sabato 16 giugno 2012

Eterno ritorno e visione solipsistica: Le regole dell'attrazione di Roger Avary (2002)


Lo stesso Bret Easton Ellis ha voluto precisare che la riduzione del suo Le regole dell’attrazione realizzata da Roger Avary è l’unica, fra le trasposizioni cinematografiche dei suoi libri, a essere stata in grado di cogliere la sensibilità del suo lavoro. Personalmente non riesco a immaginare altro volto che il faccione fresco di scrub di Christian Bale per Patrick Bateman ma sono convinto che il merito del regista di Killing Zoe sia davvero quello di aver compreso e interpretato la natura dei personaggi creati da Bret Easton Ellis. Sean Bateman (James Van Der Beek), Lauren Hynde (Shannyn Sossamon) e Paul Denton (un giovanissimo ed efebico Ian Somerhalder) rappresentano una generazione ectoplasmatica, figlia della gravidanza extrauterina del boom economico. Una generazione che ha già imparato a celare se stessa sotto quella superficie minimale che diventerà poi un’arma (negli anni Novanta del rampantismo bipolare di American Psycho) e infine una prigione di collagene (nel fine-impero di Imperial Bedrooms). Avary nella realizzazione de Le regole dell’attrazione fa precise scelte stilistiche (che hanno reso il film un vero oggetto di culto) e lavora sulla rappresentazione circolare del tempo. Il The end of the world party apre e chiude il racconto e la regia è impostata sulla filosofia analogica del «rewind-stop-play». Alla base della visione di Avary c’è l’eterno ritorno postmoderno associato al culto dell’home video e all’amore per il frammento e l’intertestualità. È questo che rende Le regole dell’attrazione così fedele allo spirito del minimalismo di Bret Easton Ellis e ne fa un manifesto generazionale di valore storico.

Incontro in split screen
Avary ha amato ogni pagina del romanzo, ogni sua elucubrazione umorale e nevroromantica, riuscendo a trasporre alcuni momenti delle vicende all’interno dello scellerato campus di Camden con grande maestria. Sono esempi felici la rappresentazione sincopata del viaggio in Europa di Victor Ward o l’allure pulp delle scene girate a casa dello spacciatore cui Sean deve tremila dollari. In Le regole dell’attrazione è il mismatch emozionale - alla cui base c’è l’impossibilità accertata di comunicare - a condurre i protagonisti in un inferno solipsistico senza redenzione. Si pensi all’ossessione candida e sterile della ragazza senza nome nei confronti di Sean, manifestata solo sottoforma di lettere viola farcite di brillantini teen lasciate nella sua cassetta della posta, o all’attrazione di Paul per lo stesso Sean e all’impossibilità di quest’ultimo di confrontarsi da pari con Lauren, un confronto che sappiamo impossibile già dalla sequenza gemella in split screen che vede i due raggiungere un corso sugli effetti dell’autopsia. Le regole dell’attrazione è una rappresentazione solo apparentemente circolare e sterile, per i tre protagonisti c’è ancora una via di fuga, se così si può definirla, costituita dalla presa di coscienza e dalla ieratica espressione di attesa del nulla e dell’orrore che arriverà. Nel finale Lauren e Paul osservano Sean che lascia il campus sulla sua motocicletta dopo l’End of the world party (le cui scene sono state profeticamente girate l’undici settembre 2001), sanno già che non c’è redenzione per «gente come loro», si sono già detti a vicenda (tramite l’anello mancante Sean) che «nessuno conosce nessuno. Mai». Sanno anche che c’è qualcosa di rituale e mistico nella fuga dall’isolamento scellerato di Camden del loro oggetto del desiderio, nel suo ostinarsi a imboccare una strada perduta di matrice lynchiana che consegna le sorti di una generazione direttamente nelle mani imbrattate di sangue dei manager di Wall Street.


Nessun commento:

Posta un commento