Il divo, pellicola del 2008 di Paolo Sorrentino dimostra il suo
straordinario impatto visivo ed emotivo (in grado di investire non il solo
spettatore italiano) già dalla sua sequenza di apertura, la magistrale
carrellata di omicidi sulle note di Toop
Toop dei Cassius: il generale Dalla Chiesa, Mino Pecorelli, i banchieri Calvi
e Sindona, Giorgio Ambrosoli e la deflagrante immagine dell’attentato a
Giovanni Falcone. Una sequela annichilente di morti su cui si costruisce
l’immaginario oscuro che sarà del «divo» Giulio.
Sorrentino focalizza la sua rappresentazione sul
periodo che va dal 1991 al 1993, dalla nascita del VII Governo Andreotti
all'apertura del maxiprocesso di Palermo, ma la sua è una raffinata operazione
di esplorazione e manipolazione, un’operazione estremamente creativa, che
consegna allo spettatore una visione straniante, fatta di sequenze iconiche.
Sequenze che spaziano nel territorio del grottesco, in grado di rappresentare
nel miglior modo possibile gli eventi. Si pensi all'arrivo della «corrente» andreottiana al cospetto del «divo» La segretaria, la signora Enea (interpretata
da una commovente Piera Degli Esposti), chiude le finestre perché «sta
arrivando una brutta corrente» e come in uno dei più sporchi spaghetti western
ecco la materializzazione della metafora: Paolo Cirino Pomicino, Giuseppe
Ciarrapico, Salvo Lima, Franco Evangelisti, Vittorio Sbardella e il cardinale
Fiorenzo Angelini, osservati dalla camera di Sorrentino attraverso la lente del
grottesco, l’unica in grado di fissare le orride peculiarità di ognuno in
maniera indelebile. La sequenza è un esempio delle metafore e delle allegorie
presenti ne Il divo. Immagini che hanno un immediato potere
coagulativo sullo spettatore e che spesso sono vere e proprie «manifestazioni»
di natura surrealista, notturne, umbratili e disturbanti, perfettamente
coadiuvate dai brani musicali di commento (il rock, l’elettronica, la leggera
italiana). Si pensi, ancora, alla sequenza della batucada in cui il palazzo del
potere batte al ritmo di una samba straniante, più che un suono celebrativo,
questa ha tutte le caratteristiche dell’apertura di una danse macabre che da lì a poco inghiottirà irrimediabilmente tutti.
Paolo Sorrentino ne Il divo ha a sua disposizione il talento straordinario di Toni Servillo, che abbraccia il
personaggio del «divo» Giulio declinandone perfettamente l’immagine enigmatica
e sardonica. Anche qui l’operazione è (fortunatamente) lontana dal realismo
convenzionale e il risultato è divertente e sfrenato. Lo stesso Roger Ebert
nella sua recensione a Il divo dirà «mi
sarei dovuto sentire indignato. Avrei dovuto sentirmi così anche dopo aver
visto Il padrino. Ma questi film
presentano personaggi talmente affascinanti che mi ritrovo ad ammirarli,
incredulo.».
Mentre tutte le versioni degli eventi sono state in
qualche modo falsificate, non resta che coniarne una rielaborazione propria.
Questo fa il grande talento di Paolo Sorrentino, ottenendo la massima
gratificazione: quella «gambetta schizzata», quel moto stizzito di cui si racconta
durante la visione privata de Il divo per il «divo» ne è la testimonianza. Il surrealismo ha potuto laddove tutti hanno
fallito.
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