martedì 30 ottobre 2012

Le iene di Quentin Tarantino (1992)

Chi non ricorda l’inizio del cult movie Le iene in cui Mr. Brown fa l’esegesi del brano Like a virgin di Madonna? Poi, chi non ha amato alla follia i dialoghi serrati fra i protagonisti, la coolness senza tempo del completo nero-camicia-bianca-cravatta nera dei protagonisti e chi, infine, non ricorda la scena in cui il disturbatissimo Mr. Blonde taglia un orecchio a Marvin? Domande retoriche, queste, perché a distanza di anni – la pellicola uscì nel lontano e postmoderno 1992 – Le iene continua a rappresentare per la critica cinematografica (quanto per quella letteraria) un cardine imprescindibile per la comprensione di un certo modo di fare cinema: Avant-pop, creativo, dalla solida base formale e immaginifica.
Quentin Tarantino debutta nel cinema realizzando la sua versione di Rapina a mano armata, in cui la narrazione ruota intorno a un colpo (che non vedremo mai) e agli effetti di questo su un gruppo di malviventi in black suit. Attorno all'evento fuori campo Tarantino costruisce un universo composito, deliziosamente pop in cui il crimine incontra la everyday life suburbana e musica e cinema si diluiscono in dialoghi, azioni e intenzioni. Le iene – già prima di Pulp Fiction – contiene stilemi e direzioni che faranno letteralmente scuola per tanto cinema (e ripetiamo narrativa) a venire, per la verità non sempre con risultati all'altezza del modello: humor nero, decostruzione del tempo del racconto, riferimenti alla popular culture, al noir inteso come genere e immaginario, alla Nouvelle Vague (principalmente Godard).

Nota particolare merita la citazione - mai fine a stessa ma letteralmente venerata - che qui si materializza in un continuo gioco alla riedizione: i completi neri richiamano The Blues Brothers e il finale di A better Tomorrow II di John Woo, la scena più violenta del film in cui lo psicopatico Mr.Blonde taglia l’orecchio a Marvin richiama sia Milano Calibro 9 di Fernando di Leo che The Shogun Assassin di Kinji Fukasaku ma moltissimi altri riferimenti possono essere recuperati - e lo sono stati - da cinefili e appassionati sparsi per tutto il globo.
Le iene – amatissimo in Europa e riconosciuto come pellicola rivoluzionaria al Sundance Film Festival – sancisce un nuovo inizio, “un domani migliore” per l’arte cinematografica. Oggi, dopo Bastardi senza gloria, possiamo ben dire che Quentin Tarantino continua – con successo e inventiva – a mostrare le nuove direzioni del cinema migliore.

giovedì 25 ottobre 2012

Desperate Housewives: la seconda stagione (2005/2006)


Ne sono convinto, è stata la seconda stagione di Desperate Housewives a consacrare il serial nell'empireo dell’immaginario pop televisivo di culto. Se la prima stagione ci aveva presentato uno scenario post Peyton Place, cartonato, a celare orribili segreti e piccole imbarazzanti manie familiari, la seconda stagione si spinge più in là sul territorio dei generi. Gioca con gli stilemi del pulp e del thriller piuttosto che con i toni del racconto rosa e della commedia.
Un anno è passato dalla morte di Mary Alice e a Wisteria Lane sono arrivati dei nuovi vicini: i perfetti e autoreferenziali Applewhite, Betty (Alfre Woodard), una black mama versione upper class e suo figlio Matthew (Mehcad Brooks). Ma a Wisteria Lane si sa, c’è dell’orrore dietro ogni steccato e presto le nostre casalinghe inizieranno ad avvertire strani rumori provenire dalla cantina dei nuovi e cordiali vicini: catene strusciate sul pavimento, tonfi, lo scudiscio del cuoio sulla pelle e - ovviamente - urla soffocate. Magistrale la scena in cui Betty cerca di mascherare i rumori “molesti” suonando una marcia al pianoforte e quanto vorremmo rivedere ancora i suoi sguardi enigmatici e frustrati nei confronti della cordialità di Bree, Susan e Lynette. Man mano che la serie si snoda lungo i suoi ventiquattro episodi faremo la conoscenza del terzo “coinquilino” di casa Applewhite: una sorta di gobbo di Notre Dame dagli insani appetiti che, come nella migliore tradizione slasher, metterà in pericolo i giovani e pruriginosi figlioli di Wisteria Lane.

mercoledì 24 ottobre 2012

Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino (2009)


