Una città
che nello sguardo dello spettatore è impossibile da catturare per intero, animata
da scorci in interno e passages in
esterno. Questa è la Torino de Il gatto a nove code, precorritrice
delle città-puzzle che caratterizzeranno i lavori successivi di Dario Argento.
Secondo quest’approccio luoghi provenienti da città diverse (Roma, Torino, New
York, tra le più ricorrenti) vanno a costituirne uno solo, immaginato e
realizzato per la storia raccontata. Ne Il
gatto a nove code, Torino è ammantata da un’atmosfera noir tutta costruita sulla tensione e sull’impossibilità di cogliere
per intero i dettagli necessari alla risoluzione degli eventi: una lite in strada,
una discussione dentro un’automobile in movimento. E ancora le scale: ossessione
di tutto il cinema di Dario Argento, che qui assumono un’allure a metà fra espressionismo e surrealismo, le camere
dell’istituto scientifico dove è ambientata la vicenda, il cui operato è celato
da ante socchiuse, soffitte polverose, finestroni e persino tetti industriali.
Il gatto a nove code è il secondo film di Dario Argento e il meno amato dal regista romano, che qui volle allontanarsi dal precedente L’uccello dalle piume di cristallo. In realtà Il gatto possiede un afflato narrativo unico e un’attitudine al thriller raramente percepita in Italia. È altresì un compendio del cinema di Argento in cui ritrovare tutte le sue ossessioni e persino studiare il rapporto del regista con i suoi maestri, in particolare Hitchcock e Edgar Allan Poe. Le mani dell’assassino guantate di pelle nera, l’inafferrabile indizio sensoriale, il dettaglio organico funzionale all’orrore, punteggiano una narrazione che ha molto del thrilling all’americana.
Ne Il gatto a nove code un enigmista cieco
e molto capace (Karl Malden), la sua nipotina Lori (Cinzia De Carolis, che
sarebbe poi diventata una pietra miliare del doppiaggio italiano) e il giovane
reporter Carlo Giordani (costruito da Argento sulla sua precedente esperienza
di giornalista a «Paese Sera») indagano su una serie di omicidi che sembrano
emanare dall’avanguardistico Istituto Terzi, dove si affrontano segrete
ricerche nel campo della biologia molecolare. Completano il cast Catherine Spaak in versione naiade rococò (nell’aspetto costruito per lei dal costumista
Luca Sabatelli) e il giovane eroe televisivo Aldo Reggiani, che
Argento restituisce al pubblico in un ruolo assai diverso dal rassicurante
protagonista dello sceneggiato La Freccia
Nera.
L’incalzare
degli eventi, attraverso un insieme di figure comprimarie (che impareremo a
considerare fondamentali nel cinema di Dario Argento) e di enigmi da svelare, diviene
una cruenta sfida fra Arnò e Giordani da una parte e il misterioso e sempre più
folle killer dall’altra.
Se nel
percorso di ogni artista il passaggio fondamentale è il kill your parents, possiamo considerare Il Gatto a nove code il momento in cui Argento si sbarazza del suo
più ingombrante genitore, quell’Alfred Hitchcock cui tutti continuavano ad
accostarlo. Come segnalato da Roberto Pugliese, Il Gatto a nove code è il film di Dario Argento che più si
confronta con il whodunnit («Who did
it?»), lo schema classico (tutto da scompaginare) del thrilling americano. Uno
schema superato già nel terzo film della Trilogia
degli animali: Quattro mosche di
velluto grigio.
Ne Il gatto a nove code la stupenda
sequenza girata al Cimitero Monumentale di Torino è una felice sintesi tra la
spinta investigativa che muove i protagonisti e il subentrare di un’atmosfera
orrorifica à la Edgar Allan Poe. Si
tratta di un organico e calibrato mutare d’intenzioni da parte del regista su
una stessa scena. In questa sequenza - che dovrebbe fare scuola per chi aspira a
confrontarsi con il giallo e la paura - Arnò e Giordani devono riesumare il
cadavere di una donna, uccisa poco prima di fare un’importante rivelazione. Tutto
è visto sotto la luce del racconto d’investigazione e da spettatori non
proviamo alcun disagio, ma ecco che la porta dell’edicola funeraria spinta
dall’esterno si chiude, la camera inizia a indugiare su marmi impolverati e lampade
che si spengono. Sulla scena si riversa di colpo una sensazione di
claustrofobia e paura. Non c’è stato un cambio di set, non interviene nessun
nuovo personaggio ma grazie alle capacità di Argento siamo catapultati da un
racconto di Ellery Queen alla Sepoltura
prematura di Edgar Allan Poe.
Riscopriamo
dunque Il Gatto a nove code per
quello che è: il migliore confronto di Dario Argento col racconto
investigativo, un film di grande respiro, organico all’opera del regista
romano. Ce n’è abbastanza da convincere Argento a ritrattare la sua opinione
sul film.
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