lunedì 26 maggio 2014

Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson (1919)



Una cittadina di passaggio, a margine. Un incrocio di strade velocemente attraversato dai berry pickers, i raccoglitori stagionali di piccoli frutti come lamponi e ribes o cranberry, utilizzati per produrre la tradizionale gelatina che accompagna il tacchino nel giorno del Ringraziamento. Intorno i campi di granoturco sono attraversati dal vento e insieme al frinire delle cicale è l’unico suono che accompagna la vita degli abitanti di Winesburg, Ohio. Questo è il luogo immaginario in cui lo scrittore Sherwood Anderson ambienta le storie dell’omonima raccolta di racconti, pubblicata nel 1919.
Winesburg, Ohio riesce allo stesso tempo a coniugare la tradizione letteraria americana (primo fra tutti Mark Twain), raccontare della provincia nel momento in cui l’industrializzazione ne sta cambiando i connotati per sempre e proporre una nuova forma narrativa - definita dall’autore stesso «elastica» - che coniughi l’attitudine tutta europea al romanzo con la cultura strenuamente simbolica (come la definirà decenni dopo Christopher Isherwood) degli Stati Uniti d’America.
I ventidue racconti della raccolta sono identificati da un titolo simbolico e categorico che introduce il tema ma soprattutto il personaggio centrale - il cui nome affianca e completa il titolo, per esempio: Mani. Wing Biddlebaum o Solitudine. Elmer Cowley - a voler ribadire la centralità dei «grotteschi» personaggi di Winesburg. Tutti i racconti convivono nell’unità di luogo costituita dall’immaginaria cittadina - di cui Sherwood Anderson disegnò anche la mappa – e sono connessi e attraversati dagli stessi personaggi, temi e da un registro e un intento comune. Formano così uno straordinario affresco di voci che ricordano le manifestazioni individuali dell’Antologia di Spoon River ma che possiedono l’energia dolorosa e la rappresentazione disturbata, agitata e irrefrenabile del surrealismo francese, della poesia di Gertrude Stein e dei racconti di James Joyce. Sherwood Anderson, nei suoi racconti, parte sempre dalla descrizione dell’ambiente, immobile, fisso e sonnolento (quando non asfissiante), un bozzetto in cui con crescente tensione assistiamo a un’esplosione silenziosa e tutta in interni del personaggio. Esplosione che può cogliere il lettore persino nelle ultime pagine del racconto e che ci mostra il dolore per l’incapacità dei «grotteschi» di esprimersi liberamente e agire in un ambiente soffocante, puritano e immobile. Il dolore e il disagio deflagrati trovano il modo di raggiungere la superficie e si manifestano sottoforma di stranezze, tic, momentanei momenti di follia e guizzi di straziante consapevolezza. Il lettore gode della dolcezza delle «mele»* di Anderson - che diventeranno categoria letteraria - ne conosce, grazie alle digressioni narrative di Sherwood Anderson, i tratti più poetici e delicati, intrecciati in maniera umorale e dolorosa nel loro incontrare la realtà.

domenica 18 maggio 2014

This Is How the World Ends di Gregg Araki (2000)



Abbiamo già visto come il mondo è finito e come una serie di schegge impazzite, luccicanti e kitsch siano venute a costituire la nuova realtà. Gregg Araki, dopo aver giocato con parte di questi materiali per realizzare la prima screwball comedy ai tempi dell’Avant-Pop, Splendidi Amori, si lancia in un nuovo progetto, la creazione di una serie televisiva, This Is How The World Ends, patrocinata da MTV canale che gli artisti Avant-Pop hanno considerato uno dei principali mezzi di diffusione delle idee dell’avanguardia nella cultura popolare: la logica dell’iperconsumo, l’importanza del nuovo, lo zapping come forma di costruzione artistica. Per problemi di budget e nonostante l’impegno e la dedizione del nostro, la serie non fu mai messa in onda. Gregg Araki realizzò – con un budget ridotto – solo il pilot della serie, che seppur mai andato in onda riuscì a diffondersi e raggiungere i catecumeni di tutto il mondo grazie all’internet (alla fine del post la versione integrale dell’episodio presente su Youtube). 
Araki celebra la fine del mondo con un titolo che parafrasa T. S. Eliot: «This Is How The World Ends», lanciandoci in un universo creato ad hoc, una costruzione situazionista in cui elaborare trame lunari, materializzare legami casuali fra eventi e personaggi e celebrare la ripetizione come epifania straniante e disturbante. 
This Is How The World Ends inizia con un sogno tumido, tipico di Araki: lo studente di liceo Casper Van Dyke (Alan Simpson) sogna di trovare nella doccia la ragazza dei suoi sogni Christmas (Kelli Garner) ma è svegliato dalla voce isterica della madre che batte dietro la porta per svegliarlo. Araki recupera stilemi, idee, tic e ossessioni del teen-drama e li commistiona con l’immaginario pop lisergico degli anni Novanta, ribaltandoli e facendoli vorticare e luccicare. Ecco quindi costruirsi un trio, com’è tipico nella produzione del regista losangelino: al fianco del good good boy Casper abbiamo Sluggo (Molly Brenner) amica lesbica e post-punk e Miles, skater boy (in incognito toy-boy della madre manager di Casper). Parte così il viaggio nell’ambiente situazionista che Araki ha creato per i suoi ragazzi: un party alla fine del mondo con i Chemical Brothers come DJ, classi di cinematografia guidate da professori in pantaloni di pelle, un negozio di dischi dove lavorare dopo la scuola (frequentato da Michael J. Anderson, il nano di Twin Peaks, folle e armato), un bus della scuola guidato da una autista alcolizzata. 
Purtroppo non ci resta che questa scheggia baluginante e non sappiamo – se non per pochi secondi di anticipazioni alla fine della puntata – cosa Gregg Araki ci avrebbe riservato. This Is How The World Ends chiude un periodo nella produzione di Araki che muoverà verso una cinematografia più matura e di più ampio respiro. Questa, però, è un’altra storia. 