Ha ragione Andrea “Contenebbia” Bruni quando scrive che con il suo ultimo capolavoro Bastardi senza gloria Quentin Tarantino sta indicandoci la via del “cinema che verrà”. Una strada fatta di impegno e profonda fede nell'immenso potere del cinema (qui la citazione interna, in parte estetica, al cinema di Goebbles non è una coincidenza… ma poi cosa lo è in un film di Tarantino?), di allegoria, di sovversione dei generi e immaginifica ricostruzione attraverso il what if di matrice fumettistica (da Topolino alla Marvel).
Minuziosa l’opera di costruzione operata da Tarantino, brani, quasi dei “bocconi” di informazioni vengono introdotte con mano sapiente per creare un universo alternativo e riconoscibile, pop e ricercato, che va dall'interrogatorio iniziale di Hans Landa (Christoph Waltz) agli scorci parigini che avvolgono la sdrucita ed elegantissima figura di Shosanna (Mélanie Laurent) per arrivare all'ormai consolidato strumento del flashback (celebrato ampiamente in Kill Bill è ormai un vero e proprio stilema del cinema di Tarantino). Anche laddove sono presenti dei “buchi” essi vengono percepiti dallo spettatore come avvertimento dello sconfinato potenziale narrativo della storia (o delle infinite storie): il salto temporale dalla corsa di Shosanna bambina alla sua nuova identità francese o l’introduzione in medias res del personaggio-chiave di Bridget von Hammersmark (Diane Kruger), tratteggiata in poche e materiche pennellate che ne fanno a tutti gli effetti una protagonista centrale. Non bisogna poi dimenticare le contraddizioni, le sembianze ossimoriche (perciò ricche di potenziale immaginifico) di personaggi e contesti in grado di immergere lo spettatore in un mondo alternativo e deliziosamente pop, rendendo il materiale narrativo iconico e incancellabile, vero e proprio elemento capace di entrare di diritto nell'immaginario popolare: “The Bear Jew” (Eli Roth) e la sua mazza da baseball, lo psicopatico quiescente Hugo Stiglitz ( Til Schweiger) e la stessa Shosanna.

giovedì 18 ottobre 2012

Socìetas Raffaello Sanzio: Tragedia Endogonidia (2004)


di Gianluca Stirpe

Nata dalla collaborazione triangolare tra la Socìetas Raffaello Sanzio, il musicista Scott Gibbons e i registi Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, la Tragedia Endogonidia, passata incolume nell’assordante silenzio della cul-tura italiana, rappresenta il felice esito di una ricerca a tutto campo che spazia, senza difficoltà, dal teatro all’installazione, dal minimalismo all’artifizio retorico complesso.
La Socìetas dalla sua fondazione a oggi ha affrontato un percorso di ricerca sul linguaggio della figura, dalla voce alla parola, dal corpo all’immagine, tale da imporre la compagnia come fonte d’invidia del mondo verso l’Italia.
Al di là di questa microtirata retorica, l’opera rappresenta una delle punte teoriche più interessanti della compagnia. Già nel titolo essa richiama, mettendo in campo degli esseri microcellulari apparentemente quasi inutili e capaci di ripetersi senza fine, una struttura radiale che collega ogni scena all’altra.
Nel caso della Socìetas Raffaello Sanzio non è opportuno parlare di installazione, quanto di rappresentazione iconica, o meglio, presentazione iconica i cui elementi così fortemente semantici debordano oltre i limiti del palco e colano direttamente nello spettatore. L’uomo che silenzioso anima le scene, che parla appena, fatto salvo in alcuni spettacoli, sfiora l’indicibile, parla una lingua antica, assente, appena per eletti, come l’anziano, o meglio, il vecchio che indossa i paramenti in lingua ebraica, che s’impone come l’aleph sulle labbra sanguinanti dell’uomo prossimo all’omega della propria esistenza.
L’uomo di Castellucci, è un uomo rinchiuso nel giogo della punizione, di un pentimento tanto emancipato, che così mostrato pare cadere in una sorta di feticismo smaterializzato, in un gioco delle parti, di dominanza e dominato, che più che imposto sembra voluto e volontario, come a scacciare una sorta di peccato originale che proprio perché scacciato diviene ancor più peccato e onta. Non c’è dio in questo mondo, e non serve nemmeno la redenzione, il mondo sulla scena è una bolla alla rovescia, il frutto di una rappresentazione di matematica immaginaria dalle imprecisate, forse nemmeno finite, dimensioni, ognuna per ogni sfumatura dell’essenza umana che rappresenta.
Tanta astrazione, tanto vigore teorico e teoretico si concretizza, paradossalmente, in una corporeità che pretende il proprio spazio in scena, che non necessita di mediazioni e addolcimenti. È lì di fronte lo sguardo, punto, e come il respiro, l’occhio chiede la sua aria. Questo corpo di-schiude tutta la sua potenza nella carne, nella fisicità degli attori, ridotti a un’essenza minima e anonima, così facilmente sostituibile da poter chiamare in causa anche lo spettatore.

