martedì 31 luglio 2012

Manette. Istruzioni per l'uso di William T. Vollmann


All’interno di quello straordinario progetto che fu la collana «AvantPop» di Fanucci Editore i due curatori, Luca Briasco e Mattia Carratello, proposero – con fare genuinamente didattico e divulgativo – alcuni volumi, realizzati ad hoc per il pubblico di lettori italiani. in questo modo fornivano degli esempi utili a capire cosa intendere per letteratura Avant-Pop. Un saggio di quest’operazione è rappresentato da Maneggiare con cura di Joe R. Lansdale e dal cupo Manette. Istruzioni per l’uso di William T. Vollmann. L’autore del capolavoro Europe Central nel lontano e assai lucido 1991 aveva inserito proprio Manette. Istruzioni per l’uso - una cupa storia d’amorosa dipendenza - nel volume Tredici storie per tredici epitaffi che contiene già tutte le ossessioni visive, stilistiche e le idee che si svilupperanno successivamente nella produzione di Vollmann.
Manette è un racconto situazionista in cui Vollmann materializza la violenza (argomento centrale del suo saggio monumentale Rising Up and Rising Down uscito nel 2003), i rapporti di potere, la dipendenza, il feticismo e la guerra (confrontata in prima persona durante un soggiorno in Afghanistan). La fetida e sovrastante Gun City in cui sono ambientate le vicende dei due protagonisti, Abraham Yesterday ed Elaine Suicide, è figlia di un’estetica militare che ha egemonizzato ogni singolo aspetto della vita dei cittadini. A Gun City si lavora, si vive e si pensa secondo una prospettiva bellica che schiaccia e costringe la gente a cercare rivoli umorali di umanità nel ventre metallico della metropoli. Quello di Manette è un universo ucronico post-totalitario, un luogo e un tempo in cui l’uomo non ha affrontato l’idea di regime ma l’ha fatta propria e metabolizzata per emanarla sugli altri in maniera letale. Per Vollmann la guerra è un unicum senza confini che fonde insieme, come in una lega metallica, vita sociale e vita culturale. Una visione costrittiva e post-umana che si dichiara come (iper) realtà fra le tante, infinte, possibilità.

giovedì 26 luglio 2012

Un uomo solo di Christopher Isherwood (1964)


