martedì 28 febbraio 2012

Le regole dell'attrazione di Bret Easton Ellis (1987)


La fenomenologia della vita nel campus ricopre un ruolo di prim'ordine all’interno della popular culture americana. Scrittori, sceneggiatori e registi hanno investito tempo ed energie creative nella realizzazione di opere che ne descrivano le caratteristiche – dal cult movie Animal House al serial di MTV Greek – a ribadire l’importanza fondamentale che il college ricopre nel il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Lo declina con raffinato avanguardismo e inventiva formale anche Bret Easton Ellis che in Le regole dell’attrazione racconta la vita dell’immaginario campus liberale di Camden, nel New Hampshire, probabilmente modellato sul Bennington College frequentato da Ellis stesso. 
Come nel successivo American Psycho anche i giovani protagonisti de Le regole dell’attrazione sono dostoevskiani uomini del sottosuolo. I loro diversi punti di vista si alternano sulle stesse vicende evidenziando discordanze, menzogne, tic, paure, costruzioni immaginarie e desideri repressi. Lauren Hynde (che ritroveremo al fianco del protagonista di Glamorama Victor Johnson… pardon Ward), Paul Denton (presente in American Psycho) e Sean Bateman il fratello della futura icona degli anni novanta Patrick, vivono per inerzia mentendo a se stessi prima che gli altri.  Cercano di imparare a vivere sulla superficie (e statene certi sono già sulla buona strada…perduta), a non affrontare nessun evento in maniera emotiva e orribilmente “profonda” (termine tollerabile soltanto nel titolo di un certo film…). Lauren è un’artista e una poetessa e vive di struggimento per il suo amore lontano Victor, in viaggio in Europa (uno dei brani cult de Le regole dell’attrazione è il racconto per voce dello stesso Victor delle sue peregrinazioni in giro per il vecchio continente, un loop visivo e sensoriale a metà fra la beat culture e MTV) ma finisce a letto con Sean impegnato a scrollarsi di dosso ogni riferimento (anche economico) che possa collegarlo alla sua famiglia. Quest’ultimo infine è nelle mire del bisessuale Paul Denton (interpretato nella magnifica riduzione cinematografica di Roger Avary da Ian Somerhalder).

lunedì 27 febbraio 2012

The Informers. Vite oltre il limite di Gregor Jordan (2009)


Nonostante lo stesso Bret Easton Ellis abbia collaborato alla sceneggiatura, la riduzione cinematografica della sua raccolta di racconti Acqua dal sole (da noi in ristampa da Einaudi) risulta un film incompiuto, monco e poco coraggioso. The Informers. Vite oltre il limite poteva essere una grande occasione per proporre al grande pubblico i primi esperimenti narrativi di Bret Easton Ellis, si è invece rivelato un susseguirsi di materializzazioni visive a metà (nonostante la scenografia e i costumi siano decisamente ineccepibili), dialoghi devitalizzati e intertestualità negata. Non rimane niente del «limite» evocato dal titolo, sia esso sessuale, sanguinolento piuttosto che silente (e per questo ancor più capace di deflagrare) presente invece nella raccolta di racconti. A nulla è servita la presenza di Mickey Rourke, di una sfattissima e nevrotica Kim Basinger e della stupenderrima Winona Ryder: la pellicola rimane un frustrante ronzio privo di coraggio.

Unici ad essersi riusciti ad avvicinare il loro frammento allo spirito minimalista del libro sono Chris Isaak e Lou Taylor Pucci nei rispettivi ruoli di Les e Tim Price. I due sono padre e figlio in vacanza alle Hawaii per ricucire un rapporto ormai inesistente e senza ritorno, dietro al quale si nasconde il paradigma di un’intera gamma di dolori appena intravisti sotto la superficie perfettamente abbronzata.

