Proviamo a collocarci temporalmente. Attenzione,
siamo molto prima della definitiva rottura, poco tempo prima dell’inizio delle
due incredibili carriere che i nostri protagonisti intraprenderanno nel cinema,
lavorando su piani e in modi diversi. Siamo dopo che i nostri due eroi, ancora
giovani studenti dell’University of South California, si conoscessero decidendo
di mettere insieme ingegno e quella carica creativa che avranno entrambi il
modo di liberare nei successivi lavori per il grande schermo. Di chi e cosa stiamo
parlando? Di John Carpenter e Dan O’Bannon e del loro primo
lungometraggio Dark Star, che sarà ricordato come la spassosa e brillante risposta
alla pretenziosità creativa di 2001:
Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Dark Star è innanzitutto un tavolo di lavoro su cui Carpenter e O’Bannon
affrontano per la prima volta i propri interessi: la fantascienza, il confronto
alieno/umano, l’insondabile, l’inferenza tecnologica. Il risultato è un’irriverente
incursione “altra” nella fantascienza, in cui gli astronauti sono degli sciamannati
unici (su tutti il sergente Pinback, interpretato dallo stesso Dan O’Bannon!) o
nel migliore caso degli svampiti colti nella contemplazione estatica del grande
universo. Il recupero delle questioni capitali di 2001 e de Il dottor
Stranamore sono qui affrontate con un fortunato senso del parodistico e del
surreale: «la bomba» (ovvero: come imparai a non preoccuparmi e a
convincerla a non esplodere), l’approccio distruttivo e colonizzatore, la
questione esistenziale e l’intelligenza artificiale.
L'alieno, mascotte della Dark Star. |
La visione carpenteriana recupera l’attitudine tipica
dei pulp magazine e dei fumetti (di
cui si nutre avidamente anche Pinback) girando alcune sequenze davvero
divertenti, come quella che vede il sergente impegnato nel recupero dell’alieno
di bordo (e mascotte), una comica creatura a forma di pallone gonfiato, con un
senso dell’humour tutto suo. Ancora, la posizione solitaria ed estatica di
Talby nella sua cupola sul tetto dell’astronave Dark Star, gli allucinati video-diari
(in cui veniamo a sapere che sull'astronave manca la carta igienica…), le
personalità del computer di bordo e il dialogo surreale tra il tenente
Doolittle e il comandante Powell, conservato criogenicamente e quindi
rallentato nel ragionamento dalle basse temperature. L’intento è quello che ha
ben definito Mauro Gervasini nel dossier di «Nocturno» dedicato a Carpenter: rivendicare
l’appartenenza della sci-fi alla serie B di Hollywood. Personalmente credo sia
necessario prestare particolare attenzione anche all'aspetto visivo della
pellicola. Aspetto cui Carpenter si dedica trovando soluzioni davvero
interessanti e che si può osservare, in particolar modo, nelle scelte
cromatiche pop che rendono iconiche e stranianti molte delle sequenze di Dark Star.
Tra dialoghi esistenzialisti con un’esacerbata bomba
(l’ormai cult bomba n. 20) con cui argomentare alla maniera di Cartesio e
Husserl, questioni d’età e anni luce, tagli alla spesa (sic!) e surf sui
rottami, Dark Star raggiungere il finale
diventando un piccolo-grande cult, ancora assai amato da nerd e cinefili di
tutto il mondo.
Nessun commento:
Posta un commento