martedì 27 novembre 2012

Pulp Fiction di Quentin Tarantino (1994)


Quentin Tarantino ha segnato più di una volta le istanze del cinema futuro - si pensi a Kill Bill e Bastardi senza gloria - ma con Pulp Fiction (1994) è riuscito a influenzare in maniera mai vista prima non solo le forme della cinematografia ma anche quelle della letteratura mondiale (da noi ne ha tracciato gli effetti Elisabetta Mondello nel suo saggio La giovane narrativa degli anni Novanta: cannibali e dintorni), della serialità e della musica (si consiglia la lettura della lunga e illuminante riflessione sul rock nel cinema di Tarantino proposta nel numero di agosto 2010 di «Rolling Stone Magazine»).
Scritta a quattro mani insieme a Roger Avary, Pulp Fiction, muove da alcune situazioni topiche dell’immaginario criminale più classico per stravolgerne i contorni portando al limite personaggi, situazioni e azioni. Con cura minuziosa e dedizione per i dettagli Tarantino materializza, inquadratura per inquadratura, il suo personale paradigma cinematografico tutto da declinare, un universo citazionistico, caleidoscopico, dove si incontrano Godard, Fellini, George Lucas, i film d'exploitation, il poliziottesco, la letteratura di consumo e ancora Scorsese, Elia Kazan e senza dubbio l'amattissimo Segio Leone. Con Pulp Fiction Tarantino dopo l’eleganza narrativa de Le Iene ragiona ancora sulla forma ricorrendo a un racconto frammentato (ma non franto), episodico e intertestuale.
La maggior parte del budget per Pulp Fiction fu speso per il cast stellare: John Travolta (che con il ruolo di Vincent Vega ritrovò caratura), Samuel L. Jackson (iconico), Tim Roth, Bruce Willis, l’immenso Harvey Keitel, Christopher Walken e lei, da allora musa di Quentin Tarantino (tra l’altro causa della fine della relazione del regista con Sofia Coppola), l’unica a poter indossare quel caschetto nero: Uma Thurman. Il suo volto divenne il brand del film: Uma appare nella locandina su di un letto, con una sigaretta in mano, un pulp magazine e una pistola accanto a lei. Dopo Pulp Fiction, Uma stringerà con Quentin un sodalizio amicale e creativo assai duraturo, collaborando persino al soggetto di Kill Bill, dove interpreta un altro ruolo topico, entrato nell'affollato e impermanente immaginario della cultura pop: la Sposa.

domenica 25 novembre 2012

Dracula 3D di Dario Argento (2012)


Dopo l'uscita di Giallo ci eravamo davvero rassegnati a dire addio a Dario Argento. Restava l’affetto spropositato nei suoi confronti, nei confronti della sua Opera (che nel mio caso raggiunge la vera e propria venerazione) e della sua creatura in carne, ossa e tegumento: Asia Argento. Dopo le prime notizie sul progetto Dracula mi sono chiesto il perché Dario Argento abbia voluto confrontarsi con un immaginario oggi estremamente saturo e inflazionato come quello delle zannute creature della notte. Perché farlo con precedenti - attenendoci alla sola contemporaneità - dalle dimensioni artistiche di un Moloch come quello di Francis Ford Coppola? La catastrofe sembrava annunciata: la pellicola nonostante sia ben girata risulta telefonatissima, non ha alcun guizzo tensivo figuriamoci se orrorifico. Mi è bastato andare a vederlo per capire che, nonostante ciò, Dracula 3D è un vero capolavoro. Lo è perché è un’opera camp come non se ne vedevano da un pezzo. Se osservato dalla giusta prospettiva – che potremmo battezzare come il senso di Dario per il kitschDracula di Dario Argento è una visione imperdibile e spassosissima. C’è di più, la scelta del camp applicata a un genere ormai mainstream, normalizzato, persino conservatore, come quello dei vampiri (si pensi alla saga di Twilight dove questi poveri disgraziati da sempre simbolo di pansessualità e ludibrio praticano la castità, non desiderano altro che il matrimonio e mettono alla luce paffute creature da reclame) diventa una scelta programmatica. Il camp è, com'è sempre stato dai tempi in cui Sontag lo teorizzò, la via d’uscita, il salvacondotto per una visione moderna e libera.

