giovedì 29 dicembre 2011

The Elephant Man di David Lynch (1980)

In The Elephant Man, suo secondo lungometraggio, il maestro David Lynch conserva la raffinata fotografia in bianco e nero e le prerogative formali del suo primo lavoro, Eraserhead. La mente che cancella, scegliendo una colonna sonora emozionale e mai invasiva. The Elephant man racconta le vicende tratte da una storia vera, narrata in due testi: Elephant Man and Other Reminiscences di Sir Frederick Treves e The Elephant Man. A Study in Human Dignity di Ashley Montagu.
Joseph (nel film chiamato John) Merrick (interpretato da un trasfigurato e commovente John Hurt) è un individuo colpito da deformità nella struttura anatomica e fisiologica (ad esempio non può dormire supino, posizione che gli sarebbe letale). Egli viene recuperato dal Dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins) durante un orrido spettacolo circense per scoprirne solo in seguito l’animo gentile e raffinato. Attraverso le molte peregrinazioni di Merrick, fra l’ospedale, la casa del Dottor Treves, il rapimento da parte del suo ex proprietario Bytes (un delizioso omaggio ai malvagi vittoriani di Dickens), l’Europa continentale e di nuovo Londra, la pellicola mette in scena il confronto orrorifico fra l’oscena umanità e il raffinato e delicato carattere di Merrick. Degna di nota in questo senso la scena in cui il guardiano dell’ospedale “espone” Merrick alla volgare curiosità del lascivo sottobosco londinese - alcolizzati sboccati e prostitute curiose - una decrepita umanità pronta a deridere il deforme Merrick.

domenica 25 dicembre 2011

Il mare arriva a mezzanotte di Steve Erickson (1999)



Il mare arriva a mezzanotte conferma la maestria sublime e immaginifica di Steve Erickson. Il romanzo si presenta come un’ampia e rarefatta descrizione del caos postmoderno che mostrando i suoi connotati di “rete emozionale” diviene reperto allo stesso tempo fossile e futuribile. I molti personaggi sono fra loro legati, o meglio linkati, come in una nuova e ipertestuale epopea. Non si tratta solo di legami di tipo causale ma di veri e propri riferimenti concettuali che riconducono i diversi protagonisti a categorie più ampie e generali. Kristin, la giovane e burrosa «musa del caos», Angie la ninfa perduta, Louise la terrorista dell’erotismo e persino Marie la salvifica martire, condividono i propri percorsi: la maternità, in particolare l’impossibilità di confrontarsi con essa. Le accomuna anche una certa condizione di fuga e il desiderio di ricerca (sia che si tratti di un sogno piuttosto che di una espiazione). Controparte della stessa realtà «caotica» sono i personaggi maschili: l’Occupante, teorico del caos, Carl il commediografo fallito e cartografo dell’imminente apocalisse, Mitch il pornografo dagli appetiti violenti. Essi risultano ancora una volta legati solo apparentemente da rapporti causali e si muovono secondo una logica allo stesso tempo distruttiva e salvifica, non scevra da una certa componente tragica. 

Ne Il mare arriva a mezzanotte sia il tempo che lo spazio si muovono con disinvoltura come i moduli mobili del futuribile Hotel Ryu del Dance Dance Dance di Murakami Haruki, ed è facile che si materializzi nei maleodoranti sobborghi di Los Angeles piuttosto che nella Parigi della contestazione giovanile, nella Londra lasciva e swinging piuttosto che nella provincia americana, in un loop immaginifico che anticipa la “teoria dei frame” di Zeroville.

sabato 24 dicembre 2011

A Dirty Shame di John Waters (2004)