Merita menzione la presenza “altra” dello scomparso Brad Renfro,  nei panni di un portiere tracagnotto e ricco di illusioni e quella della meravigliosa Amber Heard nel ruolo di Christie: angelo caduto e incarnazione di un decennio edonista (quello degli anni Ottanta) violentato dallo spettro della malattia.

venerdì 24 febbraio 2012

Acqua dal sole di Bret Easton Ellis (1994)

I tredici racconti della prima raccolta di Bret Easton Ellis Acqua dal sole (titolo originale The Informers),  presentano le prime spore di quello che verrà definito «minimalismo»: vi si riconoscono la ripetitività insensata del quotidiano (un rullo continuo fatto di luoghi e azioni che rassicurano e alienano chi le compie), le merci, l’insostenibile angoscia annidata nella società consumistica, la violenza e l’orrore legati indissolubilmente alla materia fisica e organica, in particolar modo al sangue e ai tessuti dilaniati. Acqua dal sole rappresenta un vero e proprio bacino di immagini, stilemi, scelte e personaggi da cui prenderà vita l’intera opera narrativa di Bret Easton Ellis, da Meno di zero a Le regole dell'attrazione da American Psycho al capolavoro di lunga gestazione Glamorama.
 I personaggi: Bruce (che apre e chiude la raccolta), Alana, Dirk, Tim, Blair, Graham e Raymond si nutrono di televisione, musica pop, cinema commerciale e riviste patinate. Una dieta mediale che associata al consumo disinvolto di benzodiazepine, droghe e alcool crea in loro una visione lisergica, satura e multicolore. Li seguiamo muoversi eterei, abbronzatissimi e semicoscienti attraverso luoghi dal forte sapore identitario come le ville, gli appartamenti, i giardini o i ristoranti: luogo del dialogo (negato) e del confronto per eccellenza, e ancora i cinema e ovviamente Palm Springs: “luogo-altro” deputato all'incontro con l’orrore e la morte, isola-immaginario attorniata dal deserto, simbolo di catarsi e formazione. Per la fauna di Acqua dal sole è il sesso il rapporto edonistico per eccellenza, in cui il piacere fisico e sensoriale rappresenta il miglior anestetico obnubilante. Ellis tesse la sua fitta rete intertestuale fatta di personaggi, situazioni, incontri, deja vu e ritorni. Il lettore è continuamente invitato a un gioco di rimandi che lo costringono (munito di Wayfarers d'ordinanza) a inoltrarsi nell’universo assolato creato dall'autore. È questa possibilità di incrociare più di una volta lo stesso personaggio, decostruito e smerigliato come uno specchio in cui provare a riconoscere (e a riconoscersi) a fare dei racconti di Ellis l'oggetto di una lettura assai partecipativa e fidelizzante..

mercoledì 22 febbraio 2012

La morte a Venezia di Thomas Mann (1912)


Interessante pensare che La morte a Venezia - universalmente riconosciuto come il punto più alto della già eccezionale produzione narrativa di Thomas Mann - sia un romanzo breve di poco più di novanta pagine. La morte a Venezia è un doppio viaggio ricco di suggestioni: in una Venezia miasmatica e decadente e nella psiche turbata del protagonista Gustav Aschenbach, scrittore perfezionista e amante del bello (secondo l’accezione più classica) che a seguito di una visione satura e vibrante decide di partire lasciando l’opprimente routine quotidiana alla ricerca di un incontro con la Natura. Giunto in seconda tappa a Venezia Aschenbach subisce via via in maniera più totalizzante e pericolosa il fascino del giovane Tadzio, incarnazione di tutti i canoni artistici venerati e celebrati dallo scrittore che in un delirio sempre più doloroso arriverà a umiliarsi e a disfarsi (fisicamente ma soprattutto moralmente e psicologicamente) per inseguire (salvo poi mordere continuamente il freno) il suo oggetto del desiderio.

Uno stile unico quello di Thomas Mann, in grado di coniugare idee e rappresentare in maniera vivida la psiche del suo protagonista con tutte le sue (dolorose) motivazioni. Un altro classico immancabile nelle nostre librerie, da mettere rigorosamente fra Doppio Sogno di Schnitzler e Diario di un killer sentimentale di Luis Sepúlveda.

martedì 21 febbraio 2012

Oro Rapace di Yu Miri (1998)


