domenica 28 dicembre 2014

Beetlejuice di Tim Burton (1988)



Da dove è partito il giovane e malinconico Tim Burton? Qual è stata la coagulazione di immaginari che l’hanno portato a creare la sua visione – dolce, delicata e umoristica - del nero e dell’orrore che oggi, reiterata, inizia a mostrare i segni del tempo?
Bisogna ritornare alla fine degli anni Ottanta, quando, trentenne, affrontava la sua prima e compita opera (forte dell’esperienza avventurosa di Pee Wee e dei primi corti): Beetlejuice.  È qui che Burton libera tutte le sue energie creative nel modo più naturale, spassoso e sopra le righe possibile, esorcizzando la morte in modo del tutto americano: posticcio, plastico, godereccio, comico e cartoonista.
In Beetlejuice, al centro della vicenda troviamo una casa. Attenzione però, non una dimora qualunque ma la riedizione fine anni Ottanta di un’abitazione in stile Carpenter Gothic, un identificativo riferimento all’immaginario gotico americano che poi diventerà cardinale nella visione di Tim Burton. Grazie alla dimora dei defunti Maitland, Beetlejuice diventa un'irriverente e spassosa rilettura dell’Antologia di Spoon River, in cui gli spiriti sono una coppia d’ignari e giovani innamorati – con i quali Burton si diverte a citare l’American Gothic di Grant Wood – alle prese con le dinamiche burocratiche del regno dei morti. Dinamiche che scopriamo essere ben più fastidiose di quelle del mondo dei vivi.

sabato 20 dicembre 2014

White Bird in a Blizzard di Gregg Araki (2014)



«Qui siamo dalle parti dell’oggetto erotico di quarto tipo. Sguardo “omosex”, fisicità “etero”, svenevolezze “queer”, re-mixate al ritmo da coroner del “Dopobomba” degli Slowdive». Roberto Silvestri.

Con queste parole di Silvestri su Doom Generation il Contenebbia Andrea Bruni chiudeva uno dei suoi pezzi più belli: una prospettiva su Gregg Araki per il leggendario dossier di «Nocturno Magazine» Quei bravi ragazzi. Parole che mi sono tornate rapide alla mente dopo la visione di White Bird in a Blizzard. Qui Araki torna nella zona suburbana per celebrare alcune delle ossessioni che più hanno influenzato il suo cinema: il confronto con le regole e le suggestioni del mélo (già terreno di confronto per John Waters, David Lynch e Todd Haynes), la bellezza iconica di certo porno, la soap opera, il teen drama e, dichiaratamente, la performance di Sheryl Lee in Fuoco cammina con me.
Con White Bird in a Blizzard ci troviamo di fronte a un oggetto cinematografico liminale, i cui contorni sfumano in una tempesta di neve, con protagonisti che assumono l’aura e l’irresistibile bellezza dell’icona, personaggi i cui tratti sono la commistione, la ricombinazione, di diversi immaginari, compresi quelli creati da Araki stesso. Pensiamo al personaggio di Kat, il cui look è basato su quello adottato da Winona Ryder alla fine degli anni Ottanta, Gabourey Sidibe che cita la Rose McGowan di Doom Generation (inizio sequenza del party goth) e Mark Indelicato che ci riporta a Totally Fucked Up in un intercalare, la capacità di seppellire i segreti e capitare "per caso" nei giardini altrui di Peyton Place, il look à la Ray Harley di Christopher Meloni, l’impostazione lynchiana in cui la superficie mainstream è data a sapide e posticce pennellate (realizzazione di un finale compreso).

lunedì 15 dicembre 2014

Intanto: Horns di Alexandre Aja su ArtsLife

Oggi insieme a Lorenzo Peroni su ArtsLife per parlare dell'incontro fra il rivoluzionario dello slasher Alexandre Aja e il neo sexy weird Daniel Jacob Radcliffe. Batticuori assicurati.

[ Cliccare sul faccino di Daniel Radcliffe in visita medica per raggiungere il post]

http://onlyrecensionitoplaywith.blogspot.it/2014/11/alta-tensione-di-alexandre-aja-2003.html

