domenica 26 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2014)

Non stiamo parlando di un regista qualunque, né di un attore qualunque. Stiamo parlando di Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio che, giunti al loro quinto sodalizio (dopo Gangs of New York, The Aviator, The Departed e Shutter Island), realizzano una pellicola dalle proporzioni creative inimmaginabili: The Wolf of Wall Street, ispirato dall'autobiografia del broker senza scrupoli che la rivista «Forbes» nel 1991 definì «il lupo di Wall Street», Jordan Belfort. Il film è un magistrale giro sulle montagne russe che si muove, fino all'ultimo respiro, nello spazio e nel tempo (dal lunedì nero della borsa americana a oggi, da New York a Ginevra, passando per Londra e Portofino) per raccontare della creazione di un’immane fortuna. Scorsese, DiCaprio e lo sceneggiatore Terence Winter (I Soprano) lavorano in maniera centrifuga per dare alla pellicola un’attitudine rock, composita, estremamente brillante e sopra le righe. La regia di Scorsese si muove fra registri diversi e giustapposizioni, lavorando al desiderato effetto lisergico con la collaborazione di Leonardo DiCaprio, che qui affronta e supera una delle sue più difficili prove attoriali. Interpretare Jordan Belfort - la sua dipendenza da tutte le droghe «scoperte sotto l’azzurro cielo» (crack, cocaina, morfina e ogni forma di metaqualone recuperabile), dal sesso e principalmente dal denaro - ha messo DiCaprio di fronte a un impegno fisico, mimico e verbale impressionante. I dialoghi, più in generale la scrittura, danno a The Wolf of Wall Street gli strumenti giusti per diventare un cult assoluto e indimenticabile.

sabato 25 gennaio 2014

Mio cugino, il mio gastroenterologo di Mark Leyner (1990)

Andrea Bruni in una sua intervista ha definitivo l’estetica avantpop in relazione alla raccolta di racconti Mio cugino, il mio gastroenterologo di Mark Leyner: L’Avant Pop è il punto di non ritorno del postmoderno: è un “genere” che nasce dal mix di tutti i generi, con schegge impazzite di immaginario, e che non segue le regole della linearità narrativa, ma la struttura a finestre e cartelle di Windows. “Mio cugino il mio gastroenterologo” di Mark Leyner ci indica la strada. A ritrovare le pagine del volume in questione (pubblicato in Italia da Frassinelli ma da tempo fuori catalogo) non si può che concordare con l’autore di Sugli Sugli Bane Bane. Il volume si presenta come una raccolta di short stories che vanno a costituire un collage narrativo polimaterico dominato da un io narrante che giganteggia attraverso l’utilizzo della prima persona, costituendo di fatto l’unico appiglio riconoscibile per il lettore (così come i monologhi di Ann Magnuson per i brani dei Bongwater). La pagina di Leyner è un delirio lisergico, violento e liberatorio. Un naufragio sulla spiaggia in cui è stato seppellito il canone della Narrativa Occidentale
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Gli stilemi e i riferimenti utilizzati da Mark Leyner poi amplificano la sensazione da «sfrenato party dell’apocalisse», in Mio cugino, il mio gastroenterologo recuperiamo materiali derivati dalla science fiction, dal sensazionalismo giornalistico, dalla televisione, dal cinema popolare (in particolare i kung-fu movies), dalla pubblicità. Per l’importante valore all’interno dell’Opera di Leyner merita particolare menzione il cyberpunk celebrato nella sua accezione più satura nel racconto finale Righe composte dopo aver sniffato un po’ di diluente per vernici che insieme al primo Ero un puntino infinitamente caldo e denso rappresenta la vera chiave di volta per la comprensione di tutti i diciassette racconti che compongono la raccolta. L’abominevole inserto biologico sulla macchina-robot (che ha ormai sostituito totalmente l’umano troppo umano) e le sue naturali derivazioni in termini di secrezioni fisiologiche, la violenza che porta alla scoperta della natura meccanica sotto il simulacro umano, l’estetica pop delle riviste erotiche come «Playboy» e «Spartacus» nella rappresentazione degli automi-eroi sono tutte declinazioni della caleidoscopica interpretazione del cyberpunk da parte di Mark Leyner.

domenica 19 gennaio 2014

Somewhere di Sofia Coppola (2010)

