mercoledì 25 aprile 2012

La lupa di Turi Giordano e Guia Jelo


Uno scenario di pietra lavica si estende per tutta la lunghezza del palcoscenico su un fondale atmosferico cangiante. La roccia si dipana a formare anfratti, scalini, sedili, sentieri, costruisce lo spazio scenico che sarà sintesi della dicotomia interno/esterno così importante per Giovanni Verga, sia nella sua novella La lupa (1880) sia nella riduzione teatrale che egli stesso realizzò e rappresentò al Teatro Gerbino di Torino nel 1986. A riportare sulla scena La lupa oggi il regista Turi Giordano e l’attrice Guia Jelo (Le buttane) con le musiche del compositore Matteo Musumeci (cui dobbiamo la presenza della meravigliosa versione di ‘A curuna cantata dalla Jelo). Giordano e Jelo pur mantenendo inalterato le prerogative sensuali e primigenie del personaggio di Verga ne ridefiniscono i connotati mettendo in risalto il travaglio e il dolore fatale della ‘gna Pina che, arsa dalla sua stessa passione, muove a gran passo verso la tragedia.
Turi Giordano - dopo l’introduzione danzante di Mara - apre i dialoghi su una fiaba narrata al crepuscolo, quando il lavoro dei campi è concluso e i braccianti si raccolgono a prendere il fresco della sera, cantare, ballare e raccontare storie. Non a caso è una fiaba orale a traslare dall’immaginario fantastico il simulacro della Baba Jaga, della strega e seduttrice (che nel racconto non risparmia neanche un parroco), una donna che dal racconto orale si materializza e incede man mano che la descrizione passa (per voce di Michele Placido, che nel film La lupa di Alberto Lattuada interpreta il bracciante Malerba) al reale durante l’ingresso della ‘gna Pina, detta “la lupa”, sulla scena. I grandi occhi neri, il pallore, le labbra vermiglie (esposte fiere all’occhio di bue dalla Jelo durante il suo ingresso in scena) si materializzano ammutolendo le donne, che corrono a farsi il segno della croce, ed eccitando gli uomini che fanno a gara per stringerla a sé.

Guia Jelo
La lupa della Jelo è diretta discendente delle donne fatali della tragedia greca: Medea, Clitennestra, Ecuba, Fedra (portata già in scena dalla stessa Jelo). Indipendente e conscia della sua natura ferina e sensuale, non si oppone a essa ma ne rappresenta i tratti con doloroso travaglio. Ad accentuare il carattere mitico della riduzione di Turi Giordano le esplosioni fatali dell’Etna (lu Mungibieddru) che sembrano voler comunicare il disappunto degli dei e che tutti, eccetto la lupa, si voltano ammutoliti a osservare.
 La lupa desidera il rozzo e semplice bracciante Nanni che la rifugge, si muove nella notte come una creatura sovrannaturale per assaggiarne la carne, tentarlo e finalmente saziarsene, non prima di aver ceduto alle richieste dell’uomo che desidera sposare la figlia della lupa, Maricchia, per carpirne così la roba. Nella riduzione di Giordano/Jelo la cessione di Mara e della roba da parte della lupa è un momento doloroso e non machiavellico e subdolo. La lupa soffre per la sua stessa fame, appena poggiati gli occhi su Nanni è lei a subire l’incantesimo demoniaco che tutti le attribuiscono. Alla donna che fiera incede fra le malelingue non rimane che chinare il capo alle richieste di un semplice bracciante che vuole accomodarsi. È così che sciolto il corpetto rosso sul seno florido e bagnato dall’acqua presa al fiume, strette le ginocchia dell’amato (in senso di pietà e sottomissione come nella tragedia greca) la lupa può finalmente avere il corpo di Nanni.
Il finale è introdotto sul proscenio dal racconto di Maricchia, ormai sposa di Nanni. La donna racconta di come la lupa non abbia resistito negli anni a sedurre il genero che obnubilato corrispondeva continuando a cercarla, Mara narra poi di come il calcio di una mula abbia messo Nanni in fin di vita, evento che lo ha redento a buon padre di famiglia. La scena torna in piena luce, la scenografia di pietra lavica ora rappresenta la sacralità privata della casa. È qui che si consumerà il finale tragico verso cui si avviano gli scellerati attori della vicenda: Mara, finalmente conscia dell’eredità scellerata lasciatele dalla madre, il sempre più confuso, debole e vinto Nanni e la lupa che avvolta in un velo scuro si avvia verso il suo fatale destino. È qui, nel finale, che Guia Jelo raggiunge il punto più alto, regalando al pubblico un’interpretazione vibrante, surreale nella follia che indoviniamo nella sua voce, tragica nell’abbracciare il suo destino segnato da Eros e Thanatos, nel nudo plastico della Jelo che chiude la scellerata vicenda della Circe dei campi. 

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