Scrivendo di Female Trouble – l’ultima pellicola realizzata da John Waters insieme alla scatenata gang dei Dreamland – ho iniziato
subito a pensare alla metabolizzazione, da parte della moda (basti pensare al
lavoro estetico di Nicola Formichetti e Anna Dello Russo) e dei media
mainstream contemporanei, dell’idea centrale della pellicola: quel
rovesciamento del punto di vista con cui interpretare eleganza e bellezza,
donandole connotati orrorifici, mostruosi e postumani.
Allora le motivazioni erano totalmente punk (il
volto di Divine con il taglio alla mohicana apparve immediatamente sulle
t-shirt dei punk londinesi), reazionarie e dissacranti nei confronti di valori tipici
della borghesia. È però la tranquillità,
avvolta da una soffice bambagia pastello, dell’american way of life a generare terrore e follia. Sappiamo già che
una delle ossessioni principali di John Waters fu la Famiglia Manson e il
processo che aveva preso avvio nel 1970. In Female
Trouble Waters ne rielabora il mito, suddividendo la pellicola in capitoli
che raccontano la nascita e la crescita di Dawn
Davemport (interpretata neanche a dirlo da Divine), prima adolescente
problematica poi go-go dancer, infine assassina in nome della fama. Nella prima
parte della pellicola Waters anticipa alcune delle sue future predilezioni:
l’adolescenza problematica (Grasso è bello, Polyester ma soprattutto Cry Baby), le capigliature cotonate e lo
stile 60s che lo riconducono dichiaratamente alla giovinezza. Il nostro è
ancora circondato dai suoi Dreamland e le istanze di quello che è in assoluto
il film-summa di tutta la carriera di Waters devono essere rispettate. Se in
futuro sarà Grasso è bello, oggi è
ancora Brutto è bello: Dawn è reificata a oggetto simbolo della
malattia di una società votata alla spettacolarizzazione, ovviamente del male,
della follia e della violenza. Viene violentata in una discarica (in una delle
scene più folli del cinema di Waters in cui Divine è violentato da… sé stesso
in abiti maschili), strappa coi suoi denti il cordone ombelicale della figlia partorita da sola sul divano, compie azioni lascive, mozza la mano della sua
vicina-antagonista rinchiudendola poi in una gabbia in stile canarino
(realizzata come le scenografie campy
di tutto il film da Vincent Peranio). Dawn è in definitiva una fiera (avvolta
in abiti per l’appunto animalier),
allevata dagli oscuri Dasher (Mary “faccia d’angelo” Pearce e David Lochary), i
proprietari del salone di “bellezza” (le virgolette sono d’obbligo) Lipstick. Saranno loro a guidare Dawn
sul sentiero del crimine e dell’orrore.
Susan Atkins |
L’intera esistenza di Dawn Davenport è un’ascesa
nei confronti del brutto, ogni capitolo è il raggiungimento di un obiettivo via
via sempre più agghiacciante: il suo volto deturpato dal vetriolo (lanciatole
addosso da un’orrendamente sexy Edith Massey in leather suit) appare ai suoi occhi e a quelli dei Dasher meraviglioso,
diventando per il resto del film l’immagine simbolo della Dawn showgirl. Il
raggiungimento delle luci della ribalta, però, non sono abbastanza, Dawn è decisa a incarnare il folle spirito dello
spettacolo per una società che richiede di interpretare il mondo esclusivamente
attraverso di esso. Dawn mette su uno show violento in cui a un certo punto sembra
citare allo stesso tempo Kenneth Anger e Andy Warhol, domandando al pubblico «chi è pronto a morire per l’arte?» prima di iniziare a sparare sulla
folla compiendo una carneficina.
Nell’ultima parte del film - che ricordiamolo: non abbandona mai l’allure
comedy – si fa ancora più evidente l’omaggio alla famiglia Manson: Dawn
condannata a morte inizia a ridere sguaiatamente riprendendo le performance in
aula di Susan Atkins e Charles Manson, nel braccio della morte ella diventa un’icona,
amata e desiderata (si ricordi il bacio con un'altra detenuta prima dell’esecuzione)
e nemmeno nel finale rinuncia a ribadire la follia di una società votata alla
spettacolarizzazione, in una delle inquadrature più ricordate del cinema di
Waters: il volto di Dawn fissato in un’espressione assai comica dopo aver
ricevuto la scossa letale sulla sedia elettrica.
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