mercoledì 17 ottobre 2012

Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma (1976)


Come spesso accade con la materia narrativa di Stephen King utilizzata al cinema anche Carrie, leggendario romanzo breve del 1974, è assorbito e metabolizzato nella visione del regista che si prende l’onere di portarla sul grande schermo. In questo caso Brian De Palma che materializza la storia della giovane esper di Chamberlain secondo le proprie ossessioni, i propri modelli e stilemi. Carrie - Lo sguardo di Satana è un film deliziosamente agghiacciante, nella sua composizione di tensione, paura e carica visiva. Già dalle prime sequenze De Palma ci introduce, con la lentezza tensiva che è ormai la sua firma, al primo grande trauma della giovane Carrie (Sissy Spacek): il suo scoprirsi donna in quel rivolo di sangue che gli scivola sulla coscia sotto la doccia, arriva dopo il piano sequenza che attraversa lo spogliatoio della palestra dove le altre ragazze vivono con disinvoltura la propria femminilità. È un passaggio chiave, scatenante e terrificante perché non annunciato, reso traumatico dalla pioggia di assorbenti che le compagne di classe le gettano addosso deridendola. De Palma, porta lo spettatore ad abbandonare il suo status per renderlo partecipe, facendo coincidere il suo sguardo con quello dell’atterrita giovane donna sotto la doccia. È questo a rendere Carrie – Lo sguardo di Satana una felice trasposizione del romanzo di King. Nelle istanze del re del brivido (dichiarate esplicitamente in On writing) Carrie è un personaggio le cui caratteristiche portano a un’identificazione da parte del lettore in maniera ecumenica, «a guardar bene, tutti abbiamo conosciuto (o siamo stati) Carrie da giovani.», Brian De Palma non perde tempo a ricordarcelo.
Da questo momento in poi è un focalizzare – secondo la lezione hitchcockiana – sul rapporto morboso fra Carrie e la mefistofelica e alienata genitrice Margaret White (Piper Laurie). Quest’ultima cela sotto la sua follia fondamentalista un trauma d’abbandono e riversa nero rancore sulle esili membra della figlia (che nel romanzo è invece grassa) con le sacre scritture usate come arma. La casa delle White (in perfetto stile Carpenter Gothic) è un labirinto di anfratti bui e insostenibili, in cui la summa dell’orrore è dato dall’orribile “stanzino della penitenza” in cui un’immagine cristologica infilzata e sanguinante atterrisce e annichilisce (rovinandola irrimediabilmente) la mente di Carrie.

lunedì 15 ottobre 2012

Suburbia e orrori sepolti: le origini di Desperate Housewives


Lor signori sono i benvenuti a Wisteria Lane, la zona suburbana più ambita di Fairview. Come potete vedere il quartiere è più che elegante, prati curati, steccati impeccabili e, statene certi, qui troverete non solo del buon vicinato, troverete il migliore.
Siamo sinceri, avete mai visto niente di più incantevole?