domenica 14 dicembre 2014

Alice in Wonderland di Lewis Carroll

Presente per tutto il Novecento in una miriade di testi, rivisitazioni, saggi e riduzioni cinematografiche Alice ha da sempre rappresentato una delle schegge di cultura letteraria preferite dagli artisti Avant-Pop. I due romanzi che hanno come protagonista Alice sono: Alice nel paese delle meraviglie (1865, edizione consigliata: Feltrinelli con traduzione di Aldo Busi e testo originale a fronte) e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (1871). Con essi Lewis Carroll da vita a un personaggio inedito e rivoluzionario diventato nei decenni simbolo surrealista, femminista, postomodernista, feticcio della sociologia quanto della scienza (sfiziosissimo il volume Alice in Quantum Land di Robert Gilmore). Alice rompe il canone vittoriano che voleva una rappresentazione dell’infanzia come malaticcia, sottomessa a qualunque angheria, catalizzatore dell’accanimento mortuario attraverso pagine e pagine di sadiche e patetiche descrizioni di corpicini battuti e martoriati sotto ogni punto di vista. La piccola e petulante Alice, seppur goffamente, non risparmia alcuna risposta agli attacchi verbali dei suoi interlocutori, è curiosa, naturale nei suoi sfoghi di pianto, non si sottomette né agli sberleffi linguistici del Bruco né al cospetto della Regina Rossa e della sua corte di matti. Alice a dispetto della tradizione non è un esempio didascalico intriso di morale è bensì vitale, irriverente e coraggiosa. Si può ben affermare che tutte le bambine della letteratura venute dopo discendono da lei, pensiamo ad esempio alla Dorothy de Il Mago di Oz di Frank Baum o a Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren.
Il gioco linguistico, il motto, la filastrocca sono un’altra caratteristica esemplare della scrittura di Lewis Carroll/Charles Lutwige Dodgoson (questo il suo vero nome) che come sappiamo si divideva continuamente tra due identità: lo scrittore e fotografo dagli oscuri appetiti e il matematico e uomo di chiesa dedito alla scrittura di saggi e manuali scientifici. Il Nostro teneva a mantenere le due identità separate (si dice che fosse solito rimandare indignato al mittente le lettere indirizzate a Lewis Carroll, Christ Church College, Oxford) ma, come inevitabile, parte degli schemi mentali del lavoro scientifico di Dodgson hanno permeato la scrittura di Carroll, manifestandosi nel delirante e deliziosamente surreale gioco linguistico cui è sottoposta Alice nei suoi incontri sottoterra. Pensiamo alle elucubrazioni identitarie e metaforiche del Bruco, alle filastrocche di Pinco Panco e Panco Pinco, al té coi matti e infine al processo finale alla corte della Regina Rossa. Una più matura e sorprendentemente smart Alice saprà confrontarsi meglio con tale meccanismo nel secondo volume di Carroll Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò dove la storia appare più simettrica (come in una scacchiera, of course) e possiede una maggiore attitudine matematica.

In definitiva due testi cardine e archetipo di tanta cultura pop, straordinario esempio della potenza immaginifica e creativa della letteratura.

sabato 6 dicembre 2014

Smiley Face di Gregg Araki (2007)



Dopo aver raggiunto il grande pubblico con quell’oggetto delicato, umbratile e opalescente che è Mysterious Skin, Gregg Araki lascia la zona suburbana e gli orrori che i suoi steccati bianchi celano alla vista per tornare nell’affollata e bidimensionale Los Angeles e concedersi un giro sulla ruota panoramica con Smiley Face. Il giro parte e ci coglie di sorpresa mentre la voce del doppiatore Roscoe Lee Browne risuona per l’ultima volta nell’àere di una mattina assolata, per noi nullafacenti e biondi come la protagonista Jane F. (Anna Faris, la cui mimica è un puro distillato di empatia) è persino accecante. Inizia così il vorticoso tour, il percorso al cardiopalma, che ci porterà a una lucida, spassosa, iconica, e neanche a dirlo, disatrosa rappresentazione della generazione che vive sul ciglio della crisi economica del 2008.
Sul divano di un appartamento condiviso con un nerd agghiacciante (Danny Masterson che nelle visioni allucinate di Jane F. si scopa un teschio), mentre aspetta l’assegno dei genitori e il sussidio di disoccupazione la nostra eroina, in preda alla fame chimica si pappa tutti i cupcake che Steve aveva preparato con la marijuana per una convention di fantascienza. La sua sarà la fine di un’Alice in un paese delle meraviglie fatto di danni e allucinazioni. Le avventure e le visioni di Jane F. durante il suo peregrinare permettono ad Araki di riversare in Smiley Face una cornucopia di stili e registri, giustapposti, commissionati fra loro, schegge che dal tornando Avant-Pop brillano fra le nuvole posticce che Jane F. disegna col dito: La fabbrica delle mogli di Ira Levin, Second Life, il teen drama (Adam Brody sotto una cascata di dreadlock posticci e JohnKrasinski con gli occhiali che furono di Brady Corbet in Mysterious Skin che si masturba sotto la doccia come James Duval in Nowhere), la Reaganomics applicata al mercato degli stupefacenti e il marxismo ai tempi del «No Logo», la fiaba, Carrot Top e ancora le pettegole di Mondo Trasho sui bus di Los Angeles, un casting gestito da Jane Lynch, una copia del Manifesto del partito comunista fra le mani di Marion Ross e Danny Trejo tranquillo dipendente di un’azienda di carni macinate… su tutto questo si dilata l’impossibilità di elaborare, definire e comunicare di Jane F.

Se vi state chiedendo cosa fare dopo aver consegnato al mondo il vostro capolavoro, potreste provare con la scelta di Gregg Araki, un giro sulla ruota panoramica in compagnia di un sacchetto di erba buona e una penna per scribacchiare i vostri piani futuri sulle pagine del Manifesto di Marx e Engels. 


sabato 29 novembre 2014

Cronenberg nella Hollywood Babilonia: Map to the stars (2014)


«Abbiamo tutti la forza di sopportare le disgrazie altrui» François de La Rochefoucauld.