domenica 11 maggio 2014

The Fall di Tarsem Singh (2006)



Che cos’è The Fall?
Una magnifica ode al potere dell’affabulazione, una monumentale ricerca extra-geografica d’immaginari o un rosario di deflagrazioni policrome, simmetriche, kitsch, insomma un’immane opera d’arte su celluloide? L’opera seconda (dopo l’opalescente The Cell) dell’acclamato videomaker Tarsem Singh è tutto questo e molto di più. A vedere The Fall si rischia di cadere nel cineautismo del protagonista del romanzo di Steve Erickson Zeroville, in quello status di spasmodico desiderio di fotogrammi-feticci, d’immagini venerabili in cui diluirsi.
Tarsem ha impiegato più di quattro anni per realizzare la sua ricerca, la sua collezione di immagini e immaginari. Una ricerca che si è mossa da Bali alla villa di Adriano a Tivoli, dal Taj Mahal alla barriera corallina a forma di farfalla nelle Fiji, dall’isola di Sumatra a Praga e ancora, il Rajasthan, il giardino botanico di Buenos Aires, Istanbul e Parigi. Tutti luoghi in cui prende forma la fiaba – a metà fra Vladimir Propp e l’epica omerica – raccontata dall’infermo attore del cinema muto Roy Walker (un Lee Pace, in stato di grazia) alla piccola Alexandria (Catinca Untaru), piccola raccoglitrice di arance rumena con un braccio rotto. Entrambi i protagonisti sono degenti di un ospedale alla periferia di Los Angeles, durante gli anni Venti. È dall’incontro opportunistico fra i due che Tarsem muove per realizzare il suo folle e roboante capolavoro, in cui s’incontrano e si commistionano il misticismo orientale – come la meravigliosa danza balinese che indica il percorso da compiere ai sei eroi protagonisti – e l’amore per l’arte cinematografica (Roy è uno stuntman che ha subito una frattura a entrambe le gambe durante il salto da un ponte nella realizzazione di una scena).

lunedì 5 maggio 2014

Blood simple - Sangue facile dei fratelli Coen (1984)

Ancor prima delle sperimentazioni pop-ironiche (e per questo assai postmoderne) di Arizona Junior e del programmatico lavoro di straniamento dei (e sui) generi di Mister Hula-Hoop (la screwball comedy), L’uomo che non c’era (il noir) e Fratello, dove sei? (il picaresco), i fratelli Coen si presentarono al pubblico con Blood simple - Sangue facile lungometraggio in cui i due ex studenti della NYU (Joel) e di Princeton (Ethan) decidono sì di partire dal genere (cosa che contraddistinguerà tutta la loro Opera), rimanendovi però all’interno. Il loro talento si esplica nella forma, in particolare nella regia e nella rappresentazione narrativa dei personaggi neo-noir, uno per tutti il sicario repellente e senza scrupoli Visser (M. Emmet Walsh).
Lo stesso Tarantino di Pulp Fiction sembra essere debitore ai Coen che prima di lui lavorarono al recupero di topoi, stilemi, ambientazioni e situazioni del noir e della crime fiction. in Blood simple abbiamo, per esempio, l’occultamento del sangue in macchina (su cui è basato un intero blocco narrativo di Pulp Fiction), le citazioni bibliche e il bar-locale come fulcro e propulsore della vicenda.
I fratelli Coen hanno dimostrato di essere dei registi Avant-Pop duri e puri, in grado di materializzare sullo schermo l’alterazione radicale del «fulcro della Cultura Pop attraverso un genere più popolare di gestualità dark, sexy e sottilmente ironica» (Mark Amerika). In questa prospettiva i Coen lavorano ai margini del genere, immergendo personaggi sdruciti e post-suburbani nelle più venefiche luci al neon, in camere affollate di oggetti su cui regna sovrano il telefono (come in David Lynch) o l’interfono: paradigmi della modernità intesa come corruzione (à la Tolstoj) e foriera di morte, una direzione propulsiva contro cui si scontra lo strenuo e naturale desiderio di restare insieme di Ray e Abby (una giovanissima e già eccezionale Frances McDormand al suo debutto sul grande schermo) braccati dall’ombra ferina del repellente Visser. 

