«Qui
siamo dalle parti dell’oggetto erotico di quarto tipo. Sguardo “omosex”,
fisicità “etero”, svenevolezze “queer”, re-mixate al ritmo da coroner del “Dopobomba”
degli Slowdive». Roberto Silvestri.
Con
queste parole di Silvestri su Doom Generation il Contenebbia Andrea Bruni chiudeva uno dei suoi pezzi più
belli: una prospettiva su Gregg Araki per il leggendario dossier di «Nocturno Magazine» Quei bravi ragazzi. Parole
che mi sono tornate rapide alla mente dopo la visione di White Bird in a Blizzard.
Qui Araki torna nella zona suburbana per celebrare alcune delle ossessioni che più
hanno influenzato il suo cinema: il confronto con le regole e le suggestioni
del mélo (già terreno di confronto
per John Waters, David Lynch e Todd Haynes), la bellezza iconica di certo porno,
la soap opera, il teen drama e,
dichiaratamente, la performance di Sheryl Lee in Fuoco cammina con me.
Con White Bird in a Blizzard ci troviamo di
fronte a un oggetto cinematografico liminale, i cui contorni sfumano in una
tempesta di neve, con protagonisti che assumono l’aura e l’irresistibile
bellezza dell’icona, personaggi i cui tratti sono la commistione, la ricombinazione,
di diversi immaginari, compresi quelli creati da Araki stesso. Pensiamo al personaggio
di Kat, il cui look è basato su quello adottato da Winona Ryder alla fine degli
anni Ottanta, Gabourey Sidibe che cita la Rose McGowan di Doom Generation (inizio sequenza del party goth) e Mark Indelicato che ci riporta a Totally Fucked Up in un intercalare, la capacità di seppellire i
segreti e capitare "per caso" nei giardini altrui di Peyton Place, il look à la Ray Harley di
Christopher Meloni, l’impostazione lynchiana in cui la superficie mainstream è data a sapide e
posticce pennellate (realizzazione di un finale compreso).
Eve, mi passi il burro? |
Il lavoro
compiuto da Araki segna un nuovo passaggio nel percorso di fuga – impossibile da
recuperare nell’interpretazione del sogno – da quell’«incubo ad aria
condizionata» che Henry Miller ai tempi dell’avvento beat vedeva diventare gli Stati Uniti. Un incubo fatto di accecanti
e bidimensionali mattini, arredamento dai colori pastello, oggetti al proprio
posto (il resto, le cose inutilizzate o impossibili da mostrate possono benissimo
essere relegate in cantina), superfici immacolate e tanta aggressività passiva.
Un sogno senza significato, asfittico e mortale, quell’american way of life da cui non si può scappare nemmeno svicolando per i
territori del fiabesco che, soffici e consolatori, celano solo per un po' orrore
e violenza.
In White Bird in a Blizzard abbiamo una
protagonista che è tra i personaggi più compiuti mai realizzati da Araki (a me
ha ricordato la tensione emotiva dei protagonisti di The Living End), interpretata con naturalezza e capacità da Shailene Woodley, ma come in un
affresco mélo gli altri personaggi sono
incarnazioni riconoscibili. Abbiamo quindi il «ragazzo della porta accanto», l’oggetto
del desiderio a portata di steccato interpretato in maniera umbratile da Shiloh Fernandez (novello Patrick Owens) ed Eve Connor, una padrona di casa che è già una stella sul viale del
tramonto casalingo, un nevrotico, agghiacciante e fragile angelo del focolare
domestico con i tratti sovrannaturali di Eva Green. Gli occhi sgranati di quest’ultima,
la fisicità tirata seppur immobile nell’odio e nel rancore che la consuma e
dissolve, sono la migliore rappresentazione del disagio e del vero orrore. Quell’orrore
che pitturato di fresco ti accoglie per rivelarsi lentamente come prigione
dissennata, muta e solitaria, dove l’unico riscatto può essere una risata
mefistofelica prima della liberazione/esalazione in una sequenza conclusiva
giustapposta. Uno sberleffo (mortale ça
va sans dire) al concetto consolatorio e rassicurante di finale.
gran bel post, molto arakiano!
RispondiEliminaMarco che meraviglia, grazie!
RispondiElimina