Possiamo a buona ragione considerare A Dirty Shame l’opera definitiva di John Waters, quella che sintetizza l’operato antiborghese e punk (Mondo Trasho, Female Trouble, Pink Flamingos) della prima produzione con il recupero dell’estetica rock’n roll e dell’immaginario suburbano della seconda (Polyester, Cry Baby, La signora ammazzatutti). Il regista di Hairspray lo fa ancora una volta a Baltimore, l’ombelico del mondo, «la città della diversità», come dirà uno dei personaggi.  Baltimore, che ha già fatto da sfondo alle passeggiate demoniache di Divine, e che qui torna a celebrare un certo sguardo iper-trash e sovversivo che pensavamo ormai appartenere al passato. A Dirty Shame, forte delle sperimentazioni linguistiche affinate negli anni da Waters, sembra tornare ai fasti violenti di un tempo, raccontando della preparazione a una nuova pasqua sessuale, un’avant-resurrezione, da realizzarsi nell’atto sessuale definitivo. Alla sua ricerca si metterà la protagonista Sylvia (Tracey Ullman), ex neuter (“neutra”), diventata una drogata di sesso orale (che vorrà farsi praticare da chiunque) e adepta del cristo sessuale Ray-Ray (il folle Johnny Knoxville di Jackass, qui in versione profeta rockabilly).

mercoledì 21 dicembre 2011

Pecker di John Waters (1998)


Con Pecker continua il percorso di normalizzazione e adattamento alla contemporaneità iniziato da John Waters con l’uscita di Hairspray. Grasso è bello e continuato con Cry Baby e in parte con La signora ammazzatutti. Un lavoro di recupero nostalgico dell’estetica e dell’energia giovanile, un ritorno alle origini, in parte autobiografico. 
L’operazione rappresenta per l’esteta e «pope of trash» John Waters una sorta di rifugio: quando la tua irriverente visione è ormai diventata mainstream non ti rimane che cercare riparo. In questo caso il regista torna ancora una volta a Baltimore, per ritrovare la quotidiana allure trashy che fu input per la sua attività artistica. Pecker condivide parte della biografia di Waters, l’ossessione per il particolare ributtante, la ricerca della stesso e la capacità di trovarlo, isolarlo e farne arte. Tutta la sessione di opening è un omaggio-antologia alla personale visione di Waters della zona suburbana di Baltimore: due ratti che si accoppiano in un cassonetto dell’immondizia, una donna che si depila con un rasoio sul bus, la sorellina iperattiva di Pecker che sevizia una bambola, sua nonna che fa parlare una statuetta dalla Madonna come un ventriloquo… Il messaggio è chiaro e ribadito dai tempi di Polyester: la suburbia è il nido dove è cresciuta e si è sviluppata una middle class che ha normalizzato il grottesco, accettandolo come parte di sé, non censurandolo (facendone infine arte grazie all’obbiettivo di Pecker). Si tratta di una fauna campy - basta guardare il negozio di abbigliamento della madre di Pecker, che finirà poi sulle pagine di «VOGUE» - dedita al cattivo gusto, orgogliosamente mainstream.

sabato 17 dicembre 2011

La signora ammazzatutti di John Waters (1994)


Con Cry Baby John Waters si era rifugiato a Baltimore per esorcizzare la scomparsa di Divine. A quattro anni di distanza è ancora lì per realizzare la sua nuova pellicola: La signora ammazzatutti. Grottesca, spassosissima e profetica critica all’imperante minimalismo morale della classe borghese. Attitudine fatta di protezionismo dell'interesse privato, ossessione per una perfezione realizzabile solo fra le mura di casa e smodata ambizione nei confronti dell’arena mediatica e televisiva. Come sappiamo la poetica di Waters vuole molto di più di una semplice critica sociale ed ecco che arriva il ribaltamento, la messa in scena, l’ironia e la consueta pioggia di citazioni: sotto l’aspetto di una famiglia pop al limite della réclame (non a caso Roger Ebert nella sua recensione al film cita Le avventure di Ozzie e Harriet, biondissimi e perfetti interpreti del sogno americano) si nasconde un insano e folle segreto. Beverly Sutphin (Katlheen Turner) che vive a Baltimore in un microcosmo dai colori pastello insieme al marito dentista e ai due figli Misty (Ricki Lake) e Chip non è la casalinga e vicina che tutti credono, è in realtà una lucida e feroce serial killer.