sabato 24 novembre 2012

Totally Fucked Up di Gregg Araki (1993)


Ci sono, occasionalmente, registi che sono in grado di rappresentare la realtà sociale e culturale che li ha prodotti, diventando, al di là delle proprie prerogative e i propri stilemi, dei Grandi Narratori Epocali. Questo manipolo di filmaker imprigiona l’essenza di un’epoca, per nostre future visioni, condivisioni e immedesimazioni. Tra questi vi è certamente il losangelino Gregg Araki che con la sua TeenageApocalypse Trilogy ha messo in scena la sensibilità insicura, pop, malinconica e possibilista dell’intero decennio degli anni Novanta. La trilogia apre nel 1993 con Totally Fucked Up, in cui Araki muove il suo sguardo su una Los Angeles dai grandi formati, dove ogni non-luogo è al servizio della narrazione Avant-Pop costruita per i giovani protagonisti. Lavanderie, car wash, stazioni di servizio, negozi di dischi e ovviamente supermarket (paradigma centrale e infernale della rappresentazione narrativa e filmica degli anni Novanta), vengono attraversati, inglobano e divorano i personaggi che, serafici, sembrano ignorare le enormi cartellonistiche pubblicitarie (che fanno del film un vero happening pop art) e gli spazi vacui e vuoti, sporadicamente attraversati da assurdi individui ormai non più umani. Gregg Araki utilizza tutto questo splendido materiale pop, luccicante e di facile consumo per manipolarlo, esplorarlo e trasformarlo in citazioni e riferimenti continui che completano la narrazione.
Al centro dell’affresco Avant-Pop di Gregg Araki c’è una famiglia customizzata che sembra derivare dall’idea di Kitchen di Banana Yoshimoto (1988). Un gruppo di adolescenti omosessuali, tipizzati, che muovono, ognuno a suo modo sperimentando, lo sguardo, i sensi e i corpi tesi, in un ultimo sprazzo vitalistico e sensuale, giusto prima del declino annunciato. Ci sono le deliziose Patricia e Michele, l’unica coppia tradizionale del gruppo, materne, vitali e centrali per la famiglia customizzata; Andy lo slacker dark e ipersensibile che avverte già l’orrore che deflagrerà, fragilissimo nelle fattezze dell’amato James Duval (che Araki vorrà al centro delle successive pellicole della trilogia Doom Generation e Nowhere), Tommy (Roko Belic, qui sbarbatellissimo) che vive ancora con mammà, prototipo teen cui è destinato il compito di conservare ancora delle illusioni; Steven il fedifrago autore delle testimonianze e delle interviste che andranno a costituire lo scheletro autoreferenziale del film e infine Deric vittima di violenza perché omosessuale. Topica la narrazione dell’aggressione a Deric e le reazioni della famiglia customizzata, un modus operandi che segnerà la strada per il New Queer Cinema.  

domenica 18 novembre 2012

INLAND EMPIRE - L'impero della mente di David Lynch (2006)


