martedì 23 aprile 2013

Antiviral di Brandon Cronenberg (2012)


Affrontiamo subito la questione. Brandon è figlio di quel Cronenberg lì. Sì, proprio quello. Ancora sì, Brandon aveva detto che si sarebbe dedicato alla scrittura, alla pittura o alla musica e poi, l’anno scorso, se n’è uscito con un film nella rassegna Un Certain Regard di Cannes. Che film però! Guardiamo un po’ a questo suo esordio: Antiviral, una pellicola che da sola spinge di molto in avanti la rappresentazione cinematografica del grottesco, utilizzando un rigore formale e un codice visivo pazzesco. Il cinema di Brandon Cronenberg possiede prerogative originali pur dialogando con l’opera del padre sia in termini concettuali sia direttamente, con la scelta di girare in Canada e fare della splendida Sarah Gadon, già Elise Shifrin in Cosmopolis, la sua musa, a metà tra l’iperreale e il carnale più mefitico.
Antiviral è ciò che rimane dopo che la società dello spettacolo ha fagocitato ogni aspetto della realtà, un virus silente e implacabile che ha mutato i suoi connotati e per il quale (se mai qualcuno l’avesse cercata) non c’è alcuna possibilità di cura. Ciò che questo processo consegna è una comunità di umanotteri nevrotici, cannibali ed estremamente soli, desiderosi della più intima connessione con la celebrità del cuore. Si tratta di un legame non più basato sul desiderio sessuale ma sulla condivisione della malattia, di virus, batteri e patogeni che hanno albergato nel corpo della stella del cuore e che, depotenziati della propria virulenza, sono loro iniettati da esperti del settore. Due cliniche, la Lucas e la Vole & Tesser, due società si contendono l’Herpes simplex o l’ultimo influenzavirus avuto dalle celebrità per poi rivenderlo agli umanotteri di cui sopra.

venerdì 19 aprile 2013

Holy Motors di Leos Carax (2012)


Premier rendez-vous
L’ex enfant terrible del cinema francese, Leos Carax (Rosso sangue, Gli amanti del Pont-Neuf) torna fra noi col più inenarrabile e commovente dei film possibili. Partendo semplicemente dal concetto che dell’Occhio avevano i surrealisti. Già, l’occhio. L’occhio non può che essere “senza volto”, se parliamo della ancor bellissima Edith Scob. Se poi prendiamo Edith Scob e la mettiamo a guidare il taxi pluvial di Salvador Dalì e la mandiamo a scorrazzare Denis Lavant (icona di tutto il cinema dionisiaco francese) per una Parigi subacquea ed epilettica, tutto ciò parrà come se sulla pelle indossassimo la celebre maschera di Franju. (Andrea Bruni).

Second rendez-vous
Mentre David Cronenberg osserva una limousine bianca che percorre New York divenire il proscenio dove rappresentare, con rigore formale e preveggenza, quel che rimane delle sfere intrapsichiche di freudiana memoria, a Parigi Leos Carax ne segue un’altra, identica alla prima, nella sua funzione di trasmettitore. Il segnale trasmesso è cangiante e attraversa un organismo esso stesso franto e in continua e perpetua metastasi: una Parigi i cui passages sono ormai emanazioni di una iperrealtà multidimensionale che è già stata surrealtà.

sabato 6 aprile 2013

Arizona Dream di Emir Kusturica (1992)


