sabato 15 febbraio 2014

Bambole e sangue di Paul Bartel (1972)

Benvenuti a Los Angeles. Questa non è la Città di Smeraldo che avevate immaginato di trovare e Dorothy non è più la dolce good good girl che viene dal Kansas ma una giovane ninfa scappata di casa per giungere dalla zia Martha, creatura disturbante tanto quanto la fauna che si muove fra i corridoi dell’albergo che dirige.
Paul Bartel, regista dal gusto sopraffino cresciuto (senza morirvi) alla corte di Roger Corman realizza il suo primo cortometraggio, Bambole e sangue (Private parts) superando i generi, innestandoli l’uno sull'altro (proprio come fa il protagonista George con le sue bambole riempite d’acqua) per ottenere un oggetto cinematografico “altro”, inclassificabile e per questo difficile da vendere, ma stupendo nella capacità di prendere l’immondizia, il sordido, il disturbante, spargerlo per i corridoi di un malandato albergo e dare vita a una visione brillante e di grande genialità.
Vale la pena ricordare come l’«albergo» sia da considerarsi una categoria Avant-Pop a tutti gli effetti, in cui ogni camera, ogni piano, ogni corridoio o ascensore è l’apertura su un immaginario diverso (o su schegge dello stesso), una finestra liminale sulle più disparate categorie psicoanalitiche. Ricordiamo Hotel Room di David Lynch, Shining, Four Rooms e Barton Fink dei fratelli Coen, solo per fare qualche esempio. Bartel ne celebra ogni angolo, persino il più mefitico, col fare dell’esteta. Dal seminterrato, con la camera oscura del fotografo George, al santuario leather gay del reverendo Moon (con tanto di statua di Cristo avvolta nelle catene e carte da gioco à la «Physique Pictorial»), dall'appartamento di Zia Martha (che sembra uscito, come la proprietaria, da Gran Bollito di Mauro Bolognini) alla camera-set di George, un’installazione disturbante a metà fra la factory di Warhol e il racconto di Poe. Paul Bartel ci fa muovere in ognuna di esse, ci fa sentire ogni scricchiolio, ogni rumore fra le pareti, ci fa godere di ogni sguardo da voyeur, ci fa inaspettatamente entrare in camere, dove attempate carampane in Wayfarers si fanno le lampade invocando il nome di modelle morte o svuotare quella del più ubriaco e sudicio degli avventori.
Bambole e sangue regala alcune fra le visioni più disturbanti del cinema (non avete idea di cosa si può fare con un prelievo di sangue e una bambola gonfiabile piena d’acqua), si muove a metà fra Psycho e Sleepaway Camp, vi s’incontrano, fugaci, Warhol, De Palma e John Waters. In definitiva un recupero necessario che restituisce il giusto merito a un regista di grande valore come Paul Bartel.

domenica 9 febbraio 2014

Il Cimitero di Praga di Umberto Eco (2010)

Il Cimitero di Praga rappresenta per Umberto Eco la summa, la convergenza di anni di ricerche, letture (provenienti soprattutto dalla sua incredibile collezione, Eco è infatti un grande bibliofilo-collezionista) e pubblicazioni su I protocolli dei Savi di Sion. Eco ne ha fatto una vera fissazione: li cita nel suo Pendolo di Foucault e ne ha raccontato la storia in Sei passeggiate nei boschi narrativi e nella prefazione a Il Complotto, magistrale graphic novel di Will Eisner.
Eco muove da un’incredibile mole di materiale proveniente da diversi generi che qui centrifuga, coniuga e re-impasta per ottenere un risultato quanto mai appassionante (il picaresco, il feuilleton) e straniante (tutti i personaggi tranne il protagonista Simonino Simonini sono realmente esistiti). Eco stesso avverte: le vicende narrate e attraversate dal suo protagonista sono realmente esistite e muovono da libri, riviste, giornali e documenti consultabili. Non per nulla così si esprime il suo Simonini: Quando una spia vende qualcosa di inedito non deve far altro che raccontare qualcosa che si potrebbe trovare in ogni mercatino di libri usati. In una magistrale comunione d’intenti il racconto della realizzazione de I Protocolli de Il Cimitero di Praga nasce dalla stessa operazione postmoderna del “riciclo” che riguarda I Protocolli stessi redatti dall’accostamento di autori, opere e idee incontrate in precedenza da Simonini: Eugène Sue, Alexandre Dumas (che il lettore incontrerà come personaggio fra le pagine del romanzo in Sicilia, al fianco di Garibaldi), Joly e Alphonse Toussenel.

