di Gianluca Stirpe
Nata dalla collaborazione triangolare tra la Socìetas Raffaello Sanzio, il musicista Scott Gibbons e i registi Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, la Tragedia Endogonidia, passata incolume nell’assordante silenzio della cul-tura italiana, rappresenta il felice esito di una ricerca a tutto campo che spazia, senza difficoltà, dal teatro all’installazione, dal minimalismo all’artifizio retorico complesso.
Nata dalla collaborazione triangolare tra la Socìetas Raffaello Sanzio, il musicista Scott Gibbons e i registi Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, la Tragedia Endogonidia, passata incolume nell’assordante silenzio della cul-tura italiana, rappresenta il felice esito di una ricerca a tutto campo che spazia, senza difficoltà, dal teatro all’installazione, dal minimalismo all’artifizio retorico complesso.
La Socìetas dalla sua
fondazione a oggi ha affrontato un percorso di ricerca sul linguaggio della
figura, dalla voce alla parola, dal corpo all’immagine, tale da imporre la
compagnia come fonte d’invidia del mondo verso l’Italia.
Al di là di questa
microtirata retorica, l’opera rappresenta una delle punte teoriche più interessanti
della compagnia. Già nel titolo essa richiama, mettendo in campo degli esseri
microcellulari apparentemente quasi inutili e capaci di ripetersi senza fine,
una struttura radiale che collega ogni scena all’altra.
Nel caso della
Socìetas Raffaello Sanzio non è opportuno parlare di installazione, quanto di
rappresentazione iconica, o meglio, presentazione
iconica i cui elementi così fortemente semantici debordano oltre i limiti del
palco e colano direttamente nello spettatore. L’uomo che silenzioso anima le
scene, che parla appena, fatto salvo in alcuni spettacoli, sfiora l’indicibile,
parla una lingua antica, assente, appena per eletti, come l’anziano, o meglio,
il vecchio che indossa i paramenti in lingua ebraica, che s’impone come l’aleph sulle labbra sanguinanti dell’uomo
prossimo all’omega della propria
esistenza.
L’uomo di
Castellucci, è un uomo rinchiuso nel giogo della punizione, di un pentimento
tanto emancipato, che così mostrato pare cadere in una sorta di feticismo
smaterializzato, in un gioco delle parti, di dominanza e dominato, che più che
imposto sembra voluto e volontario, come a scacciare una sorta di peccato
originale che proprio perché scacciato diviene ancor più peccato e onta. Non
c’è dio in questo mondo, e non serve nemmeno la redenzione, il mondo sulla
scena è una bolla alla rovescia, il frutto di una rappresentazione di
matematica immaginaria dalle imprecisate, forse nemmeno finite, dimensioni,
ognuna per ogni sfumatura dell’essenza umana che rappresenta.
Tanta astrazione,
tanto vigore teorico e teoretico si concretizza, paradossalmente, in una
corporeità che pretende il proprio spazio in scena, che non necessita di
mediazioni e addolcimenti. È lì di fronte lo sguardo, punto, e come il respiro,
l’occhio chiede la sua aria. Questo corpo di-schiude
tutta la sua potenza nella carne, nella fisicità degli attori, ridotti a
un’essenza minima e anonima, così facilmente sostituibile da poter chiamare in
causa anche lo spettatore.
Romeo Castellucci. |
In una delle sue
opere recenti della Socìetas, Inferno,
il Dante che cammina, non è lo spettatore asettico, perno morale della
narrazione, qui è l’essere, lo stesso Dante azzarderei, è nelle pene, le
sconta, se ne fa carico, porta il peso del mondo sulla carne, nelle piaghe
delle spalle, come il Cristo cattolico. L’ascesa ai cieli esiste ancora, è
soltanto assai più difficoltoso lo sgancio dalla terra. I chiodi non sono nelle
mani, rivolte verso il cielo, a tendere verso l’alto, in Castellucci, i chiodi
vincolano alla terra, deformano il corpo oberato già da una gravità senza pietà
che lo allontana da ogni possibile forma di redenzione. È una piaga dell’anima,
lacerazione del velo di Maya, dischiusa di un dentro che la carne non
riesce più a trattenere perché è tanto il male che l’uomo può partitore. Non si
tratta di una volontà moralizzante, quanto, al contrario, mostrare l’essenza,
la radice dell’albero che attinge nel fondo del mondo. Oltre i facili luoghi
comuni della felicità, la Socìetas rende meravigliosamente estatica
l’intermittenza in quel dialogo di corpi, urti, botte, vera e propria catarsi.