È possibile considerare la scrittrice coreana naturalizzata giapponese Yu Miri una enfant terribile della letteratura nipponica? Per quanto seduttiva questa dicitura non ha sortito nessun effetto sull’autrice che austera e minimale - dal cuore della sottile e violenta discriminazione razziale di cui sono vittima ancor oggi i coreani in Giappone - ci propone la storia di Kazuki giovane schizofrenico convinto che la vita vada vissuta come un videogame. È questa caratteristica parabiografica a rendere Oro rapace un piccolo gioiello di cultura Avant-Pop orientale? Sicuramente ne è parte integrante e ne avvalora tutte le tesi: la violenza soffocante e senza parsimonia di cui è impregnata la comunità giovanile rappresentata il rapporto bidimensionale con l’oggetto sessuale animato e inanimato, l’autodistruzione (mai descritta con uno stile tanto affilato e elegante) e la vita dopo la fine (del nucleo familiare come del corpo). Non è un caso che il padre del giovane Kazuki sia il proprietario di un grande locale di pachinko, droga più che passatempo nazionale dei giapponesi di tutte le età. Gli schemi mentali che il giovane liceale propone sono quelli tipici delle narrazioni in forma di gioco come Dead or Alive o Mortal Kombat, dettaglio compreso e ignorato da tutti i personaggi fino al momento in cui non avviene la completa scissione dalla percezione reale (o relativa), fino alla rinnovata e seriale apocalisse finale.

Kazuki vive per conoscenza dai manuali. Ripugna l’esperienza perché non la concepisce come reale. L’unica via di apprendimento è rappresentata dalla violenza efferata e lacerante, dai prodotti della sottocultura pop (i fumetti, i videogame) o dai volumi di saggistica e manualistica. Yu Miri non intende però puntare il dito contro questo tipo di produzione piuttosto la sua è una rappresentazione perfettamente sul filo del postmoderno, affatto femminile (o femminista) e giustamente priva di qualsiasi morale.

lunedì 20 febbraio 2012

Industrial Symphony No. 1 di David Lynch (1990)


Conosciamo tutti l’amore che David Lynch prova per la musica. Essa è elemento imprescindibile delle sue produzioni cinematografiche e seriali (Mulholland drive, Twin Peaks) nonché linguaggio attraverso cui sperimentare: dal videoclip alla produzione di dischi fino alla realizzazione in prima persona di un album: Crazy Clown Time. Oggi recuperiamo la felice incursione nel teatro musicale compiuta da Lynch nel 1989. La BAM, Brooklyn Academy of Music che organizzava il New Music America Festival – una manifestazione dedicata al teatro musicale sperimentale – chiese a David Lynch e al compositore Angelo Badalamenti di realizzare una performance della durata di circa quarantacinque minuti per aprire la manifestazione il 10 novembre 1989 all’Opera House di Brooklyn.
Lynch e Badalamenti si misero immediatamente all’opera e nonostante i tempi di realizzazione assai risicati riuscirono a creare Industrial Symphony n. 1: The dream of the Broken Harted (Sinfonia industriale n.1: Il sogno della donna dal cuore spezzato). Lynch si occupò dei testi, del setting e scrisse parte delle musiche, Julee Cruise, la cantante-icona dell’immaginario lynchiano, fu scelta come interprete principale.

giovedì 16 febbraio 2012

Dumbland di David Lynch (2005)

Dumbland è un’antologia lynchiana redatta rapidamente su un fazzolettino di carta mentre si parla al telefono, rigorosamente poggiato vicino a una lampada dalla luce rossa. Gli otto episodi – prima pubblicati sul sito web ufficiale di David Lynch e poi raccolti in DVD nel 2005 – contengono decine di riferimenti all'universo lynchiano e al suo background culturale. Dallo straniamento orrorifico della vita suburbana, agli interni familiari in Dumbland (la terra degli stupidi) David Lynch cita sé stesso: l'espressione «my teeth are bleeding!» (i miei denti stanno sanguinando!) che ricorda i corti degli esordi (The Grandmother), le rivelazioni segrete durante un momento di confusione che richiamano quelle di Twin Peaks. Nell’episodio La visita di un amico ritroviamo il perturbante personaggio del cowboy (Mulholland Drive, The Cowboy and the Frenchman) e l’episodio Zio Bob dove il suddetto parente flatulento porta il nome dello spirito efferato di Twin Peaks.

Gli otto episodi sono stati realizzati per intero da Lynch con l’ausilio del software Macromedia Flash e hanno una grafica semplice e straniante. I personaggi principali: Randy sboccato e rozzo capofamiglia, Sparky il piccolo di casa dalle fattezze di un alieno e la moglie di Randy in perpetua crisi isterica, sono tipizzati e possiedono una vis comica deliziosamente perturbante.

