martedì 1 novembre 2011

Zeroville di Steve Erickson (2007)


Facile affezionarsi a Vikar, il protagonista del capolavoro avant-pop di Steve Erickson Zeroville.  Arrivato a Los Angeles dalla provincia americana con i volti di Montgomery Clift e Liz Taylor tatuati sul cranio per affrontare un viaggio onirico su una strada fatta di frame cinematografici. Il romanzo di Steve Erickson però è molto più che una riflessione sull’appeal nero dell’industria del cinema, sa infatti farsi allo stesso tempo bellezza e orrore, “primo piano” e “campo lungo”. La stessa struttura del romanzo dà al lettore la sensazione di una lunga seduta in sala di montaggio, dove viene rivelata la costruzione temporale della Storia: «Il cinema c’era già prima di Dio. Il tempo è circolare come una pizza di pellicola».

Leggere Zeroville è come scorrere fra le dita una pellicola, osservando a contrasto ogni singolo fotogramma. È la rivelazione apparsa per caso sullo schermo bianco di un cinema notturno sulla Hollywood Boulevard. È la vischiosa e spasmodica ricerca di un’immagine sopita. Osservare il «cineautistico» Vikar venire a contatto con i luoghi che per tanto, troppo tempo, ha solo sognato di attraversare è un’esperienza totale. La prosa di Erickson è scientemente avant-pop e delizia in ogni dettaglio, il lettore è presto rapito da un turbinio di citazioni (dalle liste dei film visti da Vikar durante il suo soggiorno a Los Angeles alla collezione di pizze che il nostro ha raccolto durante la sua esistenza), di riferimenti biblici legati alla cultura cattolicissima del padre violento e di simbologie legate alla migliore tradizione surrealista. Un loop raffinato e originale dal quale davvero non si vorrebbe mai uscire.


Al fianco di Vikar si muove tutta una fauna cinefila e sdrucita di surfisti e cineasti (tra i quali il lettore più attento e colto saprà riconoscere volti noti del panorama cinematografico americano ed europeo) come il Vichingo che lo trascinerà in Spagna a montare una sorta di Sceicco Bianco in salsa iberica, Dotty Langer, probabilmente l’ultima erede del mainstream “artigiano” di Hollywood e ovviamente Soledad, silfide di celluloide e autentico spirito panico avvinghiato al sesso di Vikar. Nessuno di essi però sarà in grado di catturare la sua attenzione quanto Zazi, la piccola punk figlia di Soledad. Proprio lei incarnerà l’unica e sola chiave di volta della storia accompagnando Vikar sul viale del tramonto, verso un finale immaginifico e sofferto, costruito sulla spasmodica ricerca di singoli e ancestrali fotogrammi nascosti in tutti i film mai prodotti («Dio odia il cinema perché il Cinema è la prova di quel che Lui ha fatto»).
 Arrivare alla ricostruzione finale significherà per Vikar prendere coscienza della potenza onirica del cinema e varcare la soglia del surreale per approdare infine in una camera d’albergo insieme allo spettro del venerato Montgomery Clift. Giusto qualche istante prima che la parola fine appaia malinconica sullo schermo.

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