Diciamolo subito: la lettura di Un uomo solo è dolorosa e caustica. Quando il romanzo viene pubblicato è il 1964 e il suo autore, Christopher Isherwood, ha sessantatré anni, alle spalle una vita e una carriera di intellettuale esemplari. Dopo i tentativi di permeazione autobiografica del passato, Isherwood riesce nell’intento col racconto del cinquantenne George, professore di origini inglesi, insegnante alla Los Angeles University. È lui l’«uomo solo» del titolo, sopravvissuto alla morte del compagno Jim. In George confluiscono l’impegno politico e l’incisività espressiva di Isherwood. É topico in questo senso il monologo su alterità e odio razziale in cui sfocia la sua lezione in merito al romanzo di Aldous Huxley Dopo molte estati muore il cigno. Il testo di Huxley con il suo bouquet di personaggi sembra far da simulacro narrativo per quelli dello stesso romanzo di Isherwood (entrambi i romanzi sono ambientati in California e hanno un personaggio di origini inglesi, come i due autori). Se Huxley in Dopo molte estati muore il cigno volle riflettere sulla superficialità e sull’ossessione per la giovinezza della cultura americana, Isherwood si occupa – con una tale lucidità e amarezza da diventare esemplare – di identità, sia essa geografica piuttosto che sessuale, solitudine, condizione omosessuale, senescenza e desiderio.
Il lettore potrà sì avvertire ogni momento di dolore di George per la perdita di Jim ma gli sarà impossibile averne pietà perché la sincerità dell’uomo nell’esprimerlo - come nel descrivere se stesso, le sue pulsioni, i suoi atteggiamenti più piccati e antipatici – è totale. Si riscontra nel continuo confronto con gli altri: i vicini benpensanti, la brigata dei suoi studenti al college (che andrebbero letti come corrispettivi del personaggi del castello di Huxley) ma soprattutto l’amica di vecchia data Charlie e l’efebico Kenny. La prima è la «donna», l’unica che George abbia mai avuto e voluto nella sua vita (a parte la venefica Doris che provò tempo addietro a carpirgli Jim). Charlie, nonostante i tentativi di George di tenerla lontana dalla propria esistenza, è per lui madre e compagna, è l’unica che ha potuto salvarlo dal non-commiato con Jim (morto a chilometri di distanza per un incidente stradale), l’unica con cui può lasciarsi andare allo spleen per l’isola d’Albione, da cui entrambi provengono. Kenny Potter è invece la materializzazione del desiderio di George. Il dolore, infatti, non è mai riuscito a spegnere le sue pulsioni, ed ecco che seduto allo Starboard Side (dove anni prima aveva incontrato per la prima volta proprio Jim) riconosce Kenny, uno dei suoi studenti. Questi, spirito panico, lo condurrà in una folle corsa sulla spiaggia e poi fra le onde del mare, che avvolgono George e lo mostrano a se stesso per l’uomo che realmente è. A casa George incalzerà il ragazzo, lo porrà di fronte al dovere della sincerità, un testamento onirico prima di essere avvolto da un’ultima immagine, la risata argentina e ambigua di Kenny. Questa precede l’oblio e l’amara chiosa per voce ipotetica del narratore, con la quale si chiude la giornata e la vicenda di George, in un’ultima caustica espressione, decisamente à la Isherwood.

Un uomo solo è un romanzo che più dei precedenti pone l’autore de La violetta del Prater e Mr. Norris se ne va fra i migliori autori della letteratura americana contemporanea, finalmente non solo per lo stile icastico e sincero ma per la bellezza delle immagini e la forza e l’amarezza di una visione tutta sul viale del tramonto. 

martedì 24 luglio 2012

Rabbia di Chuck Palahniuk (2007)


Sulla possibilità che il noir sia in grado di trovare e battere nuove e più interessanti strade a livello di costruzione narrativa e di godibilità del testo tanto si è discusso negli anni passati, soprattutto grazie al lieto avvento di un ben nutrito fronte di scrittori, europei, americani e oggi anche orientali che si sono adoperati con sorprendente entusiasmo per rivoluzionarne le istanze e le caratteristiche intrinseche. A buona ragione è bene inserire in tale gruppo di penne affilate anche Chuck Palahniuk, emblema di un certo tipo di scrittura tagliente, equilibrata e organica, nonostante l'altalenante qualità della sua ultima produzione. Oggi prendiamo in esame Rabbia. Una biografia orale di Buster Casey da noi edito per la collana «Strade Blu» di Mondadori, in cui l’alto grado di sperimentazione narrativa si coniuga al rapporto tra oralità e scrittura. Gli eventi vengono narrati da una costellazione di personaggi più o meno distanti dalla figura di Buster Casey (che leggeremo in prima persona apparentemente solo di passaggio). Si tratta di familiari, amici, conoscenti, devoti, nemici, e intellettuali, tutti ansiosi di contribuire alla ricostruzione degli eventi atroci legati alla vita (o sarebbe meglio dire alle vite?) del giovane protagonista. Già leggendo i primi contributi pare quasi di vederli, seduti in cerchio come nel più classico dei gruppi d’ascolto, ognuno pronto a dire la sua sulle vicende che man mano vengono prese in considerazione. Dalle prime battute il lettore deve abituarsi a procedere tra decine di punti di vista e opinioni differenti, allontanandosi costantemente da una lettura passiva degli eventi.

sabato 21 luglio 2012

Tragedia greca e psicodramma junghiano in Brood la covata malefica di David Cronenberg