È arrivato anche per David Cronenberg il momento di affrontare il proprio viaggio nella «Hollywood Babilonia», la cui mappa sozza di sangue brillante Kenneth Anger ha tracciato nei suoi due monumentali volumi, usciti rispettivamente nel 1959 e 1984. Una mappa che molti hanno percorso, dal David Lynch di Mulholland Drive allo Steve Erickson di Zeroville (presto sugli schermi grazie all’impegno del nostro Jimbo) e che Cronenberg affronta con gli strumenti che lui stesso ha forgiato (come Beverly con gli utensili ginecologici per donne mutanti in Inseparabili). L’approccio junghiano, la mutazione, l’onirismo, la malattia, la rappresentazione dei complessi familiari: «strumenti» che si commissionano tra di loro, dando origine a nuovi e sempre più reali modi di rappresentare la mostruosità di cui è capace l’umano.
Dopo anni di girato in Canada Cronenberg, proprio con Map to the stars, approda in suolo statunitense e affronta la Grande Babilonia di cartapesta. La sua camera si semina fra i bassi edifici e le larghe strade del distretto hollywoodiano, dal Sunset Boulevard alle colline di Beverly Hills, per seguire i suoi protagonisti: creature ferine, fragili e perseguitate. L’occhio di Cronenberg segue la scrittura intrisa di humour nero di Bruce Wagner (che nell’attesa di completare il film ha dato alle stampe un romanzo Dead Stars, che supera i confini del girato) e ci offre questa gelida e disturbante visione di una «fantasmata cosciente» e collettiva. L’attrice Havana Segrand (una livida e meravigliosa Julianne Moore), avviluppata nel complesso di Elettra nei confronti della propria «mammina cara», la «piccola canaglia» Benjie Weiss (Evan Bird), i suoi genitori uniti da un atavico tabù e (ovviamente) dal denaro Christina (una spigolosa Olivia Williams) e Stafford (John Cusack, spaventevole e bravissimo come sempre), la folle di catena Agatha (nel nostro cuore ora e sempre Mia Wasikowska) e l’aspirante attore e autista di limousine (c’è bisogno di dirlo? Robert Pattinson, già protagonista di Cosmopolis), tutti sono ossessionati dal proprio «teatro privato» in cui si agitano complessi, paure, innominabili colpe, splendide e perturbanti visioni della propria coscienza, ironiche rappresentazioni del sé.

domenica 23 novembre 2014

Alta tensione di Alexandre Aja (2003)



Quante parole si sono spese sullo splatter! Su quella che per tutti gli anni Novanta è stata «l’estetica dello schizzo di sangue». Una tendenza che inizialmente portò alla riscoperta di tutta una costellazione di pellicole sepolte nei meandri della «seconda scelta» finendo, poi, per ripiegarsi su se stessa, creando fenomeni sempre più imbarazzanti e desolanti. Oggi, horror, splatter, exploitation e fantascienza rivivono grazie a nuova linfa che giovani autori (spesso sotto l’egida dei vecchi numi tutelari) sanno instillare con dedizione e capacità. Un fortunato esempio di questa tendenza è costituito dal trentacinquenne Alexandre Aja che dieci anni fa portava sullo schermo il suo Alta tensione, più che un omaggio al genere slasher, una sua nuova e felice incarnazione, in grado di ottenere successo di pubblico e critica, arrivando a colpire anche Wes Craven (che chiamerà il giovane regista francese per dirigere il remake de Le colline hanno gli occhi).
L’operazione di Alexandre Aja è raffinata e complessa tanto quanto il risultato sullo schermo è immediato e scorrevole. Aja innesta su una parte del plot di Intensity, romanzo di Dean Koontz, le prerogative di uno slasher: oltre all’immancabile bodycount, e a un orribile e mefistofelico assassino che, lento e inesorabile, assottiglia il numero dei personaggi, il sesso (che nello slasher anni Settanta era il «peccato originale», lo spauracchio sempre più psichico che innescava la violenza) e un’agnizione finale che lo rende indimenticabile. 

sabato 15 novembre 2014

La seduzione del male di Nicholas Hytner (1996)

Che cosa sarebbe stato se il ruolo della demoniaca Abigail fosse andato a Kate Winslet e quello della misera Mary Warren fosse stato assegnato a Sarah Michelle Gellar (entrambe in lizza per queste parti) rimane un viaggio nella speculazione del what if che tanto ci piace. È certo che senza la presenza di Winona Ryder la riduzione cinematografica della pièce teatrale Il Crogiuolo di Arthur Miller, realizzata da Nicholas Hytner e uscita in Italia con il titolo La seduzione del male non avrebbe riservato la stessa asfittica, claustrofobica e folle sensazione di impotenza.
Arthur Miller scrisse Il crogiuolo per rappresentare il clima di terrore, follia illogica e caccia alle streghe del maccartismo, ricostruendo i processi alle streghe di Salem nel 1692. Il crogiuolo, rappresentato nel 1953, all'apice del maccartismo, fu ripreso da Nicholas Hytner, con raro rispetto filologico, nel 1996. Il risultato è un’agghiacciante rappresentazione di come il pregiudizio, la superstizione e la cattiveria umana possano portare al consumarsi di un rosario di tragedie sempre più dolorose. L’assenza di umorismo (imposto dal pensiero dominante nella Salem del 1692) e l’atmosfera claustrofobica fanno de La seduzione del male un’esperienza cinematografica unica, alla sua uscita purtroppo non compresa dal pubblico che disertò in massa le sale.

domenica 2 novembre 2014

Giovani ribelli - Kill Your Darlings di John Krokidas (2013)