I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac (1958)

I vagabondi del Dharma
Se Sulla strada (1957) rappresenta il volto di una nuova, giovane, generazione, figlia della piccola borghesia statunitense, in fuga dalla pervadente phoniness (falsità/ipocrisia) della società dei consumi, I vagabondi del Dharma, uscito un anno dopo, è la naturale continuazione del percorso intrapreso da Jack Kerouac, con la fisiologica presa di distanza dalla scena generazionale che lo stesso autore aveva contribuito a creare. Ne I vagabondi la visione si fa più malinconica, personale, certamente più ispirata. La ricerca della «visione di potere della solitudine», il confronto ad alto contenuto emozionale con la bellezza sovrastante e impermanente della natura producono pagine di straordinaria bellezza (letteralmente mozza fiato). Tutto ciò nel viaggio di Ray Smith, dal campus liberale di Berkeley (dove scorgiamo i volti di Allen Ginsberg, Philip Whalen e di altri esponenti del San Francisco Renaissance), fino alla corsa forsennata e surreale giù dai monti del Matterhorn Peak, e ancora il ritorno a casa nell’inverno della Carolina e la conclusione sul Desolation Peak (non prima che un certo battello sia partito per il Giappone…) per l’ultima, immane, visione finale.

domenica 2 febbraio 2014

Miller's Crossing - Crocevia della morte dei fratelli Coen (1990)

Dopo il nero pervasivo e ineccepibile di Blood Simple. Sangue facile stemperato poi nel colore e nella sperimentazione più spassosa di Arizona Junior i fratelli Coen tornano a lavorare sul genere questa volta confrontandosi (in maniera forse troppo accademica e referenziale) con l’hard boiled. In quest’occasione Joel e Ethan si presentano al grande pubblico con una lunga pellicola che riedita (con incursioni postmoderne, come l’amore omosessuale fra alcuni dei gangster protagonisti) il macrocosmo della malavita durante il Proibizionismo: Miller’s Crossing - Crocevia della morte. I fratelli Coen costruiscono qui un’architettura narrativa assai complessa (che pare li mise in seria difficioltà già durante la stesura della sceneggiatura) con costumi e scenografie all’insegna della precisione e del dettaglio, ma che sembra voler in parte rientrare nei ranghi del genere dopo Arizona Junior
È già pienamente presente in Miller’s Crossing - Crocevia della morte la scelta di quello che possiamo definire «simbolismo circolare» (arriveranno poi l’hula-hoop di Mister Hula Hoop il cerchione della ruota in bianco e nero de L’uomo che non c’era) qui rappresentato dall’immagine che apre e chiude la pellicola: un borsalino che rotola via spinto dal vento appena sopra un tappeto di foglie ruggine del Miller’s Crossing: il bosco dove avviene l’epifania del protagonista Tom Reagan.

Nelle avventure di Tom troviamo già l’anticipazione di quelli che saranno i paesaggi narrativi di Fratello, dove sei? fatti di parossismi, scazzottate, dialoghi serratissimi e surreali, come quelli che interessano il capo della polizia intento a dissertare con Tom su quale gangster fra Leo l’irlandese e Giovanni Casparro il napoletano sia migliore alla guida degli affari cittadini.

In definitiva Miller's Crossing - Crocevia della morte è una pellicola che seppur assai autoreferenziale e meno godibile delle precedenti riserva allo spettatore momenti di grande divertimento e pathos, grazie anche alla magistrale interpretazione di John Turturro nei panni del mellifluo Bernie Bernbaum.


Fargo dei fratelli Coen (1996)


Fargo è la dichiarazione d’amore dei fratelli Coen per il mestiere attoriale. Costruendo ancora una volta un’ambientazione crime “altra” dove il pretesto per il nero è la vigliaccheria di un postmoderno «uomo del sottosuolo» (con il volto da nevrosi latente di William H. Macy) che commissiona il rapimento della moglie per ottenere il denaro negatogli, con umiliazioni assortite, dal suocero di ferro. Dichiarazione d’amore dicevamo. La leggiamo in ogni inquadratura, in ogni battuta e nella scelta di una equa e compiuta rappresentazione dei personaggi affidata alla bravura dei tre attori principali: il già citato William H. Macy, l’ectoplasmatico Steve Buscemi e Frances McDormand che per il ruolo di Marge Gunderson vincerà l’Oscar per la migliore interpretazione femminile nel 1997.
Partiamo da Macy al quale è affidato il ruolo del meschino Jerry Lundegaard. Il Nostro rappresenta la frustrazione, la nevrastenia sottopelle e la bassezza edulcorata del personaggio attraverso una mimica facciale fatta di tic rivelatori, sorrisi subdoli da venditore di automobili (quale effettivamente Jerry è), di una leziosa sottomissione (seguita dall'immancabile vigliaccheria) che alberga nel tono di voce e nella postura piegata e goffa di Macy.