Torniamo indietro nel tempo, al 1979, e recuperiamo un classico del cinema organico e ginecologico del primo David Cronenberg. Lo schermo si riempie di nebbia, il cielo gravido e lattiginoso ha già imbiancato di neve i dintorni di Montreal, ci muoviamo in interni che ci restituiscono un immaginario piatto e malinconico. Ambienti in cui sono generati e accuditi esseri indicibili dalle forme innocenti.
Con Brood. La covata malefica David Cronenberg muove dalle mutazioni scellerate e virali de Il demone sotto la pelle e Rabid. Sete di sangue per innestarne gli orrori su di un corpo femminile, rielaborandoli sui concetti di procreazione e maternità. Una sperimentazione che continuerà al di là dell’horror malinconico e ambivalente di Brood per raggiungere esiti raffinati e agghiaccianti con Inseparabili.
Ancora una volta a fare da base per la rappresentazione cinematografica (qui deliziosamente orrorifica) di Cronenberg troviamo le istanze dello psichiatra e psicoanalista Carl Gustav Jung. In particolare nell’utilizzo da parte del dottor Raglan (ancora un altro scienziato lovecraftiano cui sfugge tragicamente il controllo delle proprie sperimentazioni) dello psicodramma analitico. Nella Montreal di Brood il dottor Raglan ha definito la “psicoplasmica”, un metodo basato sullo psicodramma analitico di matrice junghiana, attraverso il quale aiuta i suoi pazienti a esporre fisicamente al di fuori di se stessi nevrosi e traumi. Ne è un esempio la splendida sequenza iniziale, in cui uno sfondo nero avvolge due figure: Raglan e un suo paziente. Il creatore della psicoplasmica interpreta il ruolo del padre del paziente, i due sono vestiti solo di un semplice kimono (che sembra proiettare la vision nella Butterfly en-travesti del finale tragico di M. Butterfly) e sono ripresi rasoterra, a evidenziarne le posizioni teatrali (certamente tragiche) e metaforiche. Raglan incalza il paziente che manifesta di colpo il proprio trauma attraverso piaghe ed escoriazioni che appaiono sanguinanti sul suo volto e sul corpo. La sequenza successiva completa la visione metarecitativa: i due sono su un palco, e il pubblico rapito ed entusiasta osserva le luci spegnersi sui due «attori» prima di uscire commentando la rappresentazione. Cronenberg introduce così i temi della tragedia e della psicoanalisi, su cui poggia tutta la rappresentazione di Brood.