Con Desperate Housewives il produttore e scrittore Marc Cherry riprende l’intera cosmogonia di quella suburbia che negli anni Cinquanta colpì l’interesse della scuola di Francoforte. Allora Horkheimer e Adorno, osservando la way of life statunitense, elaborano quella critica della società presente che puntava la lente su minimalismo morale (attitudine a non andare al di là dell’interesse privato) e contraddizioni del contemporaneo vivere collettivo. Prima di Cherry era stata Grace Metalious a rappresentare la suburbia e le sue contraddizioni nell’antesignano e meraviglioso Peyton Place. Nel libro della «Pandora in blue jeans» la cittadina è descritta con precisione e i luoghi sono parte integrante dell’identità dei personaggi, ne sono emanazione e prolungamento della personalità. Metalious sa che perfezione e ferocia s’incontrano e si sposano felicemente nell’opinione pubblica, sa anche che la way of life post secondo conflitto mondiale impose status symbol fisici e comportamentali ma che sotto la cartellonistica a pastello è sempre stato tutto un brulicare di passioni imperfette, violente, sensuali e perverse.
Marc Cherry ha metabolizzato la lezione di Metalious dandogli nuova vita nel quartiere di Wisteria Lane, a suo volta ben strutturato (tanto che Wikipedia ne propone la piantina con la storia di tutte le abitazioni), ogni casa ha la sua identità, che permane e amplifica quella della famiglia che la abita. Il fiume carsico che si muove sotto le meravigliose abitazioni di Wisteria Lane ha origini lontane, muove dallo steccato bianco dipinto da Tom Sawyer e passa per le abitazioni celanti orrori innominabili di Poe e Lovecraft, continua il suo percorso per diramarsi verso il genere melò à la Douglas Sirk (non a caso genere amato e scelto da altri artisti Avant-Pop quali John Waters e Pedro Almodóvar), la satira sociale e, ovviamente, il noir. Quando la casalinga Mary Alice Young rassettato come ogni mattina, decide di spararsi un colpo alla testa riemergono, attirati dal sangue fresco sul tappeto buono, orrori sepolti, rancori dissimulati, azioni innominabili e vendette dalle ombre lunghissime.

martedì 9 ottobre 2012

I torbidi segreti della vita suburbana: Peyton Place di Grace Metalious (1956)

Immaginate una grigia vita di provincia.
Immaginate una casalinga che ciabatta per casa sistemando soprammobili e portafoto. La cena è in forno e quando il marito, professore di sociologia nella locale Università, tornerà a casa la potrà gustare accompagnata da un buon bicchiere di latte fresco. C’è qualcosa che non va (c'è sempre qualcosa che non va direte voi, cari lettori!), la nostra casalinga è irrequieta, dopo aver riposto l’ultimo piatto nella credenza si avvia in silenzio al carrello dei liquori. Si porta una mano alla fronte e inizia a prepararsi un golden ginger ale. Lo beve tutto d’un fiato per prepararne immediatamente un’altro. Accende la radio, un folle brano jazz riempe il salotto, la nostra casalinga si toglie le pattine e inizia ad ancheggiare sul tappeto. Con il bicchiere in mano si avvia al suo scrittoio, lo poggia da una parte, carica un foglio nella macchina da scrivere e inizia a ticchettare svelta sui tasti. Sono gli anni Cinquanta, la nostra casalinga altri non è che Grace Metalious e il manoscritto in gestazione è la bozza di quello che tutti conosceranno come Peyton Place.
Per due terzi classico e per un terzo icona trashy il romanzo che in Italia troviamo edito da Einaudi è frutto di un lungo e raffinato lavoro di editing e comunicazione, operato non solo sul testo ma anche sulla sua autrice, eletta a personaggio torbido con il titolo di «Pandora in blue jeans», colei che sola e spregiudicata ha voluto spiare e raccontare le torbide e inquietanti storie della provincia americana, fino ad allora rappresentata da eleganti casalinghe, angeli del focolare, succulenti roastbeef e prati perfettamente curati.

lunedì 8 ottobre 2012

Io e te di Niccolò Ammaniti (2010)