Una pellicola di rara bellezza, che contiene già in embrione l’immaginario di lavori successivi dei fratelli Coen quali Fargo e Non è un paese per vecchi


domenica 4 maggio 2014

The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson (2014)



Diciamolo subito: The Grand Budapest Hotel è senza dubbio il lungometraggio più compito del regista americano Wes Anderson. Lo si dice da amante di tutta la sua filmografia, che ha regalato al pubblico storie e personaggi deliziosi e memorabili.
A fare di questa sua ultima fatica non solo una visione godibile ma emozionante e sorprendente è l’attitudine poetica che la percorre, la bellezza della parola e ciò che essa è in grado di evocare e provocare. In un immaginario come quello di Wes Anderson, caratterizzato da colori, scenari, costumi e inquadrature riconoscibili a stupire questa volta è il potere salvifico del lirismo e quello poietico del racconto, incarnati rispettivamente nei protagonisti della pellicola: Monsieur Gustave H. – il raffinato concierge del Grand Budapest Hotel, romantico, amatore di attempate ladies che scelgono l'albergo solo per passare del tempo con lui – interpretato con maestria degna del suo personaggio da Ralph Fiennes e Zero Moustafa che racconta gli eventi accaduti all’autore («come giovane uomo») interpretato da Jude Law, con indosso un paio di occhiali à la Wes Anderson e diretto riferimento allo scrittore Stefan Zweig le cui opere sono di ispirazione per la pellicola. Sarà proprio la grazia e la poesia di Monsieur Gustave H. a risolvere molte delle sventure avvenute ai due protagonisti e il valore aggiunto della pellicola sta proprio nella sua natura di racconto, di narrazione picaresca assai avvincente, concitata e ricca di personaggi.

sabato 3 maggio 2014

La strada di Cormac McCarthy (2006)


A fare di The road (La strada) un capolavoro assoluto è certamente la terribile metafora di un paesaggio terrestre post-apocalittico condotta attraverso la coraggiosa scelta formale di una prosa asciutta, ridotta e scarnificata. Una scelta magistrale quella di Cormac McCarthy per raccontare di un mondo in cui la biosfera non esiste più (piante e animali si sono estinti in seguito a un’oscura catastrofe) e dove l’uomo ha ritrovato la sua condizione ferina di homo homini lupus. È grazie a questa prosa minima che il lettore può costruire la propria visione del nuovo scenario di morte e solitudine in cui i due protagonisti sono costretti a muoversi, con particolare merito dei dialoghi: vera e propria chiave di volta per una subitanea immedesimazione coi protagonisti. 
La storia de La strada è nota: l’Uomo e il Bambino si muovono sulla strada all’indomani di una terribile catastrofe ambientale che ha eliminato la biosfera e ha opacizzato la luce del sole, i due sperano di raggiungere il sud dove trovare altri “buoni” e soprattutto una temperatura più elevata rispetto a quelle glaciali dei luoghi di partenza. Il percorso costruito da Cormac McCarthy è epico, ogni incontro simbolico, ogni luogo una diversa rappresentazione della condizione umana presente e passata: la paura, la rabbia, la rassegnazione, l’amore, la speranza, l’egoismo.

Ne La strada l’Uomo si muove forte del desiderio di sopravvivenza per il proprio figlio. È colpito dalla malattia e sopraffatto dal dolore (le sue invocazioni notturne sono un vero e proprio eco biblico) per la perdita dell’amata ma non rinuncerà mai - foss’anche nelle condizioni più estreme e violente - a portarsi avanti sulla strada. Nella visione allegorica di McCarthy l’Uomo rappresenta il sacrificio e l’atavico desiderio di sopravvivenza e prosecuzione. Il Bambino è di contro l’incarnazione della speranza. Puro di fronte a una sempre più totalizzante visione di dolore non mancherà mai di elaborarla in maniera gentile e luminosa. Un’immagine conosolatrice con il compimento della quale Cormac McCarthy chiude la sua opera in quella che è possibile leggere come un’invocazione al genere umano nella scelta del bene.

La strada è una lettura imprescindibile per il lettore contemporaneo. Un romanzo che per stile, costruzione immaginifica e valore metaforico è già un classico della letteratura mondiale.