Cry Baby di John Waters (1990)


Quando uscì Cry Baby riscosse più successo a Cannes che al botteghino e per molti anni fu sottovalutato e accusato di trascendere diversi generi senza interpretarne realmene nessuno, in ogni caso incapace di rappresentarne la sintesi. Oggi però la prima pellicola di John Waters dopo la morte di Divine torna alla ribalta grazie alla potenza del dialogo fra cinefili e appassionati che continuano a discuterne le istanze con idee sempre più acute e originali su blog e social network. Ad appassionare è certamente l’insieme di personaggi, rigorosamente suddivisi in due gruppi: da una parte i giovani rocchettari in leather jacket e jeans aderenti, amanti delle motociclette e della libertà (figli di Rusty il selvaggio quanto del Kenneth Anger di Scorpio Rising) dall’altra i giovani patrizi in cardigan di cotone e pantalone con le pence, elitari e conservatori. Fra questi utlimi l’angelica Allison (Amy Locane) che vuole a tutti i costi essere una bad girl e unirsi alla banda di Wade “Cry Baby" Walker, un giovanissimo Johnny Depp nei panni del capo di una gang di motociclisti composta da sua sorella Peperona (l'ultima arrivata frai Dreamlanders Ricki Lake), Wanda (una spigolosa e già nota alle cronache Traci Lords), la grottesca Mannaja (Kim McGuire che cita direttamente l'immensa e irrangiungibile Edith Massey) e Milton (Darren E. Burrows). Chiudono la formazione Ramona la racchia (nonna di Cry Baby) una rugosa e fumettistica Susan Tyrell, accompagnata nientemeno che da Iggy Pop nei panni del folle zio di Cry Baby.

mercoledì 14 dicembre 2011

Strade Perdute di David Lynch (1997)

Un legame che potremmo definire gemellare lega Strade perdute (Lost highway) a Mulholland Drive. Entrambe le pellicole del maestro David Lynch coniugano in maniera differente il tema del doppelgänger (presente anche in Twin Peaks). Se in Mulholland Drive Diane/Betty è la dicotomica trasfigurazione di un inconscio ferito, in Strade Perdute ci troviamo di fronte alla rappresentazione (secondo la lezione surrealista) di un assassino dalla personalità multipla. Superando il desiderio di comprensione lineare della trama bisogna prendere atto della bellezza, iconica e straniante di questa pellicola, che con fare ready made prende una cornice noir delle più classiche per trasfigurarne i tratti, rendendoli soffusi, perversi e altamente immaginifici.

In Strade Perdute il corpo di Fred Madison/ Peter Dayton è franto e sotto stress. I due volti riemergono più volte, scrutandosi vicendevolmente senza mai riconoscersi, nemmeno quando entrambi si specchiano nel volto cereo e orribile dell’Uomo Misterioso (un agghiacciante Robert Blake), il ferino e cosciente deus ex machina, pronto a intervenire al momento più utile. Così accade anche per il corpo di Renee/ Alice (una Patricia Arquette che ci sembra la figlia di Dorothy Vallens), sensuale e accecato dal chiaro riverbero della luce piuttosto che cinto da una vestaglia scura. Una venere scellerata reincarnatasi nel corpo di una cover girl da rivista pulp. 

Particolare menzione merita la colonna sonora (a cui bisognerebbe dedicare un intervento a parte) che propone brani di Marylin Manson (che fa anche un cameo nel film), David Bowie, The Smashing Pumpkins, Lou Reed, Nine Inch Nails, Trent Reznor (produttore della colonna sonora), e il sempre presente Angelo Badalamenti.

martedì 13 dicembre 2011

Eraserhead di David Lynch (1977)

