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lunedì 1 ottobre 2012

A History of Violence di David Cronenberg (2005)


È buffo pensare che nel maggio del 2005, quando David Cronenberg lo presentò al festival di Cannes, il suo A History of Violence fu giudicato poco sperimentale, anzi decisamente convenzionale. Il film rappresenta in realtà un nuovo passo della ricerca cronenberghiana in merito a mutazione, identità e rappresentazione dicotomica del reale. Se nelle precedenti prove il regista canadese si era servito di un multiverso creato attraverso il gioco di ruolo (eXistenZ) e di uno schizofrenico compenetrarsi temporale (Spider) con A History of Violence dimostra che la mutazione può avvenire anche in provincia, operare su un uomo comune, anzi sull’Uomo Comune, il mattone (rosso come quelli dell’architettura tardo-ottocentesca della cittadina di Millbrook, Indiana dove è ambientata la vicenda), l’unità fondante della società americana. Tom Stall (Viggo Mortensen, che inaugura la sua collaborazione con il regista canadese) è il tranquillo proprietario di una tavola calda, ha una moglie che lo desidera, una famiglia che lo ama ed è rispettato dalla piccola comunità dove ha scelto di vivere. Questo fino a quando da lontano, ombre mostruose dal passato lo raggiungono, lasciandosi dietro una scia di sangue gratuito.
La mutazione in Tom è à rebours, avviene contro la sua volontà, lo (ri)trasforma in un individuo che è vissuto in lui prima di lui. A History of Violence, come tutti i film di Cronenberg, è fatto di ingressi, di una dicotomica realtà basata sul continuo scambio interno/esterno, che qui s’incarna nella manifestazione della violenza. Cronenberg ci mostra quanto è labile il suo affiorare e riaffiorare persino nel contesto più sereno e pacifico. Dal piano sequenza iniziale, lentissimo e claustrofobico, con i due sicari nella fissità estiva di un motel (anch'esso afflitto dall’orrorifica realtà interno/esterno), fino all’esplosione nel ristorante di Tom, che inusitatamente uccide a mani nude i due malintenzionati, passando per i corridoi della scuola dove suo figlio demistifica il bullismo di un compagno con le parole, per poi cedere inevitabilmente alla liberazione più ferina.