Considero Io e te (Einaudi) breve e meraviglioso oggetto letterario di Niccolò Ammaniti, un nuovo passo nel percorso à rebours che muove dallo sguardo fiabesco del piccolo Michele Amitrano (Io non ho paura, 2001), passa per la metamorfosi conflittuale del tredicenne Cristiano Zena (Come Dio comanda, 2006) e approda a quello nevroromantico di Lorenzo Cuni (Io e te). Lorenzo è un quattordicenne romano con problemi di socializzazione. La madre, cui Lorenzo è estremamente legato (come da manuale), lo trascina da uno psicologo che gli diagnostica un disturbo narcisistico della personalità. Per alleviare le ansie materne Lorenzo finge di essere stato invitato da un gruppo di compagni di classe a una settimana bianca. In realtà il giovane protagonista ha già predisposto tutto per passare quel periodo in completa solitudine nella cantina del palazzo dove vive. Cibo, un televisore, la Play Station, fumetti Marvel e tre romanzi di Stephen King (non a caso maestro del “riazzeramento sociale”) saranno i suoi unici compagni di ventura.
La prima parte della storia, per voce di Lorenzo, racconta di come sia arrivato a tale decisione utilizzando una similitudine biologica (espediente retorico tanto caro ad Ammaniti): Lorenzo vessato dai compagni di ginnasio ha una catarsi dopo aver visto in televisione un documentario sugli insetti imitatori, questi riproducono l’aspetto di specie più aggressive per sfuggire agli attacchi dei predatori. Lorenzo come «una mosca travestita da ape» riesce a sopravvivere a scuola ma vuole di più. Vuole dimostrare all’amata genitrice che è un ragazzo «normale», ecco quindi la menzogna sulla settimana bianca, pronta ad avvilupparlo senza scampo, giorno dopo giorno, fino a quando il pensiero di una certa cantina non arriva a salvarlo. L’età del protagonista e la narrazione in prima persona portano il lettore a un’immediata identificazione. Identificazione con la solitudine e la malinconia materica che assedia tutti gli adolescenti, in qualsiasi tempo, a qualunque latitudine. Lorenzo è un piccolo eroe nevroromantico, lo capiamo già quando racconta dei suoi giochi infantili, come chiudere la porta e sognare che la stanza sia un cubo alla deriva nello spazio siderale. Lorenzo non riesce a dare un nome ai timori e alle sensazioni che ancora oggi, a quattordici anni, lo perseguitano, materializzandosi sottoforma di immagini che fanno proprie le lezioni calviniane su leggerezza, rapidità e visibilità. Per esempio, Lorenzo immagina di essere trattenuto da un enorme gigante di pietra che lo serra a sé impedendogli qualunque movimento (come durante l’aggressione gratuita alla madre dopo un tamponamento automobilistico cui il ragazzo assiste inerme), gigante che nel finale lo lascerà andare nell’aere e volare rapido, leggero e finalmente cosciente.

martedì 2 ottobre 2012

Faust di Aleksandr Sokurov (2011)

di Gianluca Stirpe

È un Faust limitato dal corpo quello di Aleksandr Sokurov. La carne, le necessità della carne strappano il volo dello spirito, per dirla brutalmente è questo l’oggetto narrativo della pellicola. Saltando le innumerevoli recensioni apparse dalla sua uscita nelle sale, sale assai sparute, che hanno sottolineato il genio del regista o la pesantezza della pellicola, in un’opposizione di opinioni agghiacciante per superficialità e polemica gratuita. 
Procediamo per gradi. 

1. La storia. La pellicola, come indicato nei titoli, è liberamente ispirata all’opera goethiana. Forse più di ogni altra rappresentazione cinematografica esistente, quella di Sokurov, evidenzia l’elemento classico presente nell’opera letteraria. Manca il pathos egotico della colpa, e questo è un punto a favore del film, ed è presente l’ironia, a tratti anche amara, che ha difettato altri tentativi sul tema, fatto salvo però quello di Svankmajer. 
La solita diade vita VS morte, è qui allargata con la sorella ignobile conosciuta come fame. Tutti hanno fame, il corpo è affitto da quella punizione quasi divina per chi, distogliendo la sua attenzione dalle questioni pratiche della terra, rincorre una sapienza dello spirito e dell’anima. Il corpo è la zavorra dello spirito, la sua fame, la sua carne, le sue voglie, le sue necessità sono l’ancora dell’uomo. La cacciata dall’Eden non è stata la fatica, il lavoro e il dolore, ma il corpo, l’organo pesante che schiaccia sulla terra. 
I personaggi si affollano negli spazi angusti di un'interiorità casalinga, di una cittadella stretta, satura di uomini, donne, animali. Si passa, ci si strofina, ci si schiaccia addirittura. La vita e la morte si scontrano, come nel corteo funebre iniziale. 
In quest’amalgama di umani, il Dottor Faust accompagnato dal suo devoto assistente, vive distaccato, preso dalla ricerca e conoscenza del mondo, una specie di altro-mondo, punto di osservazione. Quel pianeta che osserva, è il suo vincolo, è la terra radice del suo corpo, lo stesso che gli impedisce le ascese verso la conoscenza dello spirito e dell’anima. Faust è il dottore che cerca l’anima nella carne, nel fondo terroso dell’humus umano, scava, taglia e affonda nei corpi sul tavolo operatorio, disseziona gli organi in cerca del rifugio dell’anima, inutilmente. Suo padre, sorta di medico arcaico, guaritore delle ossa, con i suoi macchinari, invece che cercare, ripara, sistema e fa funzionare i corpi, ne ritarda la morte, forse. Si tratta di una morte onnipresente, al par della gloria del dio pregato nelle chiese e professato dai preti, risuona nelle pestilenze, nelle spade dei soldati, nei crampi della fame. È un mondo crudele, quanto buffo per la sua semplicità: tanto facile vi si nasce, tanto facile lo si lascia. 
E c’è il Diavolo, a mezza via tra la figura del ruffiano e l’illuminato sull'assurdità della vita, un incrocio tanto vitale di consapevolezza da rifuggire ogni scorciatoia nichilista. Un Diavolo felice, non affamato e tanto riverente, dallo spirito sottile come una lama, di chi ha già visto chissà quante volte l’uomo perdersi nei suoi vizi, spendere tutto il proprio tempo inutilmente, ignorando totalmente anche i più rumorosi echi delle ammonizioni senechiane. Il Diavolo è tentatore, ma non nel senso contemporaneo della tentazione dell’anima, quanto del corpo, è un furbo attore da romanzo picaresco, che sollazza il corpo, e di conseguenza lo spirito in esso nascosto. Qui lo spirito dei preti è nascosto in ogni ventricolo della carne, è un suono flebile nel frastuono delle necessità e della sopravvivenza. In fondo questo Diavolo è un manipolato e non manipolatore, quasi un burattino, come nella pellicola di Svankmajer. Il suo è un male ingenuo, che collassa su se stesso, innocuo quando si scontra con il male umano. 
È un male quello umano, che si genera e autoalimenta. Circolo vizioso dell’esistenza. La giovane Margarethe è il bocciolo fresco dell’alba, anch'ella destinata alla marcescenza della vita. La giovane è il desiderio che schiaccia di Faust nel mondo, lo affonda nella terra, nella carne. Il desiderio che piano s’insinua nella giovane, è la tomba umida che cancella l’innocenza, è la fine dell’ingenuità. Anche per lei iniziano i sottili inganni e bugie per incontrare il Dottore. La via della loro unione stregata, viziata da una non specifica magia, è di una linearità tale da rendere del tutto naturali i raggiri, gli inganni, e quegli incidenti verso l’incontro carnale. 
Dono della pellicola è mostrare come il male non appartiene a entità esterne che insinuano nell'uomo la malvagità, ma è lo stesso male a costituire l’umano. La linfa umana pesca la sua essenza anche dalla radice maligna. Non si salva nessuno, ognuno è maligno, sia esso dottore, mendicante, soldato reso arido dalla fame. Faust è lo studioso affamato di conoscenza, capace di annientare pur di conoscere e procedere nella sua conquista. 

