È
straordinario come la letteratura e il cinema siano riusciti a trovare una via
di fuga a quella che Henry Miller aveva definito «incubo ad aria condizionata»,
in altre parole ciò che erano diventati gli Stati Uniti negli anni successivi
al secondo conflitto mondiale. Se nel 1956 una casalinga alcolista di Gilmanton,
New Hampshire, aveva liberato le energie più peccaminose e violente della
provincia col suo romanzo d’esordio Peyton Place, nel 1975 Stephen King
aveva portato fra quegli steccati l’orrore sovrannaturale, la materializzazione
delle paure più recondite e ferine nel suo Le notti di Salem. Quello di King è un romanzo ricco e composito, che, come in
ogni opera del Re, ha nelle parti dedicate alla everyday life le sue migliori pagine.
Dal
romanzo – dopo un rosario di traversie che vide persino Romero fra i papabili
registi – è stata tratta una mini serie televisiva diretta da Tobe Hooper. La Salem’s Lot (Jerusalem's
Lot) di Hooper è il perfetto quadro della provincia americana, un luogo
raccolto, dove il microcosmo suburbano si muove osservante e osservato, dove la
vita quotidiana guarda di sottecchi alla leggenda popolare che - memore
dell’eredità lovecraftiana – s’incarna in un’abitazione maledetta, materializzazione
fisica dell’orrore. Alla ricerca della vera essenza del male – dopo un
antefatto ambientato in una chiesa a Calcutta – arriva qua lo scrittore Ben
Mears (David Soul) che affitta una stanza con vista sulla Casa Marsten, luogo
di innominabili e mai risolti misteri e orrori. L’abitazione coloniale, è stata
oggi affittata agli antiquari Richard Straker e Kurt Barlow intenzionati ad
avviare un’attività proprio a Salem’s Lot.
Dacché
Straker (che ha il volto enigmatico di James Mason) inizia a muoversi in città
accadono strane cose. Un’epidemia di anemia sideropenica si trasforma in
qualcosa di più orribile, bambini sono inghiottiti nel bosco, agghiaccianti
figure fluttuanti bussano alle finestre e uno strano gelo s’impossessa di chiunque
si avvicini a Casa Marsten.
Tobe
Hooper riesce a dar vita al folto parterre di personaggi che anima la
cittadina. Ognuno di essi ha una storia, un segreto da nascondere (ricordate
sempre l’eredità da cui muoviamo: Peyton
Place). Ecco quindi che la violenza domestica incontra l’orrore primigenio,
il tradimento la ricerca mefistofelica del sangue, un rapporto d’amore si
consuma in tragedia attraverso un paletto di legno appuntito.
La mini
serie, in Italia uscita anche al cinema in versione ridotta, pur non riuscendo a
trasporre totalmente la vitalità e complessità dei personaggi del romanzo, ha
la qualità di giocare sul filo della tensione attraverso gli sguardi, le occhiate
interrogative e scrutanti, i dialoghi di fronte a una cena con un vecchio
professore di letteratura. Attraverso tutto questo passa Ben Mears prima della
terribile agnizione, purtroppo tardiva e quindi inutile a frenare l’ascesa del
maestro vampiro Barlow (Reggie Nalder, non accreditato), le cui fattezze
richiamano l’espressionismo del Nosferatu di Murnau. Barlow incarna qui l’orrore
ancestrale, ributtante e invincibile. Basti citare solo gli occhi del vampiro
maestro e quelli della sua progenie, occhi liquidi, infernali e lucidi come le
fiamme dell’inferno, occhi che hanno segnato l’estetica della pellicola,
realizzati attraverso materiale da proiezione frontale applicato sulle lenti a
contatto degli attori.
Nessun commento:
Posta un commento