lunedì 30 aprile 2012

M. Butterfly di David Cronenberg (1993)


Una Cina oscura, un dedalo di strade affollate, di ambienti stracolmi di oggetti, una terra che desidera celare all’occidentale, al «diavolo bianco», la propria natura (e le proprie intenzioni) e per farlo utilizza il complesso immaginario forgiato da millenni di storia a sua disposizione. In questo setting misterico David Cronenberg costruisce il suo M. Butterfly, con il quale si confronta con il genere melò. Genere, come sappiamo, amato da registi Avant-Pop quali John Waters, David Lynch e Pedro Almodovar che ne hanno portato all’estremo la capacità di mostrare «la morte al lavoro». Cronenberg, che qui gira per la prima volta fuori dal Canada (fatta eccezione per alcune scene girate in studio a Toronto), in Cina, a Parigi e a Budapest, prende in mano il soggetto della pièce teatrale M. Butterfly del drammaturgo David Henry Hwang (sceneggiatore del film) che a sua volta ha realizzato la sua opera su un fatto di cronaca: un diplomatico francese imputato per spionaggio a causa del rapporto con un’attrice dell’Opera di Pechino – dalla quale egli si convinse di avere avuto un figlio - rivelatasi in tribunale essere un uomo. Cronenberg, come fu ne La zona morta, non lavora su un soggetto elaborato e scritto in prima persona ma accentuandone le caratteristiche più vicine alla sua poetica ne fa un film del tutto coerente con la sua Opera. In questo caso il regista de Il pasto nudo decide di ridurre la parte della storia dedicata allo spionaggio per focalizzare (e accentuare) la storia fatale, ambientata alle porte del Sessantotto, tra René Gallimard (Jeremy Irons) e Song Liling (John Lone), primadonna dell’Opera di Pechino. In essa Cronenberg vede la possibilità di riscrivere e ribaltare un’opera simbolo della cultura occidentale che, come spiega Song Liling a un sorpreso Gallimard durante il loro primo incontro, non avrebbe lo stesso appeal se nella storia fosse stata una donna orientale ad abbandonare e tradire un uomo occidentale provocandone la morte. Cronenberg attraverso una nuova e sensuale gestualità contemporanea riscrive, meglio dire muta, i connotati dell’opera di Puccini creandone una nuova, oscura, versione Avant-Pop.

mercoledì 25 aprile 2012

La lupa di Turi Giordano e Guia Jelo


Uno scenario di pietra lavica si estende per tutta la lunghezza del palcoscenico su un fondale atmosferico cangiante. La roccia si dipana a formare anfratti, scalini, sedili, sentieri, costruisce lo spazio scenico che sarà sintesi della dicotomia interno/esterno così importante per Giovanni Verga, sia nella sua novella La lupa (1880) sia nella riduzione teatrale che egli stesso realizzò e rappresentò al Teatro Gerbino di Torino nel 1986. A riportare sulla scena La lupa oggi il regista Turi Giordano e l’attrice Guia Jelo (Le buttane) con le musiche del compositore Matteo Musumeci (cui dobbiamo la presenza della meravigliosa versione di ‘A curuna cantata dalla Jelo). Giordano e Jelo pur mantenendo inalterato le prerogative sensuali e primigenie del personaggio di Verga ne ridefiniscono i connotati mettendo in risalto il travaglio e il dolore fatale della ‘gna Pina che, arsa dalla sua stessa passione, muove a gran passo verso la tragedia.
Turi Giordano - dopo l’introduzione danzante di Mara - apre i dialoghi su una fiaba narrata al crepuscolo, quando il lavoro dei campi è concluso e i braccianti si raccolgono a prendere il fresco della sera, cantare, ballare e raccontare storie. Non a caso è una fiaba orale a traslare dall’immaginario fantastico il simulacro della Baba Jaga, della strega e seduttrice (che nel racconto non risparmia neanche un parroco), una donna che dal racconto orale si materializza e incede man mano che la descrizione passa (per voce di Michele Placido, che nel film La lupa di Alberto Lattuada interpreta il bracciante Malerba) al reale durante l’ingresso della ‘gna Pina, detta “la lupa”, sulla scena. I grandi occhi neri, il pallore, le labbra vermiglie (esposte fiere all’occhio di bue dalla Jelo durante il suo ingresso in scena) si materializzano ammutolendo le donne, che corrono a farsi il segno della croce, ed eccitando gli uomini che fanno a gara per stringerla a sé.