In definitiva Dumbland è una nuova occasione per confrontarsi con il genio del maestro David Lynch e goderne una volta di più le prodezze e divertissment.

mercoledì 15 febbraio 2012

La promessa dell'assassino di David Cronenberg (2007)

La promessa dell’assassino (Eastern promises) è una elegante declinazione della poetica sanguinolenta e deliziosamente corporale di David Cronenberg. La storia muove da un lavoro di ricerca e riproposizione, all'interno di una cornice noir, sulla cultura popolare russa e in particolare sui rituali della mafia russa. A Londra la giovane ostetricia Anna (Naomi Watts) assiste alla nascita di una bambina e alla contemporanea morte della giovane madre appena quattordicenne. Anna viene poi in possesso del diario della giovane madre defunta scritto in lingua russa. Sarà proprio questo documento ad aprirle le porte di un immaginario folk e violento, quello che si cella fra le mura del ristorante russo «Trans-Siberian» gestito dall'apparentemente mite e raffinato Semyon. In realtà il  «Trans-Siberian» è un centro di attività illecite ed efferate (tra cui la prostituzione minorile e lo spaccio di droga) dell’organizzazione Vor v zakone (”ladro nella legge”) di cui è a capo proprio Semyon. Tra ribaltamenti identitari, carne, sangue e luci al neon, Anna verrà in contatto sia con lo spigoloso Nikolai (Viggo Mortensen), autista ma in realtà factotum di sangue della famiglia che con Kirill (Vincent Cassel), unto e tragico erede di Semyon.
Cronenberg lascia che la cornice noir si apra continuamente su mirati scampoli di citazione legati alla sottocultura russa. Principale esempio di questa operazione sono i tatuaggi di cui è ricoperto il corpo di Nikolai. Senza tatuaggi un uomo non esiste, la sua storia è scritta con l’inchiostro sulla pelle. Si tratta di una nuova evoluzione nella poetica del corpo di Cronenberg, da sempre intento a portare sul grande schermo la mutazione, l’organico e il suo rapporto con l’artificiale, qui rappresentato come raffinato connubbio tra epidermide, sangue e inchiostro.

La narrazione diventa inoltre il pretesto per mettere in scena uno splendido portfolio di immagini ribaltate fra esterno e interno, Londra e la grande madre Russia, il mainstream culturale di basso profilo di Anna e l’efferato e immaginifico universo nascosto di Nikolai. A rappresentare la sottocultura minoritaria celata ma decisamente accessibile in un continuo rimando citazionistico non privo di ironia (ad esempio, la scena di Nikolai che “scongela” con il phon il cadavere surgelato a cui dovrà tranciare le dita ed estrarre tutti i denti).  Scena topica, sicuramente cult, in cui si ravvisa la summa di tutta la discussione teorica sulla pellicola è quella ormai ribattezzata dall'audience attiva del web come la scena della sauna, in cui Nikolai, vittima di un agguato, combatte contro due uomini armati completamente nudo.

martedì 14 febbraio 2012

Millennium. La seconda stagione: femminile biblico, vita quotidiana e proliferazione del male


Millennium, creatura di Chris Carter (che l’ha realizzata durante il successo di X-Files) è una serie talmente carica di suggestioni, felici intuizioni formali e riferimenti culturali disseminati con sapienza che oggi è quasi impossibile pensare a una serie TV di ventitré/ventiquattro episodi simile. Nonostante la serie consta solo di tre stagioni l’universo di Millennium è completo e particolareggiato. Sia Frank Black che i coprotagonisti si evolvono naturalmente offrendo diversi punti di vista su uno scenario sempre più violento, oppresso psicologicamente dall’avvicinarsi di un’apocalisse di cu prova continuamente a intuire la natura. Se nella prima stagione avevamo iniziato a metabolizzare gradualmente la matrice sovrannaturale e simbolica che sta alla base del crescendo di violenza e orrore a Seattle e in tutti gli Stati Uniti, nella seconda stagione è instillato, sia nel protagonista Frank Black sia in noi spettatori, il dubbio. Dubbio su un’organizzazione secretata che si mostra per livelli (come una vera e propria setta, simile per esempio ad Aum Shinrikyo), tentacolare e insidiata nelle più disparate forme della vita sociale, economica e politica degli Stati Uniti (e non solo). Frank ha collaborato con il gruppo Millennium con una motivazione che gli appare sempre più fittizia, quello che gli è richiesto per aumentare il suo livello di conoscenza sono fede e fedeltà, impossibili per Frank abituato a vedere, a dedurre e a comprovare.

