Es e le imposizioni
del Super-Io. A quest’ultimo Eric tenterà di sottrarsi per tutto il tempo in
modo da ottenere quella conoscenza, che lo rende tanto terribile agli occhi del
mondo e della neo moglie Elise (Sarah Gadon). Eric è figlio dei degenerati
protagonisti di Crash, sa che quello
fra tecnologia e natura non è più un semplice rapporto ma che è ormai una
fusione totalmente estremizzata. La natura – nella New York di Cosmopolis – è ormai emanazione della tecnologia,
gli esseri umani, le loro manifestazioni - come spiega la consulente teorica
Vija Kinsky (una straniante e magnifica Samantha Morton) – sono azioni del
corpo tecnologico degenerato, che vive nella contemporaneità sottoforma di
capitalismo finanziario. Eric l’ha capito da giovanissimo costruendo la sua
fortuna su modelli finanziari ricalcanti le strutture naturali, ma oggi (è
centrale nel film, come nel romanzo, il rimarcare continuo del tempo inteso
come eterno presente, uno streaming
temporale fatto di rappresentazioni contemporanee giustapposte), mentre
ingaggia una sfida contro lo yen (in particolare contro la sua rappresentazione
finanziaria e quindi digitale) e mentre un’oscura «minaccia plausibile» lo
incalza, Eric prenderà coscienza dell’anomalia, del dettaglio
sfuggitogli durante la costruzione dell’armonico e simmetrico schema
finanziario che lo ha portato al successo, un concetto che è già dentro di sé
(come rivelerà lo straniante non-finale) e di cui il giovane magnate si renderà
conto solo troppo tardi.
Juliette Binoche è la mercante d'arte agé Didi Fancher. |
La vicenda copre un’intera giornata, un viaggio
attraverso la città di New York intrapreso dal tecno-flaneur Eric per tagliarsi
i capelli dal suo barbiere di fiducia a Hell’s Kitchen. Come sempre nel cinema
di Cronenberg la visione cinematografica è costruita sul rapporto interno esterno,
sui suoni e le immagini che Eric decide di far entrare in sé (nella forma della
limousine bianca che abita): la protesta no-global degli uomini ratto che
inveiscono contro lo spettro del capitalismo (non rendendosi conto di farne
parte, di essere una forma di disequilibrio voluta dallo stesso organismo
tecnologico), il funerale di Ibrahim, il rapper sufi amico di Eric che sta
paralizzando la città (splendida l’immagine dei dervisci che ballano intorno al
carro funebre mentre le note di Mecca riempiono
l’abitacolo della limo), la minaccia sempre più «plausibile»
(perché viene dallo stesso Eric) che ossessiona il capo della sicurezza Torval.
Come in Scanners assistiamo
continuamente allo scambio fra interno ed esterno, qui dipendente dalla volontà
di Eric, uno scambio che non è più tra corpo e ambiente ma fra
corpo-tecnologico (l’automobile) e realtà degenerata. Sappiamo anche quanto sia
importante per David Cronenberg mettere alla prova la visione dello spettatore.
Questo deve essere continuamente mosso a domandarsi se ciò che sta vedendo
esiste nel tempo reale del racconto o è emanazione (onirica piuttosto che
psichica) prodotta da uno dei personaggi, i come ci sembra per le figure che
dialogano con Eric nell’abitacolo: la già citata Vija, il consulente informatico
nerd e mellifluo Shiner, il giovanissimo e speculare enfant prodige Michael Chin, la mercante d’arte agé Didi Fancher (una scarmigliata
Juliette Binoche, perfettamente nella parte), il rapper Kosmo Thomas; e fuori
da esso come il tarchiato Torval (chiara rappresentazione del super-Ego di
Eric), il barbiere ab origine Anthony
e la «minaccia
plausibile»
Benno Levin (Paul Giamatti).
Il viaggio di Eric può essere inteso come la
rappresentazione completa del metodo psicoanalitico, il colloquio (portato all’esasperazione
straniante durante le sequenze nel barber
shop e nell’appartamento di Benno), le fasi sessuali di freudiana teoria,
la centralità del sesso e la sua sublimazione, in particolare nel cibo da parte
di Eric che consuma i pasti di fronte alla moglie Elise chiedendole
continuamente quando potranno “consumare” il loro di matrimonio.
Nonostante la filologica pedanteria nel riportare i
dialoghi di DeLillo (Marco Cacioppo su «Nocturno Magazine» racconta
di come Cronenberg abbia scritto la sceneggiatura in sei giorni, i primi tre dei
quali passati a trascrivere, così come sono nel romanzo, i dialoghi di DeLillo)
il film possiede – nella sua rappresentazione della mutazione operata da Eric
su se stesso - una grande carica immaginifica, tipica della visione
cronenberghiana tout court, tra le
poche in grado di interpretare questa realtà franta, giustapposta e ormai alla
deriva.
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