Lo stesso Bret Easton Ellis ha voluto precisare che la riduzione del suo Le regole dell’attrazione realizzata da Roger Avary è l’unica, fra le trasposizioni cinematografiche dei
suoi libri, a essere stata in grado di cogliere la sensibilità del suo lavoro.
Personalmente non riesco a immaginare altro volto che il faccione fresco di
scrub di Christian Bale per Patrick Bateman ma sono convinto che il merito del
regista di Killing Zoe sia davvero quello
di aver compreso e interpretato la natura dei personaggi creati da Bret Easton
Ellis. Sean Bateman (James Van Der Beek), Lauren Hynde (Shannyn Sossamon) e Paul Denton (un
giovanissimo ed efebico Ian Somerhalder) rappresentano una generazione ectoplasmatica,
figlia della gravidanza extrauterina del boom economico. Una generazione che ha
già imparato a celare se stessa sotto quella superficie minimale che diventerà poi
un’arma (negli anni Novanta del rampantismo bipolare di American Psycho) e infine una prigione di collagene (nel
fine-impero di Imperial Bedrooms).
Avary nella realizzazione de Le regole dell’attrazione fa precise scelte stilistiche (che hanno reso il film un
vero oggetto di culto) e lavora sulla rappresentazione circolare del tempo. Il The end of the world party apre e chiude
il racconto e la regia è impostata sulla filosofia analogica del «rewind-stop-play».
Alla base della visione di Avary c’è l’eterno ritorno postmoderno associato al
culto dell’home video e all’amore per il frammento e l’intertestualità. È questo
che rende Le regole dell’attrazione così
fedele allo spirito del minimalismo di Bret Easton Ellis e ne fa un manifesto
generazionale di valore storico.
Incontro in split screen |
Avary ha amato ogni pagina del romanzo, ogni sua elucubrazione
umorale e nevroromantica, riuscendo a trasporre alcuni momenti delle vicende
all’interno dello scellerato campus di Camden con grande maestria. Sono esempi
felici la rappresentazione sincopata del viaggio in Europa di Victor Ward o l’allure pulp delle scene girate a casa
dello spacciatore cui Sean deve tremila dollari. In Le regole dell’attrazione è il mismatch
emozionale - alla cui base c’è l’impossibilità accertata di comunicare - a
condurre i protagonisti in un inferno solipsistico senza redenzione. Si pensi
all’ossessione candida e sterile della ragazza senza nome nei confronti di Sean, manifestata solo sottoforma di lettere viola farcite di
brillantini teen lasciate nella sua
cassetta della posta, o all’attrazione di Paul per lo stesso Sean e all’impossibilità
di quest’ultimo di confrontarsi da pari con Lauren, un confronto che sappiamo
impossibile già dalla sequenza gemella in split
screen che vede i due raggiungere un corso sugli effetti dell’autopsia. Le regole dell’attrazione è una
rappresentazione solo apparentemente circolare e sterile, per i tre
protagonisti c’è ancora una via di fuga, se così si può definirla, costituita
dalla presa di coscienza e dalla ieratica espressione di attesa del nulla e
dell’orrore che arriverà. Nel finale Lauren e Paul osservano Sean che lascia il
campus sulla sua motocicletta dopo l’End
of the world party (le cui scene sono state profeticamente girate l’undici
settembre 2001), sanno già che non c’è redenzione per «gente come loro»,
si sono già detti a vicenda (tramite l’anello mancante Sean) che «nessuno
conosce nessuno. Mai». Sanno anche che c’è qualcosa di rituale e mistico nella
fuga dall’isolamento scellerato di Camden del loro oggetto del desiderio, nel suo
ostinarsi a imboccare una strada perduta
di matrice lynchiana che consegna le sorti di una generazione direttamente nelle
mani imbrattate di sangue dei manager di Wall Street.
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