martedì 24 aprile 2012

Nina dei lupi di Alessandro Bertante (2011)

Ripropongo di seguito il post dedicato al romanzo Nina dei lupi di Alessandro Bertante scritto nell'aprile 2011 per il blog collettivo MilanoRomaTrani:


Nina è un’apparizione. Lo è all’inizio della narrazione quando seduta di uno sgabello traballante mostra al lettore i tratti indeterminati – a metà tra fanciullezza e adolescenza – del suo volto e della sua postura, lo sarà ancor più alla fine quando le leggende si saranno unite nel mito e la sua descrizione verrà definitivamente affidata alla mitologia del racconto orale.
All’inizio della vicenda Nina, postmoderno eroe fiabesco, sarà costretta ad abbandonare la sicurezza artificiosa e incantata di Piedimulo, il paese isolato fra i monti in cui vive coi nonni dopo essere scampata alla Sciagura che ha portato alla fine della civiltà così come la si conosce. Abbandono che coinciderà con il ripudio di quelle ingenuità tipiche di un’infanzia fin troppo reiterata in favore di una visione più estesa e matura della realtà. Riconosciamo tale tendenza già dopo la misteriosa esperienza del «territorio oltre il ruscello» mostratole dal nonno Alfredo e di apparizione in apparizione Nina giungerà al compimento del suo percorso di formazione: l’abbraccio salvifico dell’uomo dei lupi che la introduce alla sua nuova condizione (che sarà soprattutto femminile), l’incontro con il grifone (la presa di coscienza nell’espressione «chi oltre a me?» della filastrocca che ripete a sé stessa), il primo contatto con il capobranco della muta di lupi che governano la foresta (il futuro, l’indeterminatezza), l’uccisione del capriolo (la maturità, l’attitudine materna al sostentamento della progenie). I lunghi e biondi capelli di Nina verranno legati in una treccia sempre più lunga, i vestiti della fuga da Piedimulo saranno sostituiti da quelli trovati nella casa fra i boschi, la castagna (amuleto prediletto da stringere nei momenti di difficoltà) verrà legata al collo per essere esibita allo sguardo di alleati e nemici, infine come predetto dalla strega Diana l’epilogo ne consegnerà la descrizione (o meglio le descrizioni) ai racconti orali che ne canteranno le gesta. Racconti che la descrivono ancora una volta per immagini: Nina che correi coi lupi, Nina e il Fondatore, Nina che stringe le mani a un vecchio amico ormai orbo e zoppo nell’atto di ricondurre i dettagli della sua infanzia – amplificati dall’epica del racconto – a una dimensione privata e personale.

lunedì 23 aprile 2012

Spider di David Cronenberg (2002)

Spider - pellicola del 2002 firmata da David Cronenberg - rappresenta forse più delle altre prove del regista la matrice Avant-Pop della sua poetica. Nella scarnificata e complessa messa in scena delle vicende di Dennis “Spider” Cleg ritroviamo il desiderio di «affrontare la nostra mostruosa deformazione e di trovare modalità selvagge e avventurose di amarla per quello che è» di cui parla Mark Amerika nel suo Manifesto Avant-PopNel film Spider - proprio come un personaggio beckettiano - arriva da un non-luogo (la stazione: luogo anonimo e stereotipato, privo di storicità e frequentato da gruppi di persone freneticamente in transito) per ritornare nei gelidi sobborghi di Londra dove ha passato l'infanzia in modo da ricostruire le dolorose vicende che l’hanno connotata. La memoria, si sa, è uno specchio ossidato (come quelli mostrati da Cronenberg durante i titoli di testa) o un sistema di corde sottili e sfilacciate come quelli costruiti dal piccolo Spider: quasi una rappresentazione del sistema nervoso, della sua complessità e fragilità (sappiamo ad esempio che i neuroni non possono rigenerarsi, che la guaina mielinica che protegge gli assoni può irrimediabilmente deteriorarsi) e della sua oscura capacità di percezione e rielaborazione.

