In Somewhere, Johnny Marco (Stephen Dorff)
è una star del cinema che si muove in una scena contemporanea sfinita, sognante
e autoreferenziale. Il sesso, il denaro, gli oggetti di lusso (a partire dalla
Ferrari nera che gira in tondo nel deserto all'inizio del film), tutto è
sfiatato e privato di significato per Johnny, che – a detta della stessa Sofia
Coppola – riprende il cinismo, la stanchezza e la presa di coscienza sullo show
business del Toby Dammit di Federico
Fellini. Come per quest’ultimo sarà una bambina a scompaginare l’esistenza del
protagonista - qui però ribaltata da agghiacciante essere demoniaco a salvifico
angelo – la piccola Cleo (Elle Fanning), figlia di Johnny, che piomba allo
Chateau Marmont per scompaginare la sua esistenza piatta e bidimensionale. Cleo
è l’elemento fiabesco per eccellenza, i suoi sorrisi all'indirizzo del padre,
il suo muoversi al suo fianco, raccontano molto più che le parole cosa può
essere un rapporto padre-figlia. Dal suo arrivo l’universo sfinito e
artificiale di Johnny sarà costretto a confrontarsi con la naturalezza e il
candore di Cleo. Movimento che trova il giusto climax nel viaggio in Italia che
i due intraprendono per ritirare il Telegatto. Il lusso che avvolge produttori
e starlette, l’imbarazzante teatrino
con Valeria Marini sul palco della kermesse, tutto è demistificato dal
confronto con Cleo.
Come
nelle pellicole precedenti Sofia Coppola coglie il suo protagonista in un
momento di transizione, un momento che Johnny inizialmente non percepisce, che
rifiuta piuttosto rudemente, prima di abbracciarlo e buttarvisi a capofitto –
come nella piscina in cui gioca con Cleo o fra le morbide coperte di un lettone
finalmente condiviso con amore - prima del finale sulle note della meravigliosa
I'll Try Anything Once dei The
Strokes (che io stesso ho difficoltà a sentire senza commuovermi) e con l’abbandono
della metaforica Ferrari Nera fra la polvere di una strada qualunque, per l’appunto
somewhere.
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