È una storia che abbiamo letto più di una volta. Una storia che in tutte le sue incarnazioni, siano esse letterarie, saggistiche o documentarie, conserva il suo fascino oscuro e tagliente. In primis per la natura del suo protagonista: quel Lucien Carr, la cui vicenda farà da motore alle energie coagulate a New York, poi esplose in modi e luoghi diversi come beat generation.
A quella storia – che abbiamo amato leggere nel progetto narrativo a quattro mani di Jack Kerouac e William S. Burroughs E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche – è tornato il giovane e talentuoso regista John Krokidas, newyorkese di origini greche, che dopo aver completato gli studi a Yale e alla New York University (dove ha seguito il leggendario University's Graduate Film Program) ha girato due cortometraggi – Shame no more e Slo-Mo - pluripremiati in tutto il mondo. Krokidas co-scrive e dirige Giovani ribelli - Kill your darlings realizzando uno dei ritratti più moderni e felici dei principali autori della beat generation nel momento in cui si raccolgono per la prima volta a New York, intorno alla Columbia University.

sabato 1 novembre 2014

Le streghe di Salem di Rob Zombie (2012)


Una Salem rarefatta, stupenda nelle riprese grigie e silenti di Rob Zombie, si dipana intorno alla dee-jay locale Heidi Hawthorne, appena venuta fuori da una brutta storia di dipendenza da droghe. È questo il set scelto dal rocker e cineasta che ci ha dato visioni gore come La casa dei 1000 corpi e prove di grande narrativa cinematografica, vedi La casa del diavolo, per la sua ultima fatica Le streghe di Salem (in originale The Lords of Salem). Intorno ad Heidi– fragile, spossata e bellissima nell’interpretazione di Sheri Moon Zombie – e su tutta Salem sono stati sparsi i semi di un orrore indicibile, occultato e carsico ma pronto a deflagrare come nella migliore tradizione lovecraftiana. Assistiamo a visioni sempre più asfittiche e terribili per Heidi, terrorizzata di stare tornando ai giorni in cui perdeva il contatto con la realtà grazie alla droga.
In Le streghe di Salem accade qualcosa che solo i lettori di Stephen King possono riconoscere: il piacere di godersi le parti riguardanti la vita quotidiana dei protagonisti, le parti non-horror, che per come costruite diventano la cosa migliore della storia. Pensiamo a tutta la sequenza iniziale che introduce Heidi: il suo appartamento arredato sui toni del bianco, del rosso e del nero, il pannello sul letto illustrato con un fotogramma del Viaggio nella luna di Georges Méliès, Heidi che fragile e stanca si tira giù dal letto per fare colazione e portare a spasso il cane per le strade desaturate di Salem. Una sensazione di delicato spleen la avvolge nei suoi movimenti per la città, la vediamo incedere lentamente, avvolta nel suo montgomery psichedelico, aggrottare le sopracciglia o addormentarsi sulle note di All Tomorrow parties dei Velvet Underground & Nico. Che meraviglia la ricostruzione della vita nella stazione radio dove Heidi lavora (con le sapide incursioni trash-pop tanto care a Rob Zombie) nel trio Big H insieme al di lei innamorato Whitey (Jeff Daniel Phillips, attore-feticcio di Rob Zombie) e Herman (Ken Foree, il mai dimenticato Peter in Zombi di Romero).

martedì 14 ottobre 2014

L'uomo che non c'era dei fratelli Coen (2001)

I film dei fratelli Coen sono tutti accomunati dalla messa in scena di una via di fuga: dalla prigione (Arizona Junior), dalla propria condizione sociale (Mister Hula Hoop), dall’alienazione della vita suburbana, dal genere (per finire in un altro). Anche la meravigliosa pellicola L’uomo che non c’era rispetta questa scelta costruendo intorno a Ed Crane (interpretato da un iconico Billy Bob Thornton) - il silenzioso barbiere protagonista della vicenda - l’immaginario tipico dell’american way of life anni Cinquanta compreso di tutti i confort: frigorifero, giardino, tritarifiuti incorporato nel lavandino. Attraverso questo tipo di immaginario i Coen rappresentano il desiderio di escapismo tipico della nuova condizione sociale da boom economico post secondo conflitto mondiale. Ed rappresenta l’alienazione suburbana: il suo silenzio, il rifiuto di party, cocktail di lavoro (della moglie) e feste familiari in campagna sono sintomi della nausea che lo permea e che lo porterà a tentare la fuga provando a ferire la moglie fedifraga - un’immensa Frances McDormand - e il suo amante ciarliero Big Dave interpretato dal mai dimenticato James Gandolfini.
Una sceneggiatura atta a valorizzare ogni personaggio, la fotografia costruita sui bianchi più accecanti e sui toni di grigio più umbratili (ottenuta per desaturazione delle inquadrature girate a colori) e una regia citazionistica ricreano un certo immaginario noir (Hitchcock su tutti) genere qui programmaticamente manipolato dai Coen che vi inseriscono accenni alla teoria del complotto e degli UFO (un’altra forma di escapismo, in parte onirico, dall’alienazione suburbana che rischia di portare alla follia) riviste e magazine (come a voler citare i filosofi della Scuola di Francoforte) e la storia parallela fra Ed e “Birdy” la lolita interpretata da una giovanissima Scarlett Johansson. Materiale questo che finisce per ampliare incredibilmente il perimetro citazionistico della pellicola rendendola un vero feticcio per cinefili.

sabato 11 ottobre 2014

E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche di William S. Burroughs e Jack Kerouac (2008)