sabato 21 aprile 2012

To Rome with love di Woody Allen (2012)


Cos’è Woody, sono finiti i soldi? Pensavi che avendo noi celebrato la morte del cinema italiano nello scorso secolo ed essendo vergognosamente esterofili ci saremmo innamorati di una pellicola in cui metti insieme il canovaccio di un tuo vecchio film e citi, seppur con affetto, Federico Fellini?
Il tuo Anything Else è delizioso, io per primo lo rivedo appena posso e m’è dispiaciuto riconoscerne assai diluita l’idea in un film che sembra sovvenzionato dalla Pro Loco Roma. Insomma in Anything Else c’è tutto l’amore conscio per una città come New York, i dialoghi tra te e l’aspirante comico Jerry Falk (Jason Biggs) sono brillanti e originali, Amanda (Christina Ricci) è una piccola post-femme fatale che non ha bisogno dei racconti osé di Monica (Ellen Page) per essere naturalmente sensuale. Anche lì c’è l’auto-riflessione, l’utilizzo della cultura nei dialoghi da chilling, i tradimenti. Qui, in To Rome with love, c’è solo il fondo di un piatto di minestra che proprio non vuole saperne di riscaldarsi. Peccato vedere attori che nelle tue mani avrebbero fatto scintille: Alec Baldwin, Jesse Eisenberg, la stessa Ellen Page, utilizzati in questo modo imbarazzante.
Poi, va bene, ti eccitava l’idea di citare Fellini, di portare l’idea de Lo Sceicco Bianco - una coppia di sposini giunge a Roma e la svampita mogliettina di provincia si perde su una strada lastricata di sampietrini ed equivoci all’inseguimento del miraggio del cinema – nella tua visione ma così, Woody, è più che imbarazzante, è insostenibile e a nulla vale l’interpretazione piacevole e divertente di Penelope Cruz nel ruolo di una prostituita-discente.

mercoledì 18 aprile 2012

David Lynch: il video di Shot in the back of the head di Moby (2009)

Ormai tutti sappiamo quanto il rapporto di David Lynch con la musica sia di primaria importanza. Esso è cresciuto in maniera esponenziale di anno in anno  fino a che Lynch ha persino fondato la sua etichetta musicale, la David Lynch MC e ha prodotto il suo primo disco Crazy Clown Time. Erano i lontani anni Novanta quando Lynch produsse e scrisse i testi dei primi due album di Julee Cruise (la sua Falling è il tema del cult serial Twin Peaks) e ancora come non ricordare il duraturo sodalizio con il compositore Angelo Badalamenti che ha prodotto colonne sonore immortali come quella di Mulholland Drive (ma Lynch ha anche composto molte delle musiche presenti in Cuore selvaggio e Fuoco cammina con me).

