martedì 2 ottobre 2012

Faust di Aleksandr Sokurov (2011)

di Gianluca Stirpe

È un Faust limitato dal corpo quello di Aleksandr Sokurov. La carne, le necessità della carne strappano il volo dello spirito, per dirla brutalmente è questo l’oggetto narrativo della pellicola. Saltando le innumerevoli recensioni apparse dalla sua uscita nelle sale, sale assai sparute, che hanno sottolineato il genio del regista o la pesantezza della pellicola, in un’opposizione di opinioni agghiacciante per superficialità e polemica gratuita. 
Procediamo per gradi. 

1. La storia. La pellicola, come indicato nei titoli, è liberamente ispirata all’opera goethiana. Forse più di ogni altra rappresentazione cinematografica esistente, quella di Sokurov, evidenzia l’elemento classico presente nell’opera letteraria. Manca il pathos egotico della colpa, e questo è un punto a favore del film, ed è presente l’ironia, a tratti anche amara, che ha difettato altri tentativi sul tema, fatto salvo però quello di Svankmajer. 
La solita diade vita VS morte, è qui allargata con la sorella ignobile conosciuta come fame. Tutti hanno fame, il corpo è affitto da quella punizione quasi divina per chi, distogliendo la sua attenzione dalle questioni pratiche della terra, rincorre una sapienza dello spirito e dell’anima. Il corpo è la zavorra dello spirito, la sua fame, la sua carne, le sue voglie, le sue necessità sono l’ancora dell’uomo. La cacciata dall’Eden non è stata la fatica, il lavoro e il dolore, ma il corpo, l’organo pesante che schiaccia sulla terra. 
I personaggi si affollano negli spazi angusti di un'interiorità casalinga, di una cittadella stretta, satura di uomini, donne, animali. Si passa, ci si strofina, ci si schiaccia addirittura. La vita e la morte si scontrano, come nel corteo funebre iniziale. 
In quest’amalgama di umani, il Dottor Faust accompagnato dal suo devoto assistente, vive distaccato, preso dalla ricerca e conoscenza del mondo, una specie di altro-mondo, punto di osservazione. Quel pianeta che osserva, è il suo vincolo, è la terra radice del suo corpo, lo stesso che gli impedisce le ascese verso la conoscenza dello spirito e dell’anima. Faust è il dottore che cerca l’anima nella carne, nel fondo terroso dell’humus umano, scava, taglia e affonda nei corpi sul tavolo operatorio, disseziona gli organi in cerca del rifugio dell’anima, inutilmente. Suo padre, sorta di medico arcaico, guaritore delle ossa, con i suoi macchinari, invece che cercare, ripara, sistema e fa funzionare i corpi, ne ritarda la morte, forse. Si tratta di una morte onnipresente, al par della gloria del dio pregato nelle chiese e professato dai preti, risuona nelle pestilenze, nelle spade dei soldati, nei crampi della fame. È un mondo crudele, quanto buffo per la sua semplicità: tanto facile vi si nasce, tanto facile lo si lascia. 
E c’è il Diavolo, a mezza via tra la figura del ruffiano e l’illuminato sull'assurdità della vita, un incrocio tanto vitale di consapevolezza da rifuggire ogni scorciatoia nichilista. Un Diavolo felice, non affamato e tanto riverente, dallo spirito sottile come una lama, di chi ha già visto chissà quante volte l’uomo perdersi nei suoi vizi, spendere tutto il proprio tempo inutilmente, ignorando totalmente anche i più rumorosi echi delle ammonizioni senechiane. Il Diavolo è tentatore, ma non nel senso contemporaneo della tentazione dell’anima, quanto del corpo, è un furbo attore da romanzo picaresco, che sollazza il corpo, e di conseguenza lo spirito in esso nascosto. Qui lo spirito dei preti è nascosto in ogni ventricolo della carne, è un suono flebile nel frastuono delle necessità e della sopravvivenza. In fondo questo Diavolo è un manipolato e non manipolatore, quasi un burattino, come nella pellicola di Svankmajer. Il suo è un male ingenuo, che collassa su se stesso, innocuo quando si scontra con il male umano. 
È un male quello umano, che si genera e autoalimenta. Circolo vizioso dell’esistenza. La giovane Margarethe è il bocciolo fresco dell’alba, anch'ella destinata alla marcescenza della vita. La giovane è il desiderio che schiaccia di Faust nel mondo, lo affonda nella terra, nella carne. Il desiderio che piano s’insinua nella giovane, è la tomba umida che cancella l’innocenza, è la fine dell’ingenuità. Anche per lei iniziano i sottili inganni e bugie per incontrare il Dottore. La via della loro unione stregata, viziata da una non specifica magia, è di una linearità tale da rendere del tutto naturali i raggiri, gli inganni, e quegli incidenti verso l’incontro carnale. 
Dono della pellicola è mostrare come il male non appartiene a entità esterne che insinuano nell'uomo la malvagità, ma è lo stesso male a costituire l’umano. La linfa umana pesca la sua essenza anche dalla radice maligna. Non si salva nessuno, ognuno è maligno, sia esso dottore, mendicante, soldato reso arido dalla fame. Faust è lo studioso affamato di conoscenza, capace di annientare pur di conoscere e procedere nella sua conquista. 

2. La pellicola. È inutile dire che il Leone a Venezia sia stato meritato. Sokurov possiede una passione per la sperimentazione visiva, che invece di stupire in ipertecnicismi virtuali, lavora sulla pellicola, sulla luce, modella la fotografia creando sottolineature semantiche davvero intense. Ogni colore nel Faust ha la sua valenza, la luce fa da padrona, i colori sono densi, iniettati di storia. La ricerca del particolare, come le trame dei tessuti, l’usura dei materiali, i riferimenti iconici, impreziosiscono il film, la pellicola con il suo risultato visivo, dona un microcosmo racchiuso in una bolla temporale filologicamente coerente, che da un lato quasi possiede i pregi del documentario per il realismo, dall'altro regala un corpo narrativo assai denso semanticamente. 
Il film è caratterizzato da una spiccata impronta letteraria, l’opera goethiana risuona in ogni angolo della scena, e i personaggi, nel carnevale delle parti, sono resi nelle loro sfaccettature e mutazioni al pari dei personaggi letterari. Il pregio del Faust non è la sua prossimità all'opera letteraria, quanto quella di costituirsi opera a sé. 
L’inferno finale, quello di ghiaccio e fuoco, terra di pietre, è parte della terra. Il Diavolo, Lucifero, in fin dei conti, nel suo ingenuo progetto maligno, è innocuo, compra l’anima dall'uomo, fa firmare tanto di contratto con il sangue, ma quale anima possiede colui che è ossessionato dalla ricerca, colui che svuotato dalla vita la cerca sempre oltre, oltrepassando e conquistando la minuscola sfera nell'universo, spargendola di sangue, quello di suo padre, di suo figlio, il suo. Sono due poveri diavoli, sia quello con il bastone caprino che quello con la penna intinta nel sangue. Sono fratelli, vittime sacrificali reciproche. 
Il Dottor Faust, è un Dante della modernità abbandonato da Virgilio, in compagnia di un demonio incapace di dargli risposte. Sono cambiati i tempi e non esistono più domande vietate, esiste solo una spaventosa fame inestinguibile di conoscenza e voglia di oltrepassare e di conquista. 

È questa la pellicola di Sokurov, la densa metafora di una modernità che si eleva sulle sue fondamenta come una nuova torre di Babele, con le pareti più resistenti, frutto di una tecnica e conoscenza più affinata, che sfida i cieli e poggia le sue fondamenta sugli inferi. 

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