Eraserhead. La mente che cancella, primo lungometraggio del maestro David Lynch contiene già tutti gli stilemi e le prerogative della sua visione cinematografica. La pellicola è del 1977 e il protagonista Henry Spencer sembra una personale visione lynchiana dell’estetica punk: completo nero, capigliatura che sfida la gravità, pantalone alla caviglia. Lynch ne fa un’icona a metà fra l’espressionismo de Il gabinetto del Dottor Caligari e il surrealismo più violento e visionario di Buñuel. David Lynch opera precise scelte stilistiche, occupandosi quasi di tutti gli aspetti tecnici. Lascia però la fotografia a Frederick Elmes (insieme a Herbert Cardwell) che collaborerà con lui anche in futuro. Proprio il connubio fra la regia visionaria (costituita da un uso particolare dei tempi e delle inquadrature che da simmetriche si scompaginano per ricostruirsi come in un’opera cubista) e la fotografia assai formale costituita da tagli netti e un uso del bianco accecante rispetto al nero, soffuso, cinereo e sporco. Irriverente già dalla forma Eraserhead mette in scena una vera cosmogonia dell’orrore basata sulla sensazione - sulla suggestione mai del tutto metafisica - continuamente giocata nell'incontro fra l’organico e il meccanico, quasi a cercare una comunione di intenti con il body horror di David Cronenberg. La messa in scena “scellerata” dell’incontro fra Henry Spencer e la sua diafana e fanciullesca fidanzata Mary materializzerà gli orrori della mente dei due compagni nell'orribile parto di un deforme neonato dalla testa di girino (ma che somiglia in maniera grottesca al cranio di un agnellino su un banco di macelleria). L’evasione dall'angosciante routine quotidiana è qui costituita dalla dimensione onirica e bizzarra in cui vive la deforme e “angelica” donna nel radiatore. Un palcoscenico in cui mettere in scena paure e desideri (dalla riproduzione sessuale con la pioggia di girini, all'attrazione tradita dal volto orribile della donna).
La pellicola è ricca di citazioni: dalla femme fatale vicina di casa, al “monello” che ricorda quello di Chaplin, qui grottescamente ripreso mentre porta il cranio reciso di Henry in una bizzarra fabbrica di matite che ricaverà gomme da cancellare dal suo cervello.

Essenziale, liberatorio e imprescindibile non solo per gli amanti di David Lynch, Eraserhead è la chiave di volta utile a prendere coscienza di quali siano le incredibili potenzialità sperimentali dell’arte cinematografica.

venerdì 9 dicembre 2011

Hairspray di John Waters (1988)


Con Hairspray. Grasso è bello inizia per John Waters – regista, esteta e raffinato scrittore (Shock e Crackpot) – una nuova fase cinematografica. Il regista di Baltimore dichiarerà che, sin dai suoi esordi, ha sempre sentito il bisogno di mutare gli strumenti cinematografici con cui affrontare la contemporaneità. Partito dal midnight movie (Mondo Trasho) per arrivare alla commedia in Odorama (Polyester), passando per il gore movie (Multiple Maniacs) e la fiaba (Nuovo Punk Story). Con Hairspray Waters inizia il lavoro di recupero delle motivazioni, dell’energia (tutta in potenza), dell’estetica lisergica dell’adolescenza. Un’operazione che continuerà con il cult assoluto Cry Baby e con il meraviglioso Pecker. JW in Hairspray torna agli anni Sessanta, all’estetica della brillantina, del rock’n roll (quello più scatenato, liberatorio e sessuale), della lacca e dell’attitudine campy di un decennio cui guardare con nostalgia.

venerdì 2 dicembre 2011

Twin Peaks: la seconda stagione (1990-1991)


È il 1990 e la Twin Peaks mania dilaga. Continuano con ventidue nuovi episodi le vicende dell'agente Cooper nell'immaginaria cittadina dei picchi gemelli. A questo punto è ormai evidente che la serialità è diventata per David Lynch un modello ideale di narrazione. Questa formula consente una grande licenza narrativa: la possibilità di continuare all’infinito, per esempio, senza mai rivelare l’autore dell’omicidio di Laura Palmer (possibilità che purtroppo non si concretizzerà). Non ci stupisce che l'idea abbia affascinato Lynch, ricordiamo a questo proposito i finali aperti o tendenzialmente infiniti di Eraserhead o di The Grandmother.

Con la seconda stagione i personaggi si evolvono naturalmente: l’agente speciale Cooper rimane in città dopo aver scoperto l’assassino di Laura (e Maddy), per affrontare la decostruzione del proprio ruolo di agente dell’FBI (a cui fa eco una riscrittura della detection storty più che mai vicina alle suggestioni de Ai confini della realtà) e del metodo induttivo di cui tanto si è servito durante la prima stagione. A incarnare la nemesi di Cooper sarà Windom Earle, suo vecchio compagno all’FBI, ora squilibrato assassino affascinato dalle scienze occulte (in particolare l’esoterismo tibetano). Earle inizierà a uccidere secondo un piano prestabilito, un vero e proprio gioco a cui Cooper sarà obbligato a partecipare per porre fine alla spirale di follia che prima o poi risucchierà anche le persone a lui più vicine.  I contorni si faranno presto indefiniti, spostando gli eventi in una dimensione “altra”, un universo occulto e inimmaginabile nel quale perdersi è facile come schioccare le dita.

giovedì 1 dicembre 2011

Twin Peaks: la prima stagione (1990)

«Chi ha ucciso Laura Palmer?».