Oggi prendiamo di nuovo in considerazione il Lynch regista di videoclip partendo da una sua recente collaborazione con quel genio pelato (le due cose per esperienza personale potrebbero essere correlate) di Moby per il quale Lynch ha realizzato il video di Shot in the back of the head. Con questo breve cortometraggio in musica Lynch ha voluto continuare gli esperimenti in Macromedia Flash di Dumbland, riproponendone le atmosfere stranianti e stilizzate e l’attitudine organica e surreale delle prime pellicole come Eraserhead. Nel video un uomo innamorato di una testa di donna la bacia appassionatamente prima di venire ucciso da un misterioso killer. Fuori dalla finestra la città grigia di smog continua il suo brulicare di vita come se nulla fosse mai accaduto ma la testa di donna e l’uomo (che invece una testa non ce l’ha più) troveranno ugualmente il modo per continuare a sfiorarsi…


martedì 17 aprile 2012

David Lynch: il video di I Predict degli Sparks (1982)

Abbiamo già parlato dell’attitudine musicale di David Lynch. Attitudine che si è da poco tradotta nel deludente disco Crazy Clown Time. Il regista di Mulholland Drive oltre a comporre e produrre musica si è confrontato con la regia di videoclip (ricordate A shot in the back of the head di Moby?). La prima occasione di cimentarsi con questa forma breve di regia è avvenuta nel 1982 quando Lynch realizzò il video di I predict singolo della rock band di culto Sparks, allora ancora legata alle sonorità della musica inglese (The Who, Pink Floyd, Syd Barrett) e non ancora approdata all’elettronica (loro il tema musicale di un controverso spot di Dolce&Gabbana).
Lynch costruisce qui una visione surreale e onirica in cui inserire molti degli stilemi cinematografici che lo contraddistingueranno in futuro: la tensione elettrica, le lampade al neon, lo stereotipo del palco decorato con drappeggi di velluto. Nel video Ron Mael interpreta un’allucinata e scomposta starlette-spogliarellista, osannata da uno straniante pubblico in penombra.

lunedì 16 aprile 2012

Le buttane di Aurelio Grimaldi (1994)


Un paesaggio stratificato, un deserto urbano in cui convivono l’uno sull’altro commissionati i reperti di una società rurale, fatta di case di pietra, viottoli, cortili, e le strutture già in abbandono, simboli di un fallimento precoce, quello della selvaggia speculazione edilizia. Ai bordi frastagliati di una città immersa in un bianco e nero manicheo si muove una fauna malinconica, l’unica ancora umana nell’accettazione delle sue miserie. Un’umanità raccontata per la prima volta dalla visione di Pier Paolo Pasolini e che qui, grazie all’amore di Aurelio Grimaldi per l’autore di Ragazzi di vita, torna a essere protagonista. Sto parlando de Le buttane, film non a caso celebrato al Festival di Rotterdam. L’ex insegnante e scrittore Grimaldi (suo il romanzo da cui Marco Risi trarrà Mery per sempre) che prima in Ragazzi fuori e poi con La ribelle si cimenta con il cinema per poi realizzare Le buttane, un’opera cruda e dolorosa che è ormai parte dell’immaginario popolare italiano.
Ci troviamo in Sicilia, a Termini Imerese, il sole accecante e tagliente disegna geometrie pre-metafisiche mentre nella meravigliosa apertura assistiamo alla discesa negli inferi di un’almodovariana Paola Pace sulle note di Eclissi Twist di Mina (già tema de L’eclisse di Michelangelo Antonioni, quasi ad annunciarne la versione postribolare del suo Le amiche). Da qui la narrazione si dipana come un’austera treccia sciolta nella penombra della propria camera. Oltre alla spigolosa Paola Pace qui Veronica, una prostituta che riceve in casa con tanto di sala d’aspetto, seguiamo le storie di Orlanda, la prostituta napoletana e agé  interpretata da Ida di Benedetto, la “dura madre” Milù (Lucia Sardo), la giovane Blu Blu (che verrà ricordata per lo strepitoso monologo su religione e sesso di fronte a due sgomente testimoni di Geova), la transessuale Kim (Alessandra di Sanzo), Maurizio il ragazzo di vita che subisce il mestiere attraverso i baci lenti e prolungati che è costretto a ricevere su tutto il corpo da un anziano cliente, ma soprattutto lei, Liuccia Bonuccia (una memorabile Guia Jelo), buttana ironica, ottimista e indipendente.

