martedì 14 ottobre 2014

L'uomo che non c'era dei fratelli Coen (2001)

I film dei fratelli Coen sono tutti accomunati dalla messa in scena di una via di fuga: dalla prigione (Arizona Junior), dalla propria condizione sociale (Mister Hula Hoop), dall’alienazione della vita suburbana, dal genere (per finire in un altro). Anche la meravigliosa pellicola L’uomo che non c’era rispetta questa scelta costruendo intorno a Ed Crane (interpretato da un iconico Billy Bob Thornton) - il silenzioso barbiere protagonista della vicenda - l’immaginario tipico dell’american way of life anni Cinquanta compreso di tutti i confort: frigorifero, giardino, tritarifiuti incorporato nel lavandino. Attraverso questo tipo di immaginario i Coen rappresentano il desiderio di escapismo tipico della nuova condizione sociale da boom economico post secondo conflitto mondiale. Ed rappresenta l’alienazione suburbana: il suo silenzio, il rifiuto di party, cocktail di lavoro (della moglie) e feste familiari in campagna sono sintomi della nausea che lo permea e che lo porterà a tentare la fuga provando a ferire la moglie fedifraga - un’immensa Frances McDormand - e il suo amante ciarliero Big Dave interpretato dal mai dimenticato James Gandolfini.
Una sceneggiatura atta a valorizzare ogni personaggio, la fotografia costruita sui bianchi più accecanti e sui toni di grigio più umbratili (ottenuta per desaturazione delle inquadrature girate a colori) e una regia citazionistica ricreano un certo immaginario noir (Hitchcock su tutti) genere qui programmaticamente manipolato dai Coen che vi inseriscono accenni alla teoria del complotto e degli UFO (un’altra forma di escapismo, in parte onirico, dall’alienazione suburbana che rischia di portare alla follia) riviste e magazine (come a voler citare i filosofi della Scuola di Francoforte) e la storia parallela fra Ed e “Birdy” la lolita interpretata da una giovanissima Scarlett Johansson. Materiale questo che finisce per ampliare incredibilmente il perimetro citazionistico della pellicola rendendola un vero feticcio per cinefili.

sabato 11 ottobre 2014

E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche di William S. Burroughs e Jack Kerouac (2008)



«Il romanzo che ha dato il via alla beat generation!», è al suono di questo strillo che i lettori hanno conosciuto E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, esperimento narrativo e uno dei primi confronti con la prosa avuti da Jack Kerouac e William S. Burroughs. In realtà, come tanta storiografia letteraria ha ampiamente sviscerato, il volume pubblicato in Italia da Adelphi possiede caratteristiche narrative “altre”, peculiarità che lo rendono opera a se stante, originaria rispetto ai percorsi intrapresi dai suoi autori e dalle figure che lo hanno ispirato.
Il romanzo, scritto a quattro mani, alternandosi nella stesura dei capitoli, da Kerouac e Burroughs, ha una lunga storia editoriale che per la materia contenuta l’ha visto protagonista di rifiuti da parte degli editori, di letture, ispirazione per altre opere di Kerouac e Burroughs e fiume carsico della narrativa beat (Il padre de I vagabondi del Dharma fece spesso riferimento agli Ippopotami nelle interviste rilasciate durante la sua carriera di autore). Solo il lavoro dell’editor, amico ed esecutore testamentario di Burroughs James Grauerholz ha portato nel 2008 - quando Lucien Carr, il protagonista di questa storia, era già scomparso – E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche nelle mani dei lettori.
Siamo alla vigilia del 14 agosto 1944, New York, afosa e pulsante, vortica intorno a una generazione di eroi in fuga da quell’«incubo ad aria condizionata» che stavano diventando gli Stati Uniti. Locali, diner, appartamenti, accolgono questa nutrita fauna in cui Kerouac e Burroughs trasfigurano se stessi e molti di quelli che saranno i protagonisti della scena beat. Kerouac da qui voce al giovane marinaio Mike Ryko «un finlandese diciannovenne dai capelli rossi», Burroughs all’umbratile barista originario del Nevada Will Dennison. 

sabato 4 ottobre 2014

Sotto il ghiacciaio di Halldór Laxness (1968)



Lo scrittore islandese Halldór Laxness nel 1955 ricevette il Nobel per la letteratura, la motivazione era questa: «la sua opera epica ha rinnovato l’arte e la letteratura islandese». È da questa motivazione che si può partire per affrontare Sotto il ghiacciaio, opera di Laxness surreale, dalle molte suggestioni, opalescente e “altra”. Il romanzo, pubblicato in Italia da Iperborea, ha la capacità di recuperare, non l’immaginario, ma le istanze e le sensazioni offerte dalle saghe islandesi tradizionali per traslarle in un contesto moderno, che vedremo essere privo di contorni, cangiante, a metà tra la visione onirica e le schegge di iperrealtà giustapposta. Così come in una saga Sotto il ghiacciaio è intriso di epicità, vi è impressa l’impronta di una disputa d’amore ed è abitato da personaggi fuori dall’ordinario ma allo stesso tempo si presenta come una delle narrazioni più moderne della letteratura occidentale: registri mutevoli, i cui contorni condensano e si disperdono in frammenti e bagliori inafferrabili.
  Susan Sontag, nella postfazione che arricchisce l’edizione Iperborea dimostra come Sotto il ghiacciaio possegga, allo stesso tempo, le caratteristiche della fantascienza, del romanzo erotico, della favola, del romanzo onirico, filosofico, della letteratura sapienziale e della parodia. È un’esperienza unica per il lettore ritrovare nella stessa narrazione tutte le suggestioni tipiche di ognuna di queste forme.
In Sotto il ghiacciaio un giovane «candido», studente di teologia, viene inviato dal vescovo d’Islanda da Reykiavík fin sotto il ghiacciaio Snaefell per verificare – senza nessuna ingerenza o parere personale – lo stato del cristianesimo nella zona. Strane voci arrivano dal nord, raccontano che il pastore ha sprangato la chiesa, non ritira lo stipendio da anni. Si vocifera che sia riluttante a tumulare i morti e a battezzare i bambini. Allo stesso tempo si parla di riti pagani compiuti sul ghiacciaio e di strane casse trasportate nella notte.