Barton Fink – quarta
pellicola dei fratelli Coen - rappresenta il superamento di un impasse creativo vissuto dal duo
di cineasti ai tempi della scrittura di Miller’s Crossing. È così
succede che, abbandonando temporaneamente il progetto in corso, Joel e Ethan
scrivano Barton Fink in sole tre settimane. Abituati a ragionare sul
genere e a rielaborare immaginari i Coen costruiscono qui uno dei personaggi più
interessanti della cinematografia contemporanea, quel Barton Fink interpretato
dall'immenso John Turturro (che collaborò alla stesura del personaggio
rendendolo più umano). Barton Fink è incarnazione dell’intellettuale
puro e utopico, integro e fragile (perché poco duttile), calato da Broadway
nella Oscura Babilonia di Hollywood, con i suoi giganteschi ingranaggi seriali
e i suoi rivoli di sangue e lacrime ai lati dei marciapiedi.
Molto si è
ragionato su quanti e quali siano stati i materiali culturali utilizzati dai
Coen per la pellicola: l’horror, il thriller à la Hitchcock, i classici
delle letteratura anglosassone, la Bibbia, la rappresentazione dell’industria
cinematografica, il fascismo, l’omosessualità, la schiavitù, l’ingresso degli
Stati Uniti nel Secondo Conflitto Mondiale. Sappiamo, però, che quella dei Coen non è mai una
mera citazione quanto piuttosto una complessa rielaborazione che supera i territori già battuti del
postmodernismo.
I Coen elaborano una visione in grado di calare
lo spettatore al fianco del protagonista nel suo viaggio da New York a
Hollywood, nel passaggio dall'elitarismo snob delle produzioni teatrali alla
mercificazione più bassa della grande major, pronta a rendere Barton uno dei
tanti schiavi consenzienti (passaggio che ritroveremo nella pellicola
successiva Mister Hula Hoop). Barton tenterà di evitare il giogo
prendendo alloggio all’Hotel Earle (un meraviglioso riferimento all’Overlook
Hotel di Shining).
La tappezzeria “organica” sui colori del verde e dell’ocra, l’assenza/presenza
di coinquilini di cui registriamo l’esistenza solo dalla fila ordinata di scarpe da
lucidare fuori dalla porta nonché dagli orribili suoni “viscerali” provenienti dalle
camere, il solipsistico ritratto della donna sulla spiaggia come unico vezzo
dell’angusta camera di Barton, l’Hotel Earle è lo scellerato ventre materno che
accoglie il protagonista per restituirlo a sé stesso degradato, insicuro,
sconfitto.
Sarà proprio qui che il nostro incontrerà Charlie Meadows
(interpretato da quella pasta di pane di John Goodman) il simpatico e rumoroso
vicino di camera che traghetterà il nostro nel più infernale degli incubi. Il
personaggio di Charlie è straordinario perché rivela sé stesso continuamente:
non solo incarna – come molti hanno scritto – l’ascesa del regime nazista ma fa
da immagine speculare, da doppelgänger a Barton affermando nel finale surreale
e quanto mai Avant-Pop (l’albergo trasformato in inferno dantesco in cui
scontare il resto della propria condanna) che i suoi ripetuti assassinii hanno
lo stesso valore programmatico delle opere di Barton: alleviare le sofferenze
altrui.
Non ci resta
che lasciare l'artista (e la sua condizione) sulla spiaggia, con la
scatola mai aperta donatagli da Charlie (vaso di Pandora? Velo di Maya? Placebo
amicale, orribile reperto?) all'interno della sua consolante visione finale, un
perfetto compendio al messaggio olistico e retro-surreale voluto dai
Coen per la loro pellicola.
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