martedì 10 aprile 2012

Biancaneve (Mirror Mirror) di Tarsem Singh (2012)


Perché Mirror Mirror? Meglio: perché Mirror Mirror in questo modo? La pellicola di Tarsem Singh, era stato annunciato, è una commedia e già qui il dubbio aveva cominciato a farsi strada. Insomma perché il regista di gioielli stranianti e arty come The Cell e The Fall, il regista che da poco era tornato con il godibile e stupefacente Immortals,  ha deciso di lavorare in questo modo? Perché cimentartsi con un progetto che potenzialmente poteva essere la chance ideale per rappresentare il lato luminoso (oserei dire accecante) della sua visione spettacolare? Che cosa può essere andato storto?
Vediamo.
Il cast ha lavorato egregiamente: Julia Roberts è una perfetta Regina Cattiva da commedia, sia detto l’amiamo da subito, le sue pause esasperate e la mimica celante la vera (misera) natura del personaggio meritano più di un plauso (da non perdere poi il suo particolare trattamento di bellezza prima del ballo). Lily Collins è una perfetta, nivea, Biancaneve-suffragetta. Fragile e ignara nel castello quanto agguerrita e determinata insieme ai sette nani, qui banditi su deliziosi trampoli a pressione. Armie Hammer è un ottimo principe cicisbeo dalla comicità slapstick. I meravigliosi costumi sono frutto dell’ultima ricerca fatta dalla mitologica Eiko Ishioka (morta subito dopo la realizzazione di questa pellicola), già collaboratrice storica di Tarsem e creatrice dei sontuosi costumi del Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola (con cui per la cronaca vinse l'Oscar). Ishioka realizza dei costumi-allegorie in cui si ritrovano motivi derivati sia dall'illustrazione editoriale classica ottocentesca sia dall’iconografia tradizione indiana. Il tocco d’eccezione è dato dall’esasperazione di alcuni elementi (come il fiocco, le orecchie di leprotto, i cappelli rococò), in perfetto tono con l’atmosfera comedy e cartoon voluta dal regista.
Allora cosa non ha funzionato? 

venerdì 6 aprile 2012

Last love parade di Marco Mancassola (2012)


Da anni ci si chiede quali fra i giovani narratori degli anni Novanta siano stati in grado di raccogliere l’eredità di Pier Vittorio Tondelli. Se lo è chiesto, per esempio, Elisabetta Mondello con il suo In principio fu Tondelli e con lei quella parte della critica e degli editori che hanno amato la prosa vitale e materica dello scrittore di Correggio. Leggendo Last love parade mi sono convinto che Marco Mancassola è l’unico autore in grado di muovere realmente da dove Tondelli aveva interrotto. Al pari dell’autore di Altri libertini, Mancassola è in grado di restituire al lettore le preziose sensazioni di onestà, immedesimazione, e catarsi personale. La sua prosa è a tutti gli effetti italiana e allo stesso tempo europea. Anch’egli, come Vicky, muove dalla provincia per un salto immaginifico chiaramente cosmopolita. Inoltre con Last love parade dimostra quanto sia ancora imprescindibile il legame fra giovanilismo e musica per una rappresentazione narrativa vivida ed esemplare.
Last love parade racconta la storia di un amore amicale, quello dell’io narrante nei confronti dell’amico Leo (come il protagonista di Camere separate di Tondelli). Un’amicizia nata attraverso l’affinità elettiva della musica dance elettronica. Quella che i due giovani amici intraprendono è una ricerca che li porterà a riconoscersi, attraversare i decenni, identificarsi, per poi allontanarsi e perdersi in un fade to gray emozionale. In Last love parade il racconto privato si fa collettivo, si amplia a inglobare e raccontare l’evolversi della dance elettronica: le radici disco, la club culture, la techno, la goa trance, l’hardcore, il raving, e, ovviamente, la acid house. Una narrazione che è allo stesso tempo sociale, politica e culturale.