Una frase di culto, un feticcio linguistico che continua a fare eco in blog, forum e siti di fan-fiction. Sono passati molti anni dalla prima messa in onda de I segreti di Twin Peaks (era il lontano 1991 quando fu proposta sulla rete regionale Italia 7 Gold) ma l’entusiasmo per la serie ideata da David Lynch e Mark Frost non accenna a diminuire, segno evidente che i veri capolavori raramente perdono smalto col tempo.
Tutti abbiamo sognato di prendere un caffé nero «come una notte senza luna» al Double-R-café insieme a Dale Cooper (Kyle MacLachlan) l’agente dell'FBI dal colorito ectoplasmatico, impegnato a sviscerare il mistero della morte di Laura Palmer, reginetta della scuola, benvoluta da tutta la comunità. Cooper cercherà di portare a termine il compito a colpi di meditazione trascendentale (praticata e portata nel mondo da Lynch) e visioni oniriche, che lo trasmigreranno in una dimensione ai confini della realtà, popolata da nani, giganti e da un olimpo di divinità sdrucite dall'aspetto suburbano.

Polyester di John Waters (1981)


Una rassicurante veduta aerea della zona suburbana, luminosa e colorata, introduce - complice il tema didascalico e languido cantato da Debbie Harry e Tab Hunter - lo spettatore all’interno dell’estetica melò di Polyester, una nuova e più matura prova di John Waters che adatta le sue istanze irriverenti e rivoluzionarie al servizio di una produzione più matura e popolare.
In Polyester Waters opera all’interno dell’immaginario melò, costruito e reso celebre da Douglas Sirk, ribaltandone stilemi, personaggi e movimenti narrativi per raccontare l’allucinato microuniverso di provincia, costruito sul cattivo gusto, sui cardini pragmatici e consolatori del cheap, del camp e del trashy. la protagonista Francine Fishpaw (letteralmente “zampa di pesce”) è una totemica desperate housewife ante litteram, esasperatamente remissiva e timorata nonostante gli introiti della sua famiglia provengano dal cinema porno gestito dal marito. L’operazione di Waters nella costruzione del personaggio di Francine è inaudita: pone al centro della conservatrice realtà suburbana (siamo ancora una volta a Baltimore) un travestito di quasi duecento chili, del tutto credibile nel ruolo della casalinga afflitta da problemi che dalle privatissime camere male arredate della sua casa diventano pubblici. Il rapporto interno - esterno, privato-pubblico è centrale in Polyester e sarà approfondito nelle future pellicole di Waters: Hairspray (l’emulazione e il modello televisivo), La signora ammazzatutti (il processo mediatico), Pecker (il rapporto con la fama). Il minimalismo morale di Francine è estremizzato, lei vorrebbe solo vivere una vita semplice, appunto suburbana, allietata da pic-nic insieme all’amica Cuddles (una cameriera arricchitasi interpretata dalla mitologica Edith Massey) e gratificata dai figli, invece deve confrontarsi con l’onta televisiva che racconta delle proteste nei confronti del cinema porno di suo marito, che stringe il cerchio attorno al maniaco feticista che pesta i piedi in giro per la città (suo figlio). A tutto ciò si aggiungono le continue umiliazioni verbali e fisiche cui Francine è sottoposta dalla figlia delinquente, dalla madre priva di scrupoli, e non ultimi dal marito e dalla di lui amante (Mink Stole!) che in braghe di tela e reggiseno (rigorosamente di poliestere) la bersagliano di scherzi telefonici. Ovviamente a nulla varrà la sua invocazione-manifesto (che ribalta la profezia warholiana) «Vi prego non voglio finire in televisione!».