«I
progressi scientifici possono aiutare l'uomo o farlo sprofondare nell'abisso,
invece l'arte non tradisce mai». (P. Almodóvar)
Almodóvar in La pelle che abito fa sua la lezione di Rosalind Krauss che muove dal concetto di index, di archivio per esplorare i concetti di informe, inconscio ottico e collage. Basti pensare alla collezione di capsule Petri nel laboratorio del protagonista Robert Ledgard (Antonio Banderas) o al muro su cui Vera (Elena Anaya) scrive e accumula microdati e date (es. la ripetizione della parola “respiro”) che restituiscono il suo terrificante percorso di formazione e di genere. Riconosciamo quest’operazione nel percorso silenzioso di Vera all’interno della sua prigione (un luogo interno, violentato continuamente dallo sguardo esterno dello spettatore/creatore Ledgard). Vera smembra e riduce a frammenti informi i vestiti da donna, trova sicurezza all’interno della forma, della superficie sempre più impenetrabile che la imprigionerà per sempre, lo fa attraverso la meditazione, lo yoga. Sempre sul sentiero dell’informe Vera fa esperienza di sé attraverso la visione e l’imitazione delle sculture di Louise Bourgeois, che ha magistralmente rappresentato la percezione della sessualità, della famiglia e della solitudine, attraverso immagini-trasfigurazione degli organi genitali.
Rosalind Krauss |
Louise Bourgeois |
In conclusione è bene ricordare che la tragedia è per Almodóvar
un importante punto di riferimento: il racconto orrifico di Marilla a Vera
sulle sorti della moglie di Robert, il conflitto tra fratelli, la follia come
seme, il climax finale a unire madre e figlio. La visione è però puramente
cinematografica, ed è ambiziosa, la riflessione su forme e visione si ritrova
nella regia, nei diversi punti di vista che recuperano la lezione di Hitchcock
e quindi di De Palma, nell’espressionismo e surrealismo di certe composizioni corporali: l’ingrandimento
della telecamera sul volto di Vera in soggettiva di Robert, gli esercizi
statici di Vera che citano chiaramente Pina Bausch, l’aspetto nero e marcato, da femme fatale, di
Vera durante il climax finale e il continuo parallelismo di corpi e identità a rendere iconici i momenti di maggiore pathos.
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