martedì 3 aprile 2012

Il video di Crazy Clown Time di David Lynch (2012)

Quello che avevamo da dire sul primo disco di David Lynch, Crazy Clown Time, l'abbiam detto. Non è certo la prova migliore di Lynch nella musica, anzi. Il disco ci ha deluso, tanto. Non ne capiamo l'utilità, ed è subito chiaro che non aggiunge nulla all'Opera complessiva del regista di Mulholland Drive. Ecco però che Lynch, torna a sorprenderci. Lo fa con lo stesso piglio con cui ci ha entusiasmato   attraverso i corti che ha girato negli scorsi anni (uno per tutti Darkened Room), realizzando il video per il singolo Crazy Clown Time che da il nome al suo album. 
Il video - che trovate alla fine del post, dopo il salto - è stato definito dallo stesso regista «un'intensa follia psicotica da giardino sul retro, irrorata di birra», è un surreale e grottesco scenario nichilista che non a caso mette in scena un gruppo di giovani (tipizzati, con un particolare appeal rock) intenti a portare alla deriva l'idea, tutta middle class, del barbecue. Del rituale sociale celebrante il benessere suburbano non rimane che orrore, languore, delirio e angoscia. La demistificazione dei ruoli stereotipati tipici della pop culture americana (il quaterback, la groupie, l'indie, il punk, un hipster con dei baffi à la Dalì) , su cui poggia il totem MTV, decreta la rottura degli immaginari, la diaspora delle tribù, la fine di ogni ritorno e di ogni contaminazione. Rimangono solo i detriti, abbandonati, affastellati e inutili mentre un perpetuo rituale si consuma attraverso gestualità, mimiche e umori.

Darkened Room di David Lynch (2002)

Conosciamo bene l’attitudine a sperimentare di David Lynch e altrettanto bene sappiamo che al regista di Mulholland Drive e Twin Peaks piace farlo con le nuove tecnologie digitali come fu ad esempio per Dumbland, i cui otto episodi furono realizzati con l’ausilio del software Macromedia Flash (così come il video cult di Moby Shot in the back of the head). Già nel 2002 Lynch iniziò ad accantonare l’analogico con il breve esperimento Darkened Room (che trovate integralmente sottotitolato in lingua italiana alla fine del post) girato con la tecnica video digitale grazie al quale Lynch crea un intenso effetto straniante soprattutto in merito al sonoro (come nella sequenza in cui la ragazza giapponese cita i dati relativi al consumo delle banane nel mondo). Il video aumenta in crescendo (ma per accostamenti DADA, irrazionali e sorprendenti) la sensazione perturbante: dall'inizio in cui una ragazza giapponese (tale Etsuko Shikata) descrive - come in centinaia di video postati ogni giorno su Youtube - il posto in cui vive fino al minaccioso climax finale nella darkened room in cui una ragazza bionda piange annichilita su un divano mentre una donna bruna la terrorizza sovrastandola. Le sensazioni di pericolo imminente e di colpa (o della rimozione della stessa) sono ottenute grazie a un cosciente e certosino lavoro sui dettagli: le tre donne di nazionalità diversa (probabilmente declinazione psichica della stessa persona), l’orribile lampada-bambolotto sul pavimento, i disegni che Lovecraft avrebbe definito “osceni” appesi alle pareti della stanza…

Darkened Room, come abbiamo compreso dopo, annuncia e anticipa il capolavoro definitivo di David Lynch, INLAND EMPIRE, che uscirà ben quattro anni dopo. Chi di voi si è accorto di una certa camicia da notte cui è stato praticato un foro con una sigaretta?