lunedì 13 febbraio 2012

Altare della Patria di Ferruccio Parazzoli (2011)


Altare della Patria, romanzo di Ferruccio Parazzoli che ha inaugurato la collana di narrativa de Il Saggiatore curata da Giuseppe Genna, possiede una grande forza visiva e narrativa costruita attraverso scelte autoriali assai particolari e interessanti. Parazzoli racconta una tragedia di cui i lettori conoscono già i connotati ma che ritrovano qui rappresentata attraverso metope ectoplasmatiche, brevi visioni che coagulano sulla pagina assumendo contorni precisi, per mostrare gli episodi costituenti la «rappresentazione». L’insieme di queste rapide e accurate costruzioni narrative - che Parazzoli giustappone non seguendo un mero ordine cronologico ma secondo la visione millenaristica che vuole restituire – raccontano del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse ponendolo al centro della sempre accetta sfida fra Dio e Satana. Entrambi, shakespearianamente, assumono diverse identità per manifestarsi non visti (come quando li vediamo per la prima volta nei panni di un gesuita di Tubinga e di un prelato di provincia discutere della sfida imminente) o nel caso di Satana per tormentare le proprie pedine umane. Altare della Patria è sì fatto da giustapposizioni visive di matrice dorica ma qui l’artista-autore decostruisce, destruttura la vicenda ricreandola non linearmente per restituire le realissime sensazioni di straniamento, perturbazione crescente e paura (la più gelida e temuta: quella del futuro). Satana ha strappato la sfida a un Dio biblico che non esita a rimettere un altro dei suoi figli più devoti (dopo Isacco e Giobbe, principali topoi alla base della narrazione) nelle mani del male per saggiarne la fede.  Questa volta toccherà al vicario di Cristo in terra, papa Paolo VI, cimentarsi col dubbio e col dolore per il silenzio di un Dio di cui si desidera una preconcettuale attitudine alla giustizia ma che invece, disinteressato, agisce lontano dalla logica razionale e manichea che lo vorrebbe al fianco dei giusti per ripristinare il bene. Bisogna rilevare ancora una volta come la visione di Parazzoli in Altare della Patria sia millenaristica. Lo scontro fatale superiore, al di là dagli sconvolgimenti terreni, è figlio allo stesso tempo della cultura classica e dei retaggi, dei debiti, della contemporaneità che Parazzoli ritrova nel terrorismo degli anni Settanta, nelle scelte, nell’ignavia incosciente da cui si svilupperà il degrado e la decadenza dei decenni successivi. Il millenarismo di Parazzoli, incarnato nel potente vaticinio del fagotto andreottiano sulle scale dell’Altare della Patria, si pone come soluzione (non consolatoria ma tragicamente fatale) di una realtà alla deriva, in continua e orrorifica metamorfosi.

giovedì 9 febbraio 2012

Rabbits di David Lynch (2002)

Gli otto cortometraggi di Rabbits, progetto metacinematografico di David Lynch (troviamo brani della “sit-com degli oscuri coniglietti” anche in INLAND EMPIRE) arricchiscono alcuni temi, archetipi culturali e scelte stilistiche della visione cinematografica del regista di Elephant ManGià, la serialità, molto amata da Lynch che volle stravolgerne per sempre le istanze con Twin Peaks (riprovandoci senza riuscirci con il progetto Mulholland Drive) e che qui torna ad affascinarlo. Gli otto cortometraggi di Rabbits sono pensati come puntate di una sit-com, con inquadrature stabili ed ecumeniche nei confronti di tutti i protagonisti, una scenografia riconoscibile e familiare, registrazioni di applausi del pubblico e risate. Lynch, con fare alchemico e surrealista deframmenta i connotati stilistici della sit-com ricostruendola con fare ready-made per ottenere un risultato oscuro e straniante, in grado di provocare stilettate di puro orrore nello spettatore (esattamente il contrario del comfort catodico della situation comedy). Lynch, forte della staticità delle dinamiche sociali e psicologiche all’interno della cornice seriale cui fa riferimento costruisce una vera prigione di incomunicabilità dove i protagonisti rosi da un orribile e innominabile evento, si rivolgono l’un l’altro senza mai comprendersi, nutrendosi di oscure suggestioni, recriminazioni e rimanendo continuamente in attesa della resa dei conti.

