Facile
affezionarsi a Vikar, il protagonista del capolavoro avant-pop di Steve
Erickson Zeroville. Arrivato a
Los Angeles dalla provincia americana con i volti di Montgomery Clift e Liz
Taylor tatuati sul cranio per
affrontare un viaggio onirico su una strada fatta di frame cinematografici. Il romanzo di Steve Erickson però è molto più che una riflessione sull’appeal nero
dell’industria del cinema, sa infatti farsi allo stesso tempo bellezza e
orrore, “primo piano” e “campo lungo”. La stessa struttura del romanzo dà al
lettore la sensazione di una lunga seduta in sala di montaggio, dove viene
rivelata la costruzione temporale della Storia: «Il cinema c’era già prima di
Dio. Il tempo è circolare come una pizza di pellicola».
Leggere Zeroville
è come scorrere fra le dita una pellicola, osservando a contrasto ogni singolo
fotogramma. È la rivelazione apparsa per caso sullo schermo bianco di un cinema
notturno sulla Hollywood Boulevard. È la vischiosa e spasmodica ricerca di
un’immagine sopita. Osservare il «cineautistico» Vikar venire a contatto con i
luoghi che per tanto, troppo tempo, ha solo sognato di attraversare è
un’esperienza totale. La prosa di Erickson è scientemente avant-pop e delizia
in ogni dettaglio, il lettore è presto rapito da un turbinio di citazioni (dalle
liste dei film visti da Vikar durante il suo soggiorno a Los Angeles alla
collezione di pizze che il nostro ha raccolto durante la sua esistenza), di
riferimenti biblici legati alla cultura cattolicissima del padre violento e di
simbologie legate alla migliore tradizione surrealista. Un loop raffinato e
originale dal quale davvero non si vorrebbe mai uscire.
Al fianco di
Vikar si muove tutta una fauna cinefila e sdrucita di surfisti e cineasti (tra
i quali il lettore più attento e colto saprà riconoscere volti noti del
panorama cinematografico americano ed europeo) come il Vichingo che lo
trascinerà in Spagna a montare una sorta di Sceicco Bianco in salsa
iberica, Dotty Langer, probabilmente l’ultima erede del mainstream “artigiano”
di Hollywood e ovviamente Soledad, silfide di celluloide e autentico spirito
panico avvinghiato al sesso di Vikar. Nessuno di essi però sarà in grado di catturare la
sua attenzione quanto Zazi, la piccola punk figlia di Soledad. Proprio lei
incarnerà l’unica e sola chiave di volta della storia accompagnando Vikar sul
viale del tramonto, verso un finale immaginifico e sofferto, costruito sulla
spasmodica ricerca di singoli e ancestrali fotogrammi nascosti in tutti i film
mai prodotti («Dio odia il cinema perché il Cinema è la prova di quel che Lui
ha fatto»).
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