Da (an)notare: le attrici nella darkened room del titolo sono Jordan Ladd e Cerina Vincent: entrambe apprezzate scream queen nonché star della pellicola horror di culto Cabin Fever dell’allora enfant prodige Eli Roth.

lunedì 2 aprile 2012

Brian di Nazareth dei Monty Python (1979)

Nostalgia del Natale? Vi mancano quei pomeriggi passati sul divano a rivedere vecchi film come Frankenstein Junior e The Rocky Horror Picture Show? Si avvicinano le vacanze pasquali e non c'è niente di meglio che colmare la mestizia di questi giorni con il cult movie Brian di Nazareth degli immensi Monty Python, prodotti qui nientemeno che dall'ex beatle George Harrison

Lo diciamo subito, questa volta è consigliatissima la visione in lingua originale ma - per una volta - occorre sottolineare la buona riuscita del doppiaggio in lingua italiana che ha saputo mantenere la verve comica dei giochi di parole e dei diversi nomi presenti nella pellicola. Il rutilante “affresco parallelo” è costruito intorno alla figura di Brian coevo di Gesù ed escamotage colto e spassosissimo utile a mettere in evidenza contraddizioni e assurdità del contesto storico-sociale in cui è ambientata la vicenda: la Giudea di Cristo e di Ponzio Pilato (qui interpretato da Michael Palin). Dall’assurda organizzazione rivoluzionaria anti-imperialista “Fronte Popolare di Giudea” alla folla invasata in cerca di un messia («seguite la zucca! La sacra zucca!»), dalle crocifissioni part-time alle lapidazioni en-travesti, la pellicola è una delle migliori e più riuscite parodie a tema religioso mai girate. Ricordate però di lasciar perdere riferimenti all'ucronia come canone, qui siamo in pieno (e controllatissimo) delirio intellettuale. Molti i riferimenti alla filosofia e alle figure letterarie, un esempio su tutti l’intervento “alieno” come riflessione teorica sull'assurdità di certo utilizzo del deus ex machina.

In definitiva un film eccezionale - riuscitissimo esempio di laicità e intelligenza - dai Monty Python, il collettivo comico che a buon diritto è considerato il più colto della storia del cinema.

Devozione di Antonella Lattanzi: tre note a margine

Ripropongo di seguito il post dedicato al romanzo maieutico Devozione di Antonella Lattanzi scritto nel giugno 2010 per il blog collettivo MilanoRomaTrani:

1. Devozioni. L’idea che rende Devozione (Einaudi Stile Libero Big) un’opera complessa e in qualche modo iconica è la scelta intima e assai perigliosa di portare sulla pagina uno degli aspetti più pericolosi e bui della natura umana e non una didascalica rappresentazione dell’universo – per troppo tempo appiattito a luogo comune – dei soli eroinomani. Antonella Lattanzi fa della sua protagonista Nikita/Vera una preziosa chiave di volta narrativa in grado di rappresentare lo straziante e pericolosissimo desiderio che attanaglia ognuno di noi nei confronti di qualcosa, molto spesso di qualcuno. La Devozione del titolo si materializza pagina dopo pagina nelle parole, nelle intenzioni e nelle scelte di Nikita aprendo il lettore alla presa di coscienza della propria, di devozione, in un processo capace di rivelarsi lancinante e sconvolgente. Le forme di devozione di Nikita ci sono immediatamente familiari: il trabocchetto mentale, la menzogna a se stessi, la naturale assunzione della propria immutabile natura nonché il desiderio fortissimo (e per questo puro) di cambiamento, fanno già parte della vita quotidiana di tutti noi. Già, Nikita ha scelto l’eroina (solo l’arrivo alla prima pera meriterebbe una trattazione critica a sé) ma la sua Devozione, la vera consacrazione a cui ha scelto di votarsi è Pablo, il ragazzo calabrese al suo fianco dalla prima pagina del romanzo. Bisognerebbe sottolineare ogni espressione, ogni paragrafo che per voce sola di Nikita esprime la condizione di desiderio puro e vocazione nei confronti dell’amato: ci troveremmo di fronte alla migliore rappresentazione contemporanea dell’idea di devozione, il cuore pulsante e livido del romanzo, ciò che lo rende prezioso e vicino al lettore.