venerdì 13 luglio 2012

Per una lettura trascendentalista de Le avventure di Tom Sawyer


Considerando Mark Twain in riferimento alla narrativa contemporanea possiamo parlare di “presenza” piuttosto che di “influenza”. L’autore di Vita sul Mississippi è certamente presente sia come modello linguistico sia come materiale culturale da manipolare. Ne è un esempio Joe R. Lansdale assai influenzato dalla letteratura di Twain, come sottolineano Luca Briasco e Mattia Carratello «[…] per più di una ragione: una vis comica sempre venata di cattiveria e di anarchismo; la dimensione totalmente orale del linguaggio e dello stile; la scelta di un regionalismo che non rinuncia a proporsi come universale.». Recuperiamo con rinnovato interesse il volume Le avventure di Tom Sawyer (1876) dalle nostre librerie, rileggendolo – oltre all’entusiasmo di ritrovare Tom, Huck, Becky, zia Polly, persino il viscido Sid – ci accorgiamo che sono l’interpretazione del simbolismo – «parte fondante di tutta la cultura americana» direbbe un piccato Christopher Isherwood - l’uso di una lingua che ingloba espressioni dialettali e regionalismi e la capacità di manipolare la tradizione (nel caso di Twain quella orale), a fare da esempio per la narrativa dei decenni successivi. Tom Sawyer assorbe e reinterpreta i modelli mutuati dagli adulti, persino la religione con i suoi concetti di colpa e pena è rielaborata dal basso attraverso le superstizioni che Tom e Huck continuano a citarsi addosso l’un l’altro. Tom fa dell’interpretazione personale un punto di forza, egli rielabora modelli letterari (come Robin Hood) e azioni compiute dagli adulti per produrre deduzioni personali “altre”. Tom poi ama la natura e nonostante sia necessariamente legato alla famiglia (lo dimostra il ritorno nottetempo dalla fuga piratesca insieme ad Huck e Joe Harper solo per baciare la fronte di una dormiente zia Polly) desidera continuamente di immergervisi. Tom è una chiara rappresentazione del pensiero trascendentalista (che avev già influenzato Abraham Lincoln), è la manifestazione di un idealismo e ottimismo che trova espressione nel culto della natura e della self-reliance. Mark Twain risponde così all’arido e mellifluo pensiero dominante, fatto di sterile e improduttivo rigore, moralismo da sottana (splendido l’inserto riguardante i temi svolti dalle signorine all’esame elementare) e minimalismo da steccato (incarnato perfettamente da Sid che non lascia mai l’abitazione se non per andare a scuola o in chiesa).

All’orizzonte si estende il totemico fiume Mississippi, pronto ad accogliere il percorso liberatorio dei protagonisti, ma che solo nel volume Le avventure di Huckleberry Finn, grazie anche alla figura dello schiavo Jim, potrà realmente farsi simbolo di libertà e rendere adulto il picaresco giocoso di questo volume. Solo allora il Mississippi diverrà perfetta metafora delle ansie della società americana, attraversata da profonde tensioni razziali e da una guerra  civile nata da tormentose divisioni di classe. 

martedì 10 luglio 2012

Grace Jones, Keith Haring e il vampirismo anni Ottanta: Vamp di Richard Wenk (1986)


Ogni volta che mi trovo di fronte a un film come Vamp (1985) ripenso alle parole usate da Lansdale nel saggio Eccitarsi per l’horror: emozioni a basso costo in cui il padre di Hap e Leonard spiega al lettore la differenza tra un b-movie buono e uno cattivo. Secondo Lansdale la discriminante è la sfrenata energia priva di pretese con cui certe pellicole sono in grado di mettere in scena le proprie idee giocando con immaginari e materiali propri della cultura pop. Vamp dimostra di possedere quest’energia già dall’introduzione: una sequenza da horror classico seguita presto da un ribaltamento/disvelamento del trucco cinematografico. Dopo pochi minuti scopriamo che il convento medievale e le figure incappucciate che iniziavano giusto a turbarci altro non sono che un campus dall’austera architettura gotica e un gruppo di beoti campy alle prese con un’iniziazione da confraternita. Il disvelamento avviene per opera dei due protagonisti, Chris “occhio glauco” Makepeace e Robert Rusler (nel film rispettivamente Keith e AJ), che stanchi della messa in scena (ma sempre desiderosi di vivere in uno dei lussuosi alloggi della confraternita) si ritrovano a dover cercare una spogliarellista per la serata. Recuperato il collega ricco e nerd Duncan (Gedda Watanabe), i due raggiungono l’After Dark, locale per soli adulti dalla pericolosa allure.

venerdì 6 luglio 2012

RADICI: My best friend's birthday di Quentin Tarantino (1987)