«Il romanzo che ha dato il via alla beat generation!», è al suono di questo strillo che i lettori hanno conosciuto E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, esperimento narrativo e uno dei primi confronti con la prosa avuti da Jack Kerouac e William S. Burroughs. In realtà, come tanta storiografia letteraria ha ampiamente sviscerato, il volume pubblicato in Italia da Adelphi possiede caratteristiche narrative “altre”, peculiarità che lo rendono opera a se stante, originaria rispetto ai percorsi intrapresi dai suoi autori e dalle figure che lo hanno ispirato.
Il romanzo, scritto a quattro mani, alternandosi nella stesura dei capitoli, da Kerouac e Burroughs, ha una lunga storia editoriale che per la materia contenuta l’ha visto protagonista di rifiuti da parte degli editori, di letture, ispirazione per altre opere di Kerouac e Burroughs e fiume carsico della narrativa beat (Il padre de I vagabondi del Dharma fece spesso riferimento agli Ippopotami nelle interviste rilasciate durante la sua carriera di autore). Solo il lavoro dell’editor, amico ed esecutore testamentario di Burroughs James Grauerholz ha portato nel 2008 - quando Lucien Carr, il protagonista di questa storia, era già scomparso – E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche nelle mani dei lettori.
Siamo alla vigilia del 14 agosto 1944, New York, afosa e pulsante, vortica intorno a una generazione di eroi in fuga da quell’«incubo ad aria condizionata» che stavano diventando gli Stati Uniti. Locali, diner, appartamenti, accolgono questa nutrita fauna in cui Kerouac e Burroughs trasfigurano se stessi e molti di quelli che saranno i protagonisti della scena beat. Kerouac da qui voce al giovane marinaio Mike Ryko «un finlandese diciannovenne dai capelli rossi», Burroughs all’umbratile barista originario del Nevada Will Dennison. 

sabato 4 ottobre 2014

Sotto il ghiacciaio di Halldór Laxness (1968)



Lo scrittore islandese Halldór Laxness nel 1955 ricevette il Nobel per la letteratura, la motivazione era questa: «la sua opera epica ha rinnovato l’arte e la letteratura islandese». È da questa motivazione che si può partire per affrontare Sotto il ghiacciaio, opera di Laxness surreale, dalle molte suggestioni, opalescente e “altra”. Il romanzo, pubblicato in Italia da Iperborea, ha la capacità di recuperare, non l’immaginario, ma le istanze e le sensazioni offerte dalle saghe islandesi tradizionali per traslarle in un contesto moderno, che vedremo essere privo di contorni, cangiante, a metà tra la visione onirica e le schegge di iperrealtà giustapposta. Così come in una saga Sotto il ghiacciaio è intriso di epicità, vi è impressa l’impronta di una disputa d’amore ed è abitato da personaggi fuori dall’ordinario ma allo stesso tempo si presenta come una delle narrazioni più moderne della letteratura occidentale: registri mutevoli, i cui contorni condensano e si disperdono in frammenti e bagliori inafferrabili.
  Susan Sontag, nella postfazione che arricchisce l’edizione Iperborea dimostra come Sotto il ghiacciaio possegga, allo stesso tempo, le caratteristiche della fantascienza, del romanzo erotico, della favola, del romanzo onirico, filosofico, della letteratura sapienziale e della parodia. È un’esperienza unica per il lettore ritrovare nella stessa narrazione tutte le suggestioni tipiche di ognuna di queste forme.
In Sotto il ghiacciaio un giovane «candido», studente di teologia, viene inviato dal vescovo d’Islanda da Reykiavík fin sotto il ghiacciaio Snaefell per verificare – senza nessuna ingerenza o parere personale – lo stato del cristianesimo nella zona. Strane voci arrivano dal nord, raccontano che il pastore ha sprangato la chiesa, non ritira lo stipendio da anni. Si vocifera che sia riluttante a tumulare i morti e a battezzare i bambini. Allo stesso tempo si parla di riti pagani compiuti sul ghiacciaio e di strane casse trasportate nella notte.

domenica 28 settembre 2014

Lucy di Luc Besson (2014)



Un pretesto. A Luc Besson è servito solo un pretesto per poter liberare tutte le sue energie creative, le idee più folli e sincopate in quello che si propone come un action thriller ma che dall’interno ne muta, amplia e modifica i connotati. Lucy progetto ideato, scritto e girato dal padre di Nikita e Leon, proprio per la sua natura disinvolta si rivela una visione divertente, spassosa e stupefacente per lo spettatore: il montaggio alternato, il tono sopra le righe della recitazione di comprimari e comparse (boss della mafia taiwanese tratteggiati come i cattivi dei fumetti, svenimenti ad hoc, sguardi enigmatici, divertiti, sgomenti), l’eccezionale capacità della protagonista Scarlett Johansson (già Vedova Nera nel Marvel Cinematic Universe e aliena in Under the skin) di trasformarsi da svampita studentessa in pelliccia ecologica a creatura sovraumana alla ricerca dei suoi limiti (la possibilità di utilizzare il 100% delle possibilità del cervello umano, o del pretesto di cui sopra), un’entità wireless in grado di maneggiare le onde magnetiche, dallo sguardo-scanner, in grado di controllare gli altri esseri viventi e la materia.
In parallelo a Parigi il professor Norman (interpretato da Morgan Freeman), che da sempre si è occupato della teoria secondo cui l’essere umano usa il cervello solo per il 10% , sta tenendo una conferenza in cui spiega le diverse capacità che l’uomo potrebbe acquisire se iniziasse a utilizzarne quote sempre più alte. Nonostante il professore sia in cattedra, in un’aula magna gremita e partecipe, Besson non manca di amplificarne il discorso montandolo con splendide immagini che fanno da vere e proprie metafore amplificative. 