Diciamolo subito, è impossibile, oltre che sterile, cercare di catalogare le suggestioni che INLAND EMPIRE, l’ultimo capolavoro realizzato da David Lynch nel 2006, ci riserva. Sono esse figlie di un automatismo onirico atto ad allargare la capacità cognitiva e interpretativa dell’oggetto cinematografico. Non a caso INLAND EMPIRE segue il raffinato Mulholland Drive, con cui condivide la cornice metacinematografica (dai contorni soffusi, sfumati, sempre in penombra), intesa come paradigma del raggiungimento di universi “altri”, tasselli, schegge, frammenti che inducono lo spettatore ad abbandonare ancora una volta i rassicuranti concetti di trama e intreccio per un viaggio “poli-emozionale”, il più delle volte impensabile in una sala cinematografica.
La pellicola si apre sull'immagine di una puntina di grammofono su un vinile, una voce (quella dello stesso Lynch) fa un annuncio in stile radiofonico introducendo i concetti di serialità e memoria, nonché di riproducibilità dell’opera massmediale. Non ci sorprende poi l’ouverture europea con i volti edulcorati che vede una prostituta senza memoria insieme a un uomo. La prostituta è una figura psicoantropologica (che, come ci insegna Benjamin, insieme al dandy e al flaneur rappresenta e descrive la modernità) fragile, esposta e sottomessa. «A woman in trouble» recita il sottotitolo originale, diventando interfaccia della rappresentazione del femminile, dilaniato da appetiti ferini, imprigionato, sottomesso nei lascivi ed eleganti frammenti polacchi piuttosto che nell'ambiente familiare suburbano e decisamente orrorifico (potrebbe essere altrimenti?). È inoltre chiaro sin da subito che INLAND EMPIRE si pone come perno dell’intera opera lynchiana: i concetti di colpa e segreto che nella rappresentazione della sitcom dada Rabbits sembra voler richiamare il dubbio massmediatico «chi ha ucciso Laura Palmer?»; la presenza di Laura Dern (Velluto Blu, Cuore Selvaggio), la cui immagine è qui riprodotta e incarnata in decine di personaggi che si avvicendano sul suo volto; il concetto di memoria franto e perduto nei meandri della parola (Hotel Room); la dualità speculare incentrata su una coppia di donne (stilema poetico assai amato da Lynch, ricordiamo Velluto Blu, Strade Perdute, Mulholland Drive): Laura Dern/Karolina Gruszka, Laura Dern/Julia Ormond; persino l’antesignano (nei confronti di questa pellicola) cortometraggio in digitale Darkened Room. È evidente qui il desiderio di Lynch di dialogare con la sua stessa opera, omaggiata persino nel finale réunion sui titoli di coda. «Bellooo» esclamerà la donna con la gamba amputata (un altro riferimento al leggendario corto The Amputee?) mentre il pantheon lynchiano si coagula sulle note di Sinner man di Nina Simone.

sabato 17 novembre 2012

Nota a margine sulla quinta e ultima stagione di Damages



Quello cui una serie come Damages deve pensare nella sua incarnazione finale (in questo caso dieci episodi prodotti da Audience Network) è completare il tratteggio dei suoi protagonisti e solo in maniera derivativa risolvere l’intreccio. Quest'ultimo amplificato sufficientemente dal caso di quest’anno dedicato all’hacking e all’informazione ai giorni di Wikileaks, con protagonista Ryan Phillippe nei panni del disturbato ed egocentrico hacker e guru Channing McClaren. Le ultime due stagioni del serial ci hanno proposto intrecci narrativi meno complessi (ma non meno avvincenti) puntando maggiormente sulla costruzione endemica del carattere di Ellen Parsons (Rose Byrne) per opera di Patty Hewes (Glenn Close). I silenzi, gli sguardi sull’orrore immateriale che Patty punta spesso di fronte a sé durante la quarta stagione si fanno, ora, sempre più presenti e ingombranti. Essi annunciano, nell’incertezza affatto simulata, il timore di Patty nei confronti della realizzazione del bildungsroman scritto per Ellen. 
Facciamo un passo indietro. Una parabola ascendente ha visto Patty astrarsi dalla «terra» - vituperata e vilipesa fino alla fine, nel confronto col padre e col figlio Michael - per maneggiare l’astrazione delle azioni, della parola e degli intenti. Un percorso che ha allontanato Patty dal contatto materiale e che le ha permesso di agire con questi strumenti sulla carne pur rimanendole lontana. Questo anche quando gli affetti (l’amico fragile Ray Fiske, il pari Tom Shayes e zio Pete) sono caduti, umiliati e offesi, ai suoi piedi. Non vi è mai odore di morgue intorno a Patty, eppure dovrebbe esserci, non v’è neppure contatto salvifico, eppure una bambina è l’unica cosa rimastale di una famiglia naufragata in tregenda. Patty muove allora l’ultimo passo della scalata alla realtà non-umana che ha scelto per sé. Lo fa in particolare nello sguardo e nella parola senza remissione che annichiliscono il padre sul letto di morte. Da lì, l’attitudine umana e carnale alla maternità diviene a sua volta un’idea, una prerogativa, possiamo dire un’istanza, che veste agli occhi di Patty i panni alteri dell’eredità. Ellen è quanto di più vi si sia avvicinato e Patty deve compiere un’ultima «mossa» nei confronti della sua protégé (che non riuscirà mai a percepire se stessa come antagonista) per allontanarla dalle facezie della sua umanità. Vi riuscirà. L’agnizione finale, come sempre sul molo, vede Patty impegnata a mostrare l’inutilità ontologica del terreno, della carne, del «sangue» che, serafica, segnala sulle mani di entrambe. L’appendice, con l’incontro (edulcorato) tra le due donne, serve solo a mettere in scena l’ultimo moto umano di Patty, il dubbio. Lo vediamo attraversare il suo volto prima dell’ultimo rifiuto, quello della propria casa, in favore del ritorno nell’empireo lavorativo. 

