giovedì 12 marzo 2015

Note su L’amore bugiardo – Gone Girl di Gillian Flynn


«Perché chi non ama la ragazza morta?»

Quello che ha fatto Gillian Flynn con il suo L’amore bugiardo – Gone Girl (pubblicato in Italia da Rizzoli) ha dell’incredibile. È riuscita a superare e in un certo senso risolvere le istanze che le avanguardie letterarie Avant-Pop – da Paul Auster a Don DeLillo, passando per Steve Erickson, Tom Robbins e Mark Leyner - ci avevano messo di fronte: la deriva dei generi (con una nota particolare sul noir), il confronto impazzito coi modelli letterari classici, le immani risorse della cultura popolare, l’iperrealtà mediale.
Ne L’amore bugiardo questo avviene in una grande narrazione a due voci. Due punti di vista si alternano costruendo un labirinto che mette alla prova la capacità empatica del lettore e lo sfida a un grande, spassoso e agghiacciante gioco di discernimento. Il romanzo si muove attraverso la visione multipla di Nick Dunne e Amy Elliott (Dunne), ognuno dei quali presenta la storia secondo la propria versione, percorrendola sul piano temporale, con Amy che nella prima delle tre parti in cui è diviso il romanzo propone la sua voce attraverso la pagina di diario. Brillante l’idea dell’editore italiano di affidare a due traduttori diversi le voci dei protagonisti: Nick è tradotto da Francesco Graziosi e Amy da Isabella Zani.  
Ne L'amore bugiardo la scelta della narrazione in prima persona, aiuta il lettore ad avvicinarsi il più possibile a due fra i personaggi meglio tratteggiati della narrativa contemporanea. La loro umanità, che conosciamo fin nei tratti più meschini, folli e pericolosi (ma mai mediocri), ci si presenta senza filtri, se non quelli che i personaggi stessi vogliono usare. Solo due protagonisti con una la lucida coscienza di sé come Amy e Nick possono descriversi, raccontarsi, addirittura «costruirsi» come fossero un prodotto. Anche la percezione reciproca – alla base del romanzo – diventa un raffinato gioco di rappresentazione e costruzione cui il lettore, a volte interpellato direttamente dai protagonisti – come quando Nick deve fargli una confessione che potrebbe cambiare il modo in cui lo ha conosciuto o quando Amy rivela di non avere paura del sangue - non vorrà sottrarsi per niente.

L'autrice Gillian Flynn.
Questo estremo gioco di costruzione del sé individua – sempre nelle parole dei due protagonisti – l’inizio della storia e, senza dubbio, la sua fine. 
Così Amy:

Avete presente? Vi mostrate finalmente per quel che siete alla vostra anima gemella, al vostro compagno, e scoprite che non gli piacete. Così è cominciato l’odio. Ci ho pensato molto, e sì, credo che sia cominciato da lì.

La grande capacità di Gillian Flynn sta nel proporre la ricca e complessa architettura del suo romanzo al lettore divertendolo attraverso una prosa brillante e disinibita, un umorismo sardonico e la rottura della fondamentale regola del whodunnit (citato a mo’ di sberleffo come titolo di un blog cui Nick rilascia un’intervista da ubriaco).
La splendida agnizione nel bel mezzo del romanzo non solo ci fa saltare dalla sedia ma ci porta dritti in un territorio noir nuovo di zecca, dove le emanazioni del mindgame messo a punto nella prima metà del romanzo diventano una sfida per la sopravvivenza e la supremazia delle intenzioni (del tutto poietiche e creative) che abbiamo conosciuto fino a quel momento.
I «pensieri come scolopendre» che percorrono le pagine de L’amore bugiardo, mentre il caldo asfissiante dell’estate in Missouri ci obnubila e rallenta, si muovono ipnotiche verso la risoluzione degli eventi, percorrono gli indizi disseminati e stratificati e le decine di riferimenti, stilemi e registri che aumentano il valore del romanzo.
L’iperrealtà mediatica non solo permea, segue, persino indirizza le scelte dei personaggi e le svolte improvvise della vicenda, ma è parte integrante, nel modo più intimo e inconscio, dell’umanità di tutti i personaggi. Nick, il suo avvocato, i suoi suoceri - «la loro storia d’amore fa parte del marketing» ci racconterà la figlia - e soprattutto Amy, avvertono se stessi come un prodotto mediagenico, una proposta al pubblico in grado di modificare se stessa in caso di bisogno. 
Queste le parole di Nick:

In quest’epoca è molto difficile essere una persona, una persona reale e autentica anziché un fascio di tratti caratteriali selezionati da un generatore infinito di personaggi.

Amy è cresciuta con l’unico confronto della sua omonima controparte letteraria, la protagonista dei romanzi per ragazzi scritti dai suoi genitori:

I miei si sono sempre preoccupati che io potessi prendere le avventure della loro creatura di carta troppo sul personale. Non mi sfugge, tuttavia, che ogniqualvolta io mando in vacca qualcosa, Amy fa esattamente la stessa cosa alla perfezione […]

Questo l’ha portata a sviluppare un originale (leggeremo quanto pericoloso) modo di confrontarsi con gli altri, di sintonizzarsi sulle aspettative e i desideri altrui, impazzendo di rabbia se dopo l’estenuante e certosino lavoro di produzione identitaria la reazione non è quella sperata.

Dalla descrizione della provincia americana dopo la crisi del 2008 ai riferimenti alla cultura vittoriana, L’amore bugiardo si offre a più di una lettura se si ha voglia di superare il solo brivido del thrilling. Pensiamo alla presenza di Mark Twain e al gotico americano: Amy si ritrova a pochi passi da Hannibal, dove crebbe Twain, suo marito Nick possiede «l’accento ondulato e fluviale» della regione (non vi sembra quasi di risentire Tom, zia Polly, Becky e Sid?). Il Mississippi che permea tutta la visione - «c’è il fiume ovunque vada» dirà Amy messa alle strette - l’idea seminale dell’inscenare la propria sparizione per osservarne gli effetti da lontano. 
L’amore bugiardo è anche una delle migliori e più brillanti rielaborazioni contemporanee dell’eredità hitchcockiana. Fantasmata, indizi stratificati, identità sostituite, ritorni. Possiamo solo immaginare cosa avrebbe fatto il padre de La donna che visse due volte con un personaggio come Amy Elliott Dunne.

Sempre attratto da una forma di femminile liminale e postumana (Ellen Ripley, Lisbeth Salander, beh sì anche Madonna) è stato David Fincher a ridurre per il cinema il romanzo di Gillian Flynn (che ha steso la sceneggiatura), portando sullo schermo la ferina e letale Amy, interpretata magistralmente da Rosamund Pike.

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