sabato 27 settembre 2014

POMPEI di Toni Alfano (2014)

Un viaggio etereo, surreale, assai doloroso perché diretto e sincero, quello costruito da Toni Alfano nella sua prima graphic novel dal titolo metaforico Pompei. Già autore di tutte le copertine di Neo. Edizioni, Alfano libera dalla campagna senese, dove vive e lavora, un rosario di immagini che amplificano una narrazione allo stesso tempo intima ed ecumenica, un racconto in cui ritrovarci tutti e che rivela la sua natura nella metafora scelta da Alfano per il titolo, quella Pompei «disintegrata dalla forza della natura, dissolta nella materia e consegnata al mito senza tempo. Così come le nostre vite, le nostre relazioni, i nostri ruoli sono solo frutto di identificazioni, illusioni, destinate a essere riassorbite nella forza che le ha generate: un sogno».
Il tratto di Toni Alfano, in Pompei, ha cinque diverse materializzazioni per rappresentare cinque diversi passaggi del percorso-racconto allestito. Lo fa attraverso l’uso del colore rosso, piuttosto che del chiaroscuro, dell’illustrazione rimaneggiata e consegnata al lettore come manifestazione simbolica di grande potenza visiva. 

Nel primo capitolo «Io non esisto» Alfano commistiona l’illustrazione orientale con la propagandistica occidentale e il cartoon su un sostrato costituito dall’immaginario europeo. Il primo passo è lapidare e distruggere l’illusione della everyday life che ci ottunde i sensi allontanandoci dai nostri reali desideri e aspettative. Nel secondo capitolo «Transumanar Riorganizzar» Toni Alfano usa il tratto naïf che diventa primo legame con la memoria, col ricordo, col tratto schizzato su una pagina di taccuino di cui non siamo più in grado di ricordare la provenienza. Nel terzo capitolo «Onironautica», i contrasti si fanno più netti e il tratto più semplice, le immagini e le manifestazioni più oscure. Stiamo abbandonando le sovrastrutture e le catene del reale, possiamo volare, correre verso i fantasmi del passato e farci tremare le ginocchia, rivedere il volto della madre e perderci in un amplesso surreale con l’ultima delle manifestazioni, alla fine del tunnel più oscuro. Nel quarto capitolo «Zeppelin» ritorniamo al contesto iniziale, torna il colore rosso che qui evidenzia figure cinesi, le illustrazioni che si contorcono sulla pagina rivolgendosi direttamente al lettore fino all’incontro finale tra la parte manifesta e la parte non manifesta del sé, nell’ultimo capitolo «Molok. La sorgente».

Con Pompei, opera rivelatrice ed evocativa il fumetto si dimostra una volta di più all’altezza della rappresentazione del contemporaneo.

domenica 27 luglio 2014

Femina ridens di Piero Schivazappa (1969)



C’è stato un cinema italiano in cui ricchezza formale, ricerca e godibilità sapevano coniugarsi perfettamente, incarnandosi, di volta in volta, in pellicole originali, la cui ambizione raggiungeva ogni obiettivo prefissato. Tra questi oggetti cinematografici merita più di una menzione Femina ridens, esordio alla regia di Pietro Schivazappa nel 1969. La pellicola è deliziosamente influenzata dalle «filosofie della crisi» di primo Novecento, in particolar modo dall’esistenzialismo di Sartre e dall’inettitudine alla modernità mutuata dall’opera di Italo Svevo. I due protagonisti, interpretati da Philippe Leroy e Dagmar Lassander, sono attori – nell’accezione sociologica del termine – di un esperimento situazionista, un «gioco inscenato», in cui la rappresentazione del masochismo e della prevaricazione dell’uomo sulla donna avviene a metà tra l’avanguardia artistica, il cronachismo più sanguinoso e l’analisi accademica.
Con una struttura circolare, Femina Ridens imprigiona entrambi i suoi protagonisti in uno spazio temporale libero dal lavoro – che impegna ugualmente uomo e donna e che li mette in gioco (di potere, of course) per opinioni e mansioni – in cui la natura umana, nevrotica, inetta, sostanzialmente in crisi, è liberata improvvisamente, in seguito a un istinto ferino che supera l’ordinarietà del seriale alla ricerca dell’imprevisto e del naturale, in una modernità totalmente artificiale. Ecco che l’imprenditore e filantropo Sayer (Leroy) prova a seguire le orme del divin Marchese, dimenticando di essere uomo del Novecento e quindi irrimediabilmente «in crisi», inetto, incapace di abbandonare la sterile e autoreferenziale rappresentazione di se stesso per affrontare le insidie della natura, fino allora scientemente negata. Tutto il rosario di torture e sevizie S&M cui Sayer sottopone Mary (Lassander) non sono che l’affermazione della propria sconfitta, sia fisica sia intellettuale, nei confronti della donna. Donna che si vuole soverchiata, sottomessa e umiliata ma che già nella condizione di vittima dimostra la superiorità tanto avversata da Sayer.

Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (1925)



Francis Scott Fitzgerald ha saputo come pochi incarnare lo spirito del tempo, quello degli anni Venti, i ruggenti, gli anni della crescita finanziaria esponenziale, della facilità, della giovinezza disincantata, della stravaganza e dell’esibizionismo. Gli anni in cui l’aristocrazia di classe veniva affogata da una pioggia di diamanti «grossi come il Ritz», dal denaro facile che rende eroi una generazione di giovani incerti e volubili. Sappiamo anche che non è solo per questo che Fitzgerald e il romanzo in questione, Il Grande Gatsby, hanno attraversato i decenni per raccontare una storia in grado di conquistare sempre nuove schiere di lettori. Quello che amiamo è la sensazione di tragedia imminente restituita da ogni pagina. Touch of disaster che attraversa le finestre aperte sul salone di Daisy, esala da entrambe le rive su cui si fronteggiano le abitazioni dei protagonisti, brilla nel faro verde, soffia dalla torre dell’imponente abitazione di Jay Gatsby, attraversa le strade in fermento di New York e soffoca chi ha avuto l’ardire di avventurarsi nella calda estate cittadina.
Fitzgerald ha la capacità di raccontare in maniera asciutta e moderna dell’ossessione, dell’idolatria sempreverde con cui la mente di un amante fissa per sempre l’oggetto del suo amore, allontanandolo dalla realtà. Non possiamo non innamorarci di Jay Gatsby, creatura fittizia, plasmata dalla volontà di un ragazzo, che materializza sulla pagina lo spirito degli Stati Uniti all’indomani della prima guerra mondiale: l’abbandono della provincia alla ricerca del benessere più scintillante, il trauma non elaborato della guerra – Jay sa del matrimonio di Daisy durante il conflitto, in Europa, e qui si aggrappa alla convinzione di riconquistarla – proprio l’Europa come provvisorio rifugio in cui elaborare il proprio sé (erano quelli gli anni della Parigi di Gertrude Stein ed Ernest Hemingway), il ritorno negli Stati Uniti e il confronto con la selvaggia crescita finanziaria e soprattutto con l’indifferenza sociale (che diverrà minimalismo morale nel secondo dopoguerra). Indifferenza, qui incarnata dalla coppia Daisy Fay e Tom Buchanan. Pur legando il proprio stile alla tradizione letteraria anglofona: il punto di vista privilegiato e «coscienza esterna» à la Henry James, Fitzgerald propone la sua tragedia attraverso un linguaggio asciutto, moderno, simbolico, ricco d’immagini meravigliose e indimenticabili. Ogni luogo del presente o del passato di Jay Gatsby è parte di un immaginario ben codificato e riconoscibile: dalle feste ruggenti con i volti rappresentanti lo zeitgeist: it-girl, vamp, magnati della finanza e dell’editoria, malaffaristi, attori, rampolli, tutti pronti a inscenare il grande spettacolo di Gatsby per attrarre l’attenzione fatua di Daisy, fino alle desolate lande della periferia, velocemente attraversate su di un bolide infernale e ignorate persino nell’omicidio (sono degli anni Venti le leggi più antisociali mai varate negli Stati Uniti: nessuna limitazione al lavoro minorile, divieto di picchettaggio e di sciopero, repressione generalizzata). 

domenica 20 luglio 2014

Incubo sulla città contaminata di Umberto Lenzi (1980)



Un aereo atterra nell’aeroporto cittadino senza alcuna autorizzazione, sulla pista accorrono le forze dell’ordine e il giornalista Dean Miller (Hugo Stiglitz) giunto lì per intervistare lo scienziato responsabile di un incidente nucleare. Nella cabina di pilotaggio sembra non esserci nessuno e solo dopo qualche minuto i portelloni si aprono per far scendere una masnada di individui sfigurati dalle radiazioni ma, sorpresa! Affatto macilenti ma abili e biechi nell’uso delle armi con le quali squarciano corpi, soprattutto gole, da cui bevono sangue a profusione. Inizia così Incubo sulla città contaminata, film pandemico di Umberto Lenzi del 1980, al centro della querelle che non sa se inserirlo nel genere zombie o meno (così come La città verrà distrutta all’alba di George A. Romero e 28 giorni dopo di Danny Boyle).
Nonostante la pochezza della messa in scena, i vaghi riferimenti sociali e il rosario granguignolesco e titillante di uccisioni e sfigurazioni, trovo deliziosa l’operazione fatta sui devastati dalle radiazioni: individui a metà fra lo zombie e il vampiro. Come non notare il riferimento alla nave fantasma che conduce il conte Dracula in Inghilterra nell’aereo deserto e atterrato senza preavviso? In più i devastati hanno bisogno continuo di sangue (che spesso e volentieri sorseggiano dalle gole delle vittime), poiché il loro tessuto poietico è stato compromesso dalle radiazioni.

sabato 19 luglio 2014

Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (1999)