Benvenuti allo Chateau Marmont, luogo ospite di più di un immaginario, dallo stile d’ispirazione francese (il castello di Amboise, nella Loira) alle centinaia di incarnazioni che le sue camere e suite hanno vissuto negli anni: la morte di John Belushi, il cinema, le stelle che l’hanno abitato, i servizi fotografici i cui flash hanno esploso stili e registri fra camere, corridoi, scale e lobby. Qui Sofia Coppola ambienta Somewhere, pellicola del 2010 che abbandona l’immaginario pop iper-iconografico di Marie Antoinette per una visione più romantica, dai contorni sognanti, più vicini all'umano che all'artificiale, più in sintonia con Lost in translation che Il giardino delle vergini suicide.
In Somewhere, Johnny Marco (Stephen Dorff) è una star del cinema che si muove in una scena contemporanea sfinita, sognante e autoreferenziale. Il sesso, il denaro, gli oggetti di lusso (a partire dalla Ferrari nera che gira in tondo nel deserto all'inizio del film), tutto è sfiatato e privato di significato per Johnny, che – a detta della stessa Sofia Coppola – riprende il cinismo, la stanchezza e la presa di coscienza sullo show business del Toby Dammit di Federico Fellini. Come per quest’ultimo sarà una bambina a scompaginare l’esistenza del protagonista - qui però ribaltata da agghiacciante essere demoniaco a salvifico angelo – la piccola Cleo (Elle Fanning), figlia di Johnny, che piomba allo Chateau Marmont per scompaginare la sua esistenza piatta e bidimensionale. Cleo è l’elemento fiabesco per eccellenza, i suoi sorrisi all'indirizzo del padre, il suo muoversi al suo fianco, raccontano molto più che le parole cosa può essere un rapporto padre-figlia. Dal suo arrivo l’universo sfinito e artificiale di Johnny sarà costretto a confrontarsi con la naturalezza e il candore di Cleo. Movimento che trova il giusto climax nel viaggio in Italia che i due intraprendono per ritirare il Telegatto. Il lusso che avvolge produttori e starlette, l’imbarazzante teatrino con Valeria Marini sul palco della kermesse, tutto è demistificato dal confronto con Cleo.

lunedì 13 gennaio 2014

La principessa nuda di Cesare Canevari (1976)

di Andrea Bruni

Pensare a cosa producesse il nostro cinema, quando i generi impazzavano e le menti (di produttori, di registi, di sceneggiatori) eran libere di scorazzare a briglia sciolta, crea un vago senso di vertigine, soprattutto osservando alla “Little Big Horn” del nostro attuale panorama… Proprio mentre il solitamente garbato Ettore Scola, si divertiva a mitragliare il facile, accomodante, populismo neo-realista con quel fetido capolavoro che è Brutti, sporchi e cattivi, negli scantinati delle “pratiche basse”, Cesare Canevari, il Ken Russell de no’artri, inventava l’instant movie facendosi beffe, in un sol colpo del “quarto potere”, della politica internazionale e dei colleghi dei piani alti (tipo il Bellocchio di Sbatti il mostro in prima pagina) convinti di sposare Cinema e Verità… A Canevari (ed al proprio sceneggiatore, Antonio Lucarella) è bastato uno scampolo di realtà per forgiare uno dei più folli (e di conseguenza entusiasmanti) B-movie all'amatriciana: pare infatti che il dittatore ugandese Idi Amin Dada (“generalissimo” salito con la forza al potere nel 1971) avesse come amante Elisabeth Cristobal Bagaya, ultimo bellissimo virgulto d’una locale famiglia nobile. Una principessa, di sicuro. Nuda, forse. Tutto qui: una minuscola miccia in grado di far esplodere lo schermo, letteralmente invaso dalla sghemba bellezza di Ajita Wilson (qui al top), il trans più famoso del (nostro) cinema: sì, perché La principessa nuda è interamente sulle sue gracili spalle d’ebano. La palpitante, collerica, macchina da presa di Canevari non la abbandona quasi un solo istante indugiando sovente sulle sua grazie, senza dimenticare però i silenzi, il suo sguardo da preda braccata, il vago, celato, tremore di quelle possenti mani da manovale (sic): accarezzato dall'acqua di una doccia, profanato da una banda di coatti metropolitani, avvolto in mantelli degni dell’eterea Vulnevia del Dr. Phibes, è il corpo di Ajita Wilson, magico connubio di genetica e chirurgia, la vera anima del film. Fisicità altera ed altra, quella della Wilson, a cui fa da contraltare l’anoressica sensualità di Tina Aumont, incontrastata regina del Morbo; se, come si diceva prima, il cuore de La principessa nuda è da ricercare fra le carni esposte e dolorosamente offerte della Wilson, la tensione narrativa del film è cadenzata dagli occhi “alla Poe” della Aumont, medusea bellezza dallo sguardo che uccide. È forse grazie a tale gioco degli opposti, a codesto ying e yang dei sensi, che questa poverissima fatica nata per esigenze alimentari vola nell'Empireo dei cult movie. Dico “forse” perché buona parte del merito va, appunto, a Cesare Canevari, maestro nell'arte dell’Iperbole e del Grandangolo. Le scene memorabili, benedette dalla più dispettosa e sulfurea delle Muse, si sprecano: basterebbe l’incipit, quasi uno stralcio “impazzito” de La farfalla sul mirino di Seijun Suzuki, con quella banda di centauri motorizzati nel centro di una Milano disumanizzata, bagnata dai neon di mille ambigui locali notturni, per far entrare La principessa nuda nella videoteca ideale di ogni amante del cinema “de-genere”…E vogliam parlare della sincopatissima sequenza dello stupro (studia, Gaspar Noé, studia!), genialmente scandita dalle grida degli animali della foresta? Che altro dire, se non, citando Lord Franz Drago, il nano dell’orgia “Pop”: “Resta con noi, Gazzella Nera…”