lunedì 1 ottobre 2012

A History of Violence di David Cronenberg (2005)


È buffo pensare che nel maggio del 2005, quando David Cronenberg lo presentò al festival di Cannes, il suo A History of Violence fu giudicato poco sperimentale, anzi decisamente convenzionale. Il film rappresenta in realtà un nuovo passo della ricerca cronenberghiana in merito a mutazione, identità e rappresentazione dicotomica del reale. Se nelle precedenti prove il regista canadese si era servito di un multiverso creato attraverso il gioco di ruolo (eXistenZ) e di uno schizofrenico compenetrarsi temporale (Spider) con A History of Violence dimostra che la mutazione può avvenire anche in provincia, operare su un uomo comune, anzi sull’Uomo Comune, il mattone (rosso come quelli dell’architettura tardo-ottocentesca della cittadina di Millbrook, Indiana dove è ambientata la vicenda), l’unità fondante della società americana. Tom Stall (Viggo Mortensen, che inaugura la sua collaborazione con il regista canadese) è il tranquillo proprietario di una tavola calda, ha una moglie che lo desidera, una famiglia che lo ama ed è rispettato dalla piccola comunità dove ha scelto di vivere. Questo fino a quando da lontano, ombre mostruose dal passato lo raggiungono, lasciandosi dietro una scia di sangue gratuito.
La mutazione in Tom è à rebours, avviene contro la sua volontà, lo (ri)trasforma in un individuo che è vissuto in lui prima di lui. A History of Violence, come tutti i film di Cronenberg, è fatto di ingressi, di una dicotomica realtà basata sul continuo scambio interno/esterno, che qui s’incarna nella manifestazione della violenza. Cronenberg ci mostra quanto è labile il suo affiorare e riaffiorare persino nel contesto più sereno e pacifico. Dal piano sequenza iniziale, lentissimo e claustrofobico, con i due sicari nella fissità estiva di un motel (anch'esso afflitto dall’orrorifica realtà interno/esterno), fino all’esplosione nel ristorante di Tom, che inusitatamente uccide a mani nude i due malintenzionati, passando per i corridoi della scuola dove suo figlio demistifica il bullismo di un compagno con le parole, per poi cedere inevitabilmente alla liberazione più ferina.