domenica 11 novembre 2012

Absurd encounter with fear di David Lynch (1967)


Abbiamo già parlato dei corti di David Lynch, raccolti da Raro Video in cofanetto insieme a Eraserhead e Dumbland, oggi invece recuperiamo uno dei primi lavori realizzati da Lynch (visibile integralmente alla fine del post), nel 1967 (fra Six Figures Getting Sick e The Alphabet), lo straniante Absurd encounter with fear girato in una sola scena, con due protagonisti interpretati dall’amico Jack Fisk e dalla prima moglie di Lynch Peggy Reavey. L’esperimento è un esempio tra i più completi di cinema surrealista, in cui gioca un ruolo chiave la colonna sonora, tensiva e assai drammatica. Siamo, en plein air, in un campo dove una figura grottesca e traballante, dalla pelle di colore blu, si avvicina con aria minacciosa a una fanciulla accucciata fra le erbacce. Nonostante sia giorno, si tratta di una vera e propria apparizione (come quelle ricercate dai surrealisti nelle sale cinematografiche o nei boulevard più bui) che sovrasta la fragile e innocente creatura. I temi della sessualità, delle imposizioni e dello sguardo innocente violato dalle brutture adulte deflagrano quando la creatura usa le sue mani blu per aprire la cerniera dei pantaloni da cui inizia a tir fuori dei fiori di campo. Lynch anticipa qui la sua riflessione sulle minacce all’ispirazione e alla creazione artistica che saranno poi ben rappresentante in The Grandmother.

 L’arte, qui probabilmente nelle impalpabili vesti dell’ispirazione, è sovrastata e violata dalla sessualità più grottesca e ordinaria, finché lo sguardo salvifico dell’occhio cinematografico non pone fine alla sofferenza e alla paura. Absurd encounter with fear (recuperabile nel prezioso The Lime Green Set insieme a Fictitious Anacin commercial) è un breve ma illuminante esperimento che dice già molto su quella che sarà la magnifica visione surrealista del cinema di David Lynch.

sabato 10 novembre 2012

Un raffinato libro sul cattivo gusto: Shock di John Waters (1981)


Signore e signori benvenuti a Baltimora, Maryland. Datevi un’occhiata in giro, la città vanta le acconciature più vertiginose, la gente più strana che potreste incontrare e un sano, elevato, numero di crimini! Prego, lor signori, venite a prendere l’unica guida che vale la pena di consultare della città, Shock del nostro amato John Waters. Oh, fate attenzione ai ratti lì vicino al bancone!  La signora Mac, la nostra «regina dei ratti» deve ancora passare per la disinfestazione annuale.
Sì, amici prendiamo la nostra copia di Shock (in traduzione italiana la si trova per Edizioni Lindau, con una deliziosa prefazione di Vito Zagarrio), a metà fra autobiografia, manuale how-to (su come coltivare, per esempio, la propria passione per i delitti più macabri e i relativi processi mediatici), guida nell'immaginario della città di Baltimora e ode ai propri miti (Russ Meyer e Herschell Gordon Lewis). Il regista incoronato «re del vomito» (la cui fenomenologia Waters ricollega direttamente a Bergman) e del cattivo gusto, dimostra qui le sue eccellenti doti di scrittore. Brillante, elegante e diretta, la scrittura di Waters ci introduce alla sua personale visione, cinematografica e sociale. Pare che sua madre dopo aver letto la bozza di Shock (titolo originale Shock Value. A Tasteful Book About Bad Taste) abbia esclamato «Sapevo che avevi dei problemi da ragazzo ma non avevo idea che fossero così gravi». Noi invece si va in brodo di giuggiole a leggere la genesi dei Dreamlanders, la terribile gang con cui Waters realizzò le sue prime, ormai leggendarie pellicole. Il rapporto con la faccia d’angelo Mary Vivian Pearce (per gli amici Bonnie), la terribile ed elegantissima Maelcum Soul, Mink Stole (a cui Waters riconosce, fra tutti, le doti migliori nella recitazione), lo straniante David Lochary la cui morte segnerà il percorso dei Dreamlanders, e lei «la donna più bella del mondo», Divine che Waters racconta senza filtri, dalle vessazioni cui era costretto da adolescente, ai lussuosi party organizzati a spese di sgomenti genitori, fino all'acclamazione dell’icona underground (poi mainstream) con il volto creato ad hoc da Van Smith. Waters racconta, sorridendo sotto i baffetti à la Douglas Fairbanks, di come la condizione borghese e suburbana della sua famiglia (come si fa a non amare genitori simili, tratteggiati in modo così eccellente da John Waters?) abbia generato in lui sin da piccolo l’impulso verso il ribaltamento totale, dapprima estetico, poi sociale. Waters, serafico, dichiara che tutti da giovani devono compiere qualcosa al di fuori della legge (badate bene, DA GIOVANI), azioni che rappresentano le tappe di un sano percorso di vita. Un percorso che è quello di Waters stesso e dei Dreamland, dai corti alle prime sconvolgenti pellicole (qui raccontate in preziosi e imperdibili behind the scenes), Mondo Trasho, Multiple Maniacs, senza dialoghi sincronizzati ma con meravigliose colonne sonore rock’n roll, Pink Flamingos, definito dallo stesso regista come un punto di non ritorno, Female Trouble, un vero manifesto estetico (l’immagine serigrafata di Divine con il taglio alla moicana finì dritta dritta sulle t-shirt dei punk londinesi) e Desperate Living in cui Waters coinvolse la strabordante Liz Renay.