In fondo è questo l’elemento classicheggiante delle rappresentazioni, fatto
salvo, però, che le chiusure di scena sono sospese, interrotte in itinere... La
scena non risolve, passa di mano la responsabilità, donando la consapevolezza
di quello che può essere altrimenti.
Una tensione, che è
il collante di ogni scena, è situata nel fondo della narrazione, si tratta di un
humour nero, assai sensibile, a tratti delicato, intorno al quale, quasi
calamitato, rotea ogni personaggio, sempre più prossimo a uno sfioramento che
diverrà trauma.
La Tragedia Endogonidia, è la micro essenza
di piccole storie, minuscole narrazioni che si dilatano in immagine, che colano
prepotentemente verso i bordi della scena in cerca di un’uscita di emergenza
che qualcuno ha chiuso a chiave, ma che, nonostante la distanza, s’insinuano
nell’occhio e da lì alla mente. È un’osmosi laterale,
come un corpo che trattiene l’altro, che sposta il calore della mano sul
braccio trattenuto di chi è impossibilitato a muoversi. Ogni scena, pur
asettica, sprigiona un calore sanguigno, una violenza che appare inaudita, ma
che scardina il concetto stesso purificandolo in una sorta di santità, secondo
quella famosa maniera dostoevskiana.
Quest’essenza che
anima i personaggi della Tragedia, è
la stessa di quel minimo umano nel
gorgo di un mondo che lo oltrepassa. Quest’uomo nel mondo è piccolo come quelli in fuga ai piedi del Leviatano di
Goya, ma lo stesso Leviatano è, citando Hobbes, l’aggregazione di esseri umani:
il cardine dell’intero sistema è un uomo vs uomo.
La questione della Tragedia non è la natura avversa
all’uomo, è un’avversione più sottile. Negli spettacoli della Socìetas, i
riferimenti alla contemporaneità, disseminati come chicchi di grano capaci di
germinare spontaneamente al primo sole, svelano la fonte del male, mostrano che
esso ha lo stesso volto della vittima, solo che possiede, nascosta tra le linee
di un volto anonimo, l'autorizzazione da parte di un potere. Si tratta di uno
schema arcaico di dominio, che sboccia in ogni dove come la gramigna: che sia
il bambino spaventato che si rincuora di fronte una sagoma parlante, che sia la
vittima di angherie poliziesche, che sia una tavola imbandita o la sensualità
di un rapporto master-slave.
Per quanto la natura
scorra, la carne si dilavi del sangue versato, il corpo, nonostante le cure e
le attenzioni, affondi nel molle della marcescenza e della vecchiaia peggiore
(meravigliosa la scena dei capelli e dei denti che non svelo in queste righe),
i meccanismi del mondo rimangono gli stessi.
Non si tratta di
caricare la scena. Non c’è morale nella Tragedia
Endogonidia, c’è presentazione dell’umanità nel suo ampio spettro di
sfumature parossistiche, un mondo che modella nel contemporaneo un’arcaicità
che la stessa modernità cerca di celare in una sorta di perbenismo della bontà.
La forza degli
spettacoli della Socìetas è quella di smontare il tema e purificarlo al punto
da porre in scena un discorso etico assai denso e pregno che, al di là della
comprensione diretta, si fissa comunque nello spettatore.
Si aggiunga infine,
che l’uso sapiente della regia e della fotografia ha permesso di ottenere una
perla di senso capace di scandagliare e raggiungere meandri lontani che la
parola, in una sorta di fallimento, è ormai impossibilitata a raggiungere.
Perché ci sono sensi che la parola rifugge, persa ormai in un maelstrom di ambiguità, mari che solo il
fondamento dell’immagine e quel senso che l’ha stratificata e appesantita nel
tempo, permettono di darle la giusta zavorra per non affondare come la parola.
Forse non è più possibile narrare, come proponeva Adorno, ma solo con certe
parole, che spigolose e svuotate del loro senso primario, si perdono.
In un mondo in cui il
dialogo è uno slabbrato lacerto di fraintendimenti, di gutturalismi vuoti
slavati da una ripetizione senza comprensione, ove chi dovrebbe aprir bocca
vive ormai in una consonanza, tanto divina per perfezione di assonanza, con
l’inutilità di un piattume spacciato per rassicurante. Di fronte a questa
sconfitta della parola e dell’unicità di ogni singolo fiato, forse è il tempo
di cedere al silenzio.
Forse è l’ora di
ritornare in silenzio all'immagine, anche se si corre il rischio di far
sanguinare l’occhio, così da schiudere di nuovo quel senso celato nel nocciolo
duro del non-senso, quel guscio che ripone al suo interno la valva molle, forse
di nuovo la parola purificata.
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