Conoscere la genesi del primo film di Quentin Tarantino My best friend’s birthday significa scoprire e comprendere le radici che hanno alimentato (e alimentano tutt'oggi) il successo del regista di Kill Bill e Bastardi senza gloria. Tutti, si sa, abbiamo bisogno di incoraggiamento all'inizio del percorso che abbiamo scelto di intraprendere, così anche Quentin che iniziò la sua incredibile carriera grazie all’incontro con Lawrence Bender, il futuro produttore di tutti i suoi successi: da Le Iene a Jackie Brown, da Pulp Fiction a Four Rooms. Conosciuto durante un party a Hollywood Bender consigliò al giovane Tarantino, allora ancora studente e impiegato del Manhattan Beach Video Archivies, di buttare giù una sceneggiatura. Detto fatto ed ecco che scritto a quattro mani insieme a Craig Hamann e girato dal solo Tarantino fu realizzato in bianco e nero My best friend’s birthday in cui i due autori recitano nei ruoli dell’invadente Clarence e del suo amico Mickey. Il progetto – probabilmente come è giusto che sia per un esperimento iniziale – prese molto tempo a causa di diverse difficoltà riguardanti le location e la troupe e infine abortì a causa di un incendio nel laboratorio di sviluppo che distrusse gran parte del girato (quel che ne rimane è reperibile su Youtube, tutti i video sottotitolati in italiano sono disponibili alla fine del post).

giovedì 5 luglio 2012

Il Lansdale Avant-Pop: Maneggiare con cura


Posta all’interno della collana Avant-Pop di Fanucci Editore, curata da Luca Briasco e Mattia Carratello – uno dei pochi progetti editoriali antesignani e indicativi – il volume Maneggiare con cura di Joe R. Lansdale (2002) occupa una posizione di rilievo sia per il materiale narrativo di cui è costituito (una raccolta di tredici racconti seguiti da due interventi sulla cultura del drive-in e sul cinema horror) sia per com’è stata elaborata l’antologia dai due curatori per il mercato italiano. Lansdale stesso poi non ha mai fatto segreto di preferire la forma del racconto al romanzo, e non manca mai di precisare (spesso anche durante i suoi tour di presentazione) quanto egli ami lavorare a storie brevi e immaginifiche.
La selezione dei racconti di Maneggiare con cura è un saggio esaustivo della visione narrativa di Joe R. Lansdale, della sua eccezionale capacità di assimilare e rimaneggiare modelli, stili, generi e registri linguistici. In questo senso Lansdale è un artista Avant-Pop, cosciente che non sono più solo le risorse tradizionali (il mito, i classici, la bibbia, la musica e la letteratura) a fornire al pubblico immagini-chiave, personaggi, metafore e archetipi narrativi, bensì sono le risorse della cultura popolare a fornire punti di riferimento, a «spiegare chi siamo, che cosa vogliamo o di cosa abbiamo paura e come ci vediamo proiettati nel mondo» (Larry McCaffery). Nella preziosa postfazione di Luca Briasco e Mattia Carratello sono individuati con precisione quali siano i modelli di riferimento dello scrittore texano. Vale la pena riportarli «In primo luogo Mark Twain, per più di una ragione: una vis comica sempre venata di cattiveria e di anarchismo; la dimensione totalmente orale del linguaggio e dello stile; la scelta di un regionalismo che non rinuncia a proporsi come universale. Poi Ambrose Bierce, per la contaminazione tra livello realistico e fantastico e per la controllata amarezza dello sguardo gettato sugli orrori di un mondo in costante conflitto. E gli anni Trenta e la Depressione di James Cain e di Erskine Caldwell, popolati da poveri “bianchi” sbandati e incattiviti, quasi naturalisticamente condannati prima ancora di vivere. E ancora la tradizione del gotico sudista, da Faulkner a Flannery O’Connor fino a Cormac McCarthy, nella messa in scena del corpo a corpo tra bellezza e depravazione, tra civiltà e barbarie, tra natura e cultura, tra bianco e nero. I grandi maestri della scrittura di genere, infine, capaci di traslare questa letteratura in uno strumento privilegiato di analisi e di visione: da Robert Bloch a Richard Matheson, da Ray Bradbury a Jim Thompson.». Credo sia doveroso aggiungere H. P. Lovecraft che su quasi ciascuno di questi autori allunga la sua ombra.