lunedì 5 novembre 2012

Desperate Housewives: la terza stagione (2006/2007)


La terza stagione di Desperate Housewives segna il definitivo ingresso del personaggio, ormai cult, di Orson Hodge (quanto ci rese felici vedere ancora una volta Kyle McLachlan sul piccolo schermo!). Conclusa la vicenda degli Applewhite, dal prologo della stagione impariamo a seguire Orson, in casa della prima moglie, Alma, con la quale condivide l’amore per l’ordine e la pulizia maniacale (non vi ricorda nessuno?). Come sempre, qualcosa si nasconde dietro le staccionate della zona suburbana e presto macchie di sangue potrebbero sporcare i lindi tappeti e la mobilia in rovere di casa Hodge. Solo ritornando a Wisteria Lane però potremmo osservare il dipanarsi della vicenda. Chi è veramente Orson e perché tenta di nascondere la madre, dandola per incapace di intendere e volere?
Non preoccupatevi, dalla midseason in poi ritroveremo la scellerata genitrice, Gloria Hodge (Una sorta di Medea postmoderna con il volto spigoloso di Dixie Carter) in piena forma e pronta a riportare le cose allo status iniziale. Non importa se questo comporterà qualche problema (affatto smacchiabile) alla nostra amata Bree. Mentre Gabrielle sta per sposare un politico senza scrupoli e Susan pare aver dimenticato Mike, Lynette dovrà affrontare la presenza della ritrovata figliastra di quel beone di suo marito Tom. L’episodio Bang (3×07), complice una deliziosa cornice da pulp story, ricreerà il microcosmo familiare sconnesso degli Scavo, in unica unità di luogo, causa un maniaco con pistola che tiene d’assedio il locale supermarket. Alla fine dell’episodio molte cose cambieranno e Lynette presto dovrà imparare a temere la sua nuova piccola e disturbata figliastra Kayla, pronta a recuperare il rapporto con suo padre…

Nel finale di stagione, dopo aver risolto il giallo degli Hodge, troveremo le nostre casalinghe sommerse dalle menzogne, quelle del nuovo marito di Gabrielle, interessato solo ai voti dei latinoamericani, quelle di Bree intenta a mascherare un evidente segreto riguardante la figlia Danielle, quelle di Carlos a Edie, ancora innamorato della sua ex-moglie (che durante la stagione avrà anche una storia sui toni comedy e camp nientemeno che con un ricco e cresciuto Zach Young!) e quelle delle stessa Edie che ci lascerà, negli ultimi minuti della season finale, con un cappio alla gola e una sedia pronta a sbattere sul pavimento.