Dimenticato il Razzie Award per l’interpretazione di Mary Corleone (da vedere e rivedere direbbe Lorelai Gilmore) Sofia Coppola ripone le velleità attoriali (non prima di un’incursione nel meraviglioso video dei Chemical Brothers Elektrobank) per dedicarsi alla regia cinematografica. Il suo primo lungometraggio - oggi assunto a cult assoluto e paradigma principe del cinema indipendente - è Il giardino delle vergini suicide.
Sofia muove dal romanzo di Jeffrey Eugenides Le vergini suicide, per iniziare a lavorare su temi e stilemi che connoteranno tutto il suo cinema: le energie giovanili, imprigionate in sovrastrutture sociali (qui la suburbia americana post-Vietnam) e per questo accresciute in creatività e irresistibile appeal, lo sguardo vampirizzante delle convenzioni, lo spleen venefico della vita quotidiana. A rendere però Il giardino delle vergini suicide una visione unica, inafferrabile e pressoché irripetibile è la naturalezza, la disinvoltura (per me il vero differenziale) e il candore spregiudicato con cui Sofia affronta la tragedia delle sorelle Lisbon. Elegante, scarno, simmetrico, lo sguardo della camera si posa sulle ectoplasmatiche sorelle imprigionate in una villetta unifamiliare senza alcuna sordida o voyeuristica attrazione. La fotografia sapida nelle scene in cui l’immaginazione dei ragazzi che tentano di raggiungere le sorelle Lisbon si libera sui ricordi racchiusi nel diario di Cecilia (tredici anni, «la prima a spargere il veleno nell’aria») diviene asciutta e piatta negli interni governati dallo sguardo della signora Lisbon, in una fenomenologia del piano di sopra, con i suoi segreti e tesori: i tampax nello stipetto del bagno, il prete che non riesce a sostenere la visione delle ragazze stese insieme sul pavimento della loro camera, i dialoghi telefonici attraverso brani musicali coi ragazzi.

sabato 12 luglio 2014

Grindhouse - A prova di morte di Quentin Tarantino (2007)



Oggi sappiamo che l’unico errore commesso è stato quello di assecondare l’entusiasmo incontenibile di Quentin Tarantino nel commercializzare il progetto così com’era nato: omaggio agli scomparsi cinema «grindhouse», in double feature. Far uscire in un’unica soluzione A prova di morte, girato da Quentin Tarantino stesso e Planet Terror di Robert Rodriguez, in una lunga proiezione di 190 minuti è stato non solo un fiasco al botteghino ma ha persino messo in discussione la qualità dell’episodio di Tarantino (cosa che non è accaduto per l’altrettanto costoso ma di più immediato gradimento Planet Terror). In realtà la successiva uscita in sala separatamente (con l’aggiunta di sequenze inizialmente eliminate) e l’home video (mosso dall’ampio fandom che negli anni si è raccolto intorno al film) hanno permesso un ampio recupero delle somme investite ma soprattutto hanno portato a una rivisitazione dei giudizi negativi avuti dopo la prima uscita.
In Italia Grindhouse – A prova di morte è uscito singolarmente e non posso non ricordare sorridendo l’entusiasmo stratosferico e l’incredibile energia che ha attraversato la sala durante la proiezione del film, soprattutto durante il finale. In A prova di morte Tarantino libera non solo le sue ormai conosciute e amate ossessioni ma cosa davvero importante realizza una reboante e spassosissima visione cinematografica attraverso i suoi due strumenti principe: una regia spregiudicata e multiforme e dialoghi entusiasmanti ed esplosivi.

Le Vergini Suicide di Jeffrey Eugenides (1993)

Benvenuti a Grosse Pointe, Michigan, dove la comunità ha costruito una zona suburbana serena, pacifica e immobile nel tentativo di lenire gli orrori (forse sepolti troppo in fretta) della guerra. Siamo negli anni Settanta e questo microcosmo chiuso, fissato sotto la fiamma di un sole sempre orizzontale e radente, è per gli abitanti più giovani un perimetro soffocato da perbenismo e minimalismo morale. Lo scrittore e vincitore del premio Pulitzer Jeffrey Eugenides ambienta qui una delle storie più iconiche e meglio riuscite della narrativa americana contemporanea: Le Vergini Suicide.
La storia è narrata da un gruppo di ragazzi catalizzati e incredibilmente attratti dalla casa della famiglia Lisbon, che campeggia al centro del chiacchiericcio e degli sguardi scrutatori di tutta la comunità. Qui si consuma, narrata dai ragazzi alla ricerca delle sue ragioni, la tragedia delle cinque figlie dei Lisbon: Cecilia di tredici anni, Lux di quattordici, Bonnie di quindici, Mary di sedici e Therese di diciassette. Mentre si avvicendano le stagioni l’aura di perfezione e perbenismo della città inizia a incrinarsi col consumarsi della tragedia delle cinque sorelle fino al finale mefitico, in cui la corruzione della casa dei Lisbon diviene il segno di un inarrestabile processo di degrado del fittizio sogno americano.
In Le vergini suicide Jeffrey Eugenides riprende stilemi e caratteristiche del grande romanzo americano e, manipolandole attraverso nuove e fresche intuizioni formali, realizza un’opera in grado di raccontare la contemporaneità e il grande tradimento del benessere postbellico. La casa dei Lisbon è l’ultima di una serie di dimore atipiche, ammantate di orrore, ignoto e pazzia della letteratura americana. È il motore immaginifico che muove l’attenzione dei giovani protagonisti, nel volerne disvelare i misteri e comprendere le dinamiche che la rendono oggetto di paura e disagio, così come la casa dei Radley de Il buio oltre la siepe o l’inquietante castello in rovina di Peyton Place o, ancora, la Casa Marsten di Salem's Lot. Collocando sia il punto di vista sia l’oggetto di attenzione nello spettro dell’adolescenza (le sorelle Lisbon, insieme, lo coprono per intero) Eugenides mette in scena la cieca repressione sessuale, che trova il suo habitat naturale nella famiglia tradizionale, in grado di immobilizzare le protagoniste, annientandole in una morsa sempre più stretta e letale.