Il fulcro di ogni episodio è il momento in cui viene recitata una poesia (sempre diversa) da tutti e tre i personaggi (interpretati da Naomi Watts, Laura Harring e Scott Coffey). È il momento più lucido, dove il non-detto trasfigura nell'assonanza surreale costruendo una catena di suggestioni che, come ha ben notato Alessandra Cavisi, «restituisce particolari importanti circa l’omicidio: “denti sorridenti” (basti ricordare la famosa foto di Laura Palmer), “sirene distanti”, “navi distanti” (il corpo della ragazza di Twin Peaks fu trovato in mare), e via di questo passo».
Ancora una volta viene messo in evidenza il rapporto citazionistico che lega Rabbits alle altre produzioni di Lynch. L’ossessiva domanda senza risposta che aveva appassionato il pubblico in quei mesi: «Chi ha ucciso Laura Palmer?», sembra infatti risuonare continuamente nel bugigattolo illuminato ad hoc della famiglia di oscuri coniglietti.

In definitiva Rabbits è un progetto originale e curatissimo, che apre un’altra porta nell’universo lynchiano dove il familiare e la routine possono nascondere orrori mai sopiti e paure innominabili.

martedì 7 febbraio 2012

Hotel Room di David Lynch (1993)

L’hotel è sempre stato uno dei paradigmi Avant-Pop attraverso cui declinare temi, esperimenti stilistici e costruzioni di immaginari. Pensiamo a Four Rooms di Quentin Tarantino o al film 1408 tratto dall’omonimo racconto di Stephen King. Camere arredate con eleganza, illuminate da lampade déco che diventano unità narrativa di spazio con cui confrontarsi e in cui far scivolare le proprie ossessioni. Non è da meno Hotel Room progetto seriale di HBO (garanzia assoluta di qualità e sperimentazione) diretto da David Lynch e James Signorelli. I due episodi diretti da David Lynch (e in parte anche quello di Signorelli) contengono stilemi e tematiche che verranno riprese nei progetti futuri del padre di Twin Peaks. L’Hotel stesso è utilizzato da Lynch come luogo per ambientare molti degli spot che ha diretto: Opium per Yves Saint Laurent, Gucci by Gucci e l’ultimo meraviglioso cortometraggio Lady Blue Shanghai per Dior.

Nel primo episodio Tricks (Clienti) ritroviamo il telefono accanto alla lampada che sarà la firma di Lynch per tutte le produzioni a venire, la prostituta in pericolo che sfocata e perturbante ritroveremo in INLAND EMPIRE e senza dubbio il tema del Doppelgänger (il gemello maligno, la dislocazione orrorifica all'esterno di sé) utilizzato ampiamente da Lynch da Twin Peaks a Strade perdute passando per Mulholland Drive. Il personaggio di Lou qui è la dislocazione ferina di quello di Boca e i due sono inseriti in una cornice noir (siamo nel 1969) che richiama molto ciò che vedremo in Strade Perdute.
Il secondo episodio Getting Rid of Robert (Sbarazzandosi di Robert) diretto da James Signorelli ripropone la riflessione su femminilità e modernità citando il Tolstoj di Anna Karenina: alle pareti della camera 603 nel 1992 c’è il treno, simbolo di scelleratezza e dolore già presente in Twin Peaks (ricordate Ronette che torna in città seguendo i binari della ferrovia?).
L’episodio Blackout diretto da Lynch che chiude la produzione è il più immaginifico dei tre. Pur conservando un impianto statico, classico e teatrale (in cui lo spettatore è soggiogato dai movimenti dei protagonisti nella stanza al buio) possiede una carica surreale senza pari dovuta ai dialoghi, che ne fanno un piccolo capolavoro post-surrealista (es. «sei partito per il Mar Rosso» diventa per la protagonista Diane «sei partito per il Rosso del Mare»).