Un’ode al rifugio, al terribile e doloroso passaggio dall'età dell’innocenza all'età adulta (che non coincide affatto con l’età biologica, rimandabile persino all'ora fatale) e alla dimensione onirica che membrana placentare –preziosa e fragile – ci protegge (finché può) dalle orribili e desolate grinfie del reale. Ecco cos'è Arizona Dream – arrivato in Italia con il titolo Il valzer del pesce freccia – pellicola del regista jugoslavo, naturalizzato serbo, Emir Kusturica, vincitrice dell’Orso d’Argento a Berlino nel 1993. Arizona Dream è il debutto americano di Kusturica, che con attitudine scientemente Avant-Pop, dark, sexy e melanconica, sceglie di prelevare i materiali pop e luccicanti da manipolare nella sua storia dall'immaginario americano – la metropoli come rifugio, il sogno americano, la suburbia, il cinema e la provincia come territorio d’elezione del gotico – commistionandoli a un sentimento, uno spleen, uno sguardo che ha origini nel vecchio continente. Arizona Dream possiede i caratteri ereditari del realismo convenzionale ma li trasferisce in quella che Larry McCaffery chiamerebbe «trama lunare», sviluppata visivamente dal regista di Underground grazie a un cast che definire meraviglioso e in stato di grazia è riduttivo. Un cast in grado di abbassare il punto di vista all'infanzia nonostante, fra loro, non ci sia nemmeno un bambino: le espressioni buffe e malinconiche di Axel, nella recitazione assai fisica e mimica di Johnny Depp sono il manifesto del film, così come quelle del suo corrispettivo sul viale del tramonto: lo zio Leo, interpretato con magistrale ironia e dolorosa coscienza dall'immane Jerry Lewis; come non citare poi la splendida perfomance di Vincent Gallo, che con un divertente accento newyorkese interpreta Paul, outsider, «lunare» e fragilissimo nel suo desiderio di recitare; ancora, Faye Dunaway nei panni della vedova nera Elaine, che vediamo mutare forma e attraversare gli immaginari: da spregiudicata ereditiera a versione speculare dell’Alice di Carroll, sia per età sia per desiderio di ascesa al cielo; chiude il cast Lili Taylor, perfetta interprete della nevrotica e agghiacciante Grace, figliastra di Elaine.

lunedì 1 aprile 2013

Gli amanti passeggeri di Pedro Almodóvar (2013)


In quale epoca asfittica non si riesce a godere di un film come Gli amanti passeggeri? È possibile che la comicità senza mea culpa di Pedro Almodóvar non sia stata apprezzata? Sì, perché a differenza dell’aeromobile della Peninsula su cui è ambientato il film, le operazioni di decollo, crociera e atterraggio dirette dal nostro sono perfettamente riuscite. Il regista di Che ho fatto io per meritare questo? Dopo l’incursione cupissima, disturbata e arty de La pelle che abito recupera la lente trashy di Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio per fissarla ai finestrini dell’aeromobile 340 di Peninsula e raccontare ciò che siamo diventati: un’affollata classe “economy” sedata e ignara (hostess comprese) dietro una prima classe semivuota in cui truffatori, assassini, puttanieri e maîtresse d’alto bordo cercando di gestire la situazione insieme al personale. I dialoghi, scritti dallo stesso Almodóvar, poi, sono brillanti e più d’una volta diluiti nel ritmo narrativo (mai perduto) rilasciano il loro effetto dissacrante dopo qualche minuto.
Non è un caso che ne Gli amanti passeggeri Almodóvar recuperi le istanze del suo primo cinema, le stesse utilizzate per raccontare gli anni Ottanta: origine spettacolosa della deriva contemporanea. Centrale in questo senso il personaggio di Norma, icona, simbolo immemore di sensualità (giocoforza una copertina storica di «Interview»), poi dominatrice BDSM e titolare di un’agenzia di escort che fornisce servizi (di ogni genere e colore) ai seicento uomini più importanti di Spagna. Norma, chiudendo il cerchio, è interpretata da Cecilia Roth, che iniziò la sua collaborazione con Pedro Almodóvar proprio con Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio.  Per questo sua rappresentazione della contemporaneità guidata da un’ombra di potere intriso di truffa, sesso e ricatto, con radici negli anni dell’edonismo, possiamo avvicinare (con i dovuti distinguo) Gli amanti passeggeri all'ultima, straordinaria, prova letteraria di Aldo Busi, El especialista de Barcelona.