In definitiva un capolavoro sperimentale da recuperare, soprattutto in Italia dove è stato incomprensibilmente obliato.

lunedì 6 febbraio 2012

Duma Key di Stephen King (2008)


Fu Duma Key a riportare Stephen King  tra le grazie del suo pubblico e della critica istituzionale che fino a poco tempo prima lo aveva accusato di produzione discontinua e disarmante mancanza di idee. Il nuovo approccio alla scrittura di King, per intendersi quello successivo al terribile incidente del 1999, lo aveva portato sulla strada della sperimentazione. Dalla raccolta di racconti Cuori in Atlantide (1999) all’hard boiled insoluto Colorado Kid (2005), per arrivare alla metanarrazione con l’eccellente La storia di Lisey (2006). La prosa di King in questo periodo ha saputo rinnovarsi e proprio con Duma Key concluse  la stagione di ricerca regalando al lettore una nuova storia assai godibile e coinvolgente.
 Il romanzo narra del “riazzeramento sociale” deciso dal protagonista Edgar Freemantle, costruttore edile vittima di un incidente sul lavoro che lo ha lasciato fisicamente menomato e gonfio di rabbia nei confronti della moglie Pam. Ormai deciso per il suicidio Edgar viene invitato da un corpulento psichiatra di colore a trasferirsi per un periodo in Florida, proprio sull'isola semiabitata di Duma Key. Qui, insieme ai suoi nuovi vicini di casa, tra cui la vecchia ed elegante proprietaria terriera Elizabeth Eastlake e il suo adorabile avvocato tuttofare Jerome Wireman, Edgar ritroverà la passione da tempo sopita per la pittura e il disegno. Sulle sue tele fioriranno dipinti sempre più surreali e spiazzanti, figli più dell’immaginario malato e pericoloso dell’isola che della creatività di Edgar.

mercoledì 1 febbraio 2012

Rabid, sete di sangue di David Cronenberg (1977)

Dopo le sperimentazioni di ingegneria sociale, telepatia e chirurgia cerebrale di Stereo e l’avvento degli zombie pansessuali de Il demone sotto la pelle David Cronenberg ritorna a raccontare il corpo in rapporto con la società contemporanea in Rabid, Sete di sangue (titolo originale Rage, rabbia). Se ne Il demone sotto la pelle l'organismo patogeno fallomorfo si muoveva indisturbato appena al di sotto della superficie (sociale, convenzionale tanto quanto biologica) in Rabid è generato dal fanatismo scientifico al servizio dell’estetica. La superficie, la pelle, qui è dilaniata dall'orribile incidente che apre il racconto e dagli strumenti sterilizzati (precursori di quelli inventati dai fratelli Mantle di Inseparabili) della clinica di chirurgia estetica che ospita la protagonista Rose. Il tegumento viene orribilmente trasformato in strumento di contagio e orrore dalle elucubrazioni del dottor Keloid, un chirurgo estetico degno della migliore tradizione espressionista. Cronenberg opera con sapiente attitudine filologica elaborando una visione del cinema dell’orrore in grado di dialogare col passato (si pensi a Fritz Lang e a Murnau) portandone avanti le istanze nella contemporaneità, in quegli anni avvinta nella riflessione in merito alla tecnologia come prolungamento, appendice, estensione (o abberrazione?) del corpo umano. Teoria vaticinata da Marshall McLuhan, non a caso assai amato da Cronenberg.
Rose - interpretata dalla meravigliosa pornostar Marilyn Chambers - rinasce dopo una lunga degenza post-operatoria in cui le sono state innestate/trapiantate ampie sezioni di pelle. Atavica genetrice nonché focolaio virale, Rose inizierà a muoversi prima nei dintorni della clinica (un vero museo delle cere abbagliato da luci al neon che celano alla vista dello spettatore rughe, punti di sutura, persino i bordi delle garze sterili) spostandosi poi verso la città-come-paradigma-della-contemporaneità. Nella metropoli Rose si muoverà sinuosa e ferina tra cinema a luci rosse (non prima di essere passata di fronte alla locandina di Carrie di Brian De Palma), centri commerciali e stabili abitativi (quello della sorella Mindy ricorda ancora una volta L’Arca di Noé de Il demone sotto la pelle) infettando con il suo venefico pungiglione ascellare - quasi un preavviso delle escrescenze organiche e sessuali de Il pasto nudo - chiunque decida di approcciarla con un virus simile alla rabbia.

L’apocalisse postmoderna - da sempre intesa come epicurea, sensuale e godereccia - si compie rapidamente mentre le strade della città si svuotano e Rose, finalmente cosciente della sua natura e del suo tragico destino, si sacrificherà (vanamente e per questo in maniera deliziosamente melodrammatica) prima del finale, considerato tra i più pessimisti e privi di redenzione di tutta la cinematografia di David Cronenberg.http://onlyrecensionitoplaywith.blogspot.it/2012/10/